È difficile che si arrivi a una condanna, impossibile che i condannati arrivino ad espiarla, e tuttavia è evidente che Joseph Ratzinger, William Levada, Angelo Sodano e Tarcisio Bertone siano imputabili del reato di crimine contro l’umanità, anche se quasi certamente il Tribunale Penale Internazionale non arriverà a formalizzare l’accusa, ma per ragioni di mera opportunità.
Prima di analizzare gli elementi che rendono imputabili i quattro, bisogna precisare che la loro responsabilità è posta all’attenzione dei giudici in relazione ai ruoli di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (Ratzinger e Levada) e di Segretario di Stato (Sodano e Bertone), e dunque non è corretto dire che si voglia processare il Papa: la condotta di Ratzinger è in questione solo in relazione alla carica rivestita fino all’elezione al Soglio Pontificio (1981-2005). In discussione, infatti, è l’impunità che i titolari della Congregazione per la Dottrina della Fede e della Segreteria di Stato hanno garantito a numerosissimi esponenti del clero cattolico che si erano resi responsabili di abusi sessuali a danno di minori loro affidati, dall’anno in cui ai vescovi fu imposto l’obbligo dell’assoluto silenzio su questi delitti (Instructio de modo procedendi in causis de crimine sollicitationis, 1962).
In tal senso, c’è un’unica ragione perché l’accusa non sia rivolta pure ad Alfredo Ottaviani e a Franjo Šeper (Prefetti della Congregazione per la Dottrina della Fede rispettivamente dal 1959 al 1968 e dal 1968 al 1981), né ai predecessori di Sodano alla Segreteria di Stato, e cioè ad Amleto Giovanni Cicognani (1961-1969), Jean-Marie Villot (1969-1979) e ad Agostino Casaroli (1979-1990): sono morti. C’è però da precisare, in sede storica, che le responsabilità coprono un arco di tempo assai maggiore, perché la Instructio del 1962 era solo una riedizione di analogo decreto licenziato nel 1929, sul quale però non è possibile dir nulla, giacché non è mai stato reso pubblico. Della stessa Instructio del 1962, peraltro, si è saputo solo quarant’anni dopo e lì se n’è compresa la ragione, perché s’è visto che recava in frontespizio la seguente raccomandazione: “Servanda diligentiter in archivio secreto curiae pro norma interna non pubblicanda nec ullius commentariis agenda”.
Con la scoperta della Instructio del 1962 si è capito come i preti pedofili potessero godere della massima libertà d’azione, grazie alla copertura dei loro crimini assicurata da norme severissime: “Nel trattare queste cause la cosa che deve essere maggiormente curata e rispettata è che esse devono avere corso segretissimo e che siano sotto il vincolo del silenzio perpetuo una volta che si siano chiuse e mandate in esecuzione; inviolabilmente, tutti e ciascuno, a qualsiasi titolo si appartenga al tribunale o se a conoscenza dei fatti per incarichi relativi a queste cause, sono tenuti ad osservare quello strettissimo segreto che è comunemente definito segreto del Santo Uffizio, sotto pena di incorrere nella scomunica latae sententiae, immediatamente e senza altra dichiarazione”.
Appena la notizia di un abuso sessuale commesso da un prete ai danni di un minore arrivava al responsabile della diocesi, una coltre di omertà veniva stesa sui fatti perché non fosse in alcun modo intercettata dalla giustizia civile: si poteva contravvenire, certo, ma si usciva dalla grazia di Dio.
Almeno a quanto è dato sapere dopo aver ricostruito la carriera di molti preti pedofili, la giustizia ecclesiastica era mitissima, limitando per lo più la condanna al trasferimento dei colpevoli in un’altra diocesi. In pratica, li si autorizzava a reiterare i loro crimini, protetti da una rete che assicurava loro, insieme all’impunità, un facile approvvigionamento di nuove vittime.
Si è sempre reputato saggio affidare la cura di casi tanto delicati alla Congregazione per la Dottrina della Fede, tradizionalmente assai meglio armata nell’opera di controllo delle coscienze. La motivazione è sempre stata di quelle che svelano la natura più profonda della Chiesa: nell’abusare sessualmente di un minore, il prete pecca innanzitutto contro un sacramento, quello dell’ordinazione, e nel rivelare pubblicamente i crimini commessi da un suo pari, com’è nel caso in cui si rivolga alla giustizia civile per segnalarli, pecca contro un altro sacramento, quello della confessione. La vittima? Sì, nessuno nega sia in questione, poverina, ma la priorità sta nella difesa dei sacramenti. All’ex Sant’Uffizio, dunque, la cura delle norme che ne assicurino la tutela, e alla Segreteria di Stato, per il tramite delle Conferenze episcopali locali, la sorveglianza sui casi critici che possano farla venir meno. Un meccanismo efficace, lungamente collaudato, destinato a funzionare per chissà quanto tempo, soprattutto perché ignoto alle vittime e ai loro genitori, quasi sempre fervidi credenti, prima e, nonostante tutto, perché no, anche dopo l’abuso. La consegna del silenzio dietro minaccia di scomunica, l’allontanamento del pedofilo in una diocesi lontana, due caritatevoli carezze al piccino, un pugno di soldi ai familiari, e i sacramenti sono al sicuro. Tutto può durare in eterno, basta saper tenere segreto il meccanismo.
E infatti tutto fila liscio fino a quando la De crimine sollicitationis del 1962 rimane chiusa a chiave nel cassetto del vescovo e nessuno ne sa niente. Poi, la rete comincia a sfilacciarsi. Le vittime degli abusi sessuali cominciano a parlare e una lettera inviata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede ai Vescovi di tutta la Chiesa Cattolica e agli altri ordinari e membri della gerarchia ecclesiastica, che reca la firma del cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto, e che è del maggio 2001, rivela l’esistenza dell’Instructio del 1962, che ritocca in qualche punto, ribadendo: “Ogniqualvolta un ordinario o un membro della gerarchia ecclesiastica abbia una notizia almeno verosimile riguardo a un delitto riservato, dopo avere in precedenza compiuto una investigazione, segnali questa notizia alla Congregazione per la Dottrina della Fede che, qualora non avochi a sé la causa per circostanze concomitanti particolari, ordina che l’ordinario o il membro o della gerarchia ecclesiastica vada avanti attraverso il proprio tribunale trasmettendo le opportune norme”, le solite. La più significativa: “Casi del genere sono soggetti al segreto pontificio”.
È per questo riaffermare il principio che un prete cattolico debba essere sottratto alla giustizia civile che tra il 2004 e il 2005 la Corte Distrettuale del Texas dà avvio alla procedura di incriminazione del cardinal Ratzinger per obstruction of justice. L’elezione al Soglio Pontificio e l’acquisizione della carica di capo di stato estero gli procurano la suggestion of immunity e l’indagato non dovrà mai più rispondere del capo di imputazione che stava per essere formulato a suo carico: l’aver dato direttive generali al fine di coprire i responsabili di centinaia di abusi sessuali e, in particolare, di non aver dato seguito alle reiterate segnalazioni che gli giungevano da vescovi statutinensi (ma poi si è visto che era accaduto anche per casi analoghi in Germania), se non per ribadire, infastidito, la consegna al silenzio.
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