venerdì 16 settembre 2011

Ancora sulla «verità»


Di recente ho scritto che “ogni definizione di «verità» è una tautologia” e che dunque il termine rimanda a se stesso senza dimostrazione ultima di ciò che sarebbe «vero». Ho scritto anche che spesso la definizione di «verità» rimanda a quella di «realtà», che però a sua volta rimanda invariabilmente a ciò che è «vero», perché ciò che è «reale» pretenderebbe uno statuto di autonomia dal sensibile, sicché la tautologia prende forma di un cortocircuito, ma continua a restare vuota di un significato.
Rimarcando tale autonomia del «reale» dal sensibile, un lettore ha obiettato che “la «realtà» esiste indipendentemente dal soggetto che la conosce, e in questo caso quindi può dirsi sinonimo di «verità»”: in pratica, ha fatto cortocircuito. Però ha detto anche che per «realtà» può intendersi anche “la punta dell’iceberg della «verità», o il suo prodotto finale”, sicché “la «verità» [sarebbe] un processo che va conosciuto e compreso, mentre la «realtà» [sarebbe] un fatto che si manifesta nel presente”.
Avrei voluto far presente che la «manifestazione» di una cosa non è la cosa stessa, ma ho evitato di farlo, nel timore di essere frainteso usando l’espressione «la cosa stessa», che mi puzzava troppo di metafisico, ma senza avere lì per lì a disposizione un termine che non corresse il rischio di dare a «reale» la valenza di «vero», correndo perciò il rischio di fare cortocircuito anch’io. Bene, un’intervista a Leonard Susskind, sull’ultimo numero di Le Scienze (517/2011, pagg. 56-59), mi consente di chiarire perché ritengo che «la cosa stessa» sia cosa ben diversa dalla sua «manifestazione», senza con ciò doverle riconoscere lo statuto di cosa «vera», cioè di un possibile “prodotto finale” (definitivo) di un “processo” cognitivo. Con Rudolf Carnap ritengo che in questo ambito si possano fondare assunti solo su pseudoproposizioni metafisiche.
“La realtà ci rimarrà sempre incomprensibile”, sostiene Susskind, e aggiunge: “Siamo prigionieri della nostra architettura neurale”. Non è un atto di resa della ragione, anzi, Susskind ritiene che si può e si deve ancora spingerla fino i suoi limiti, ma che appunto questi limiti esistono e si possono oltrepassare solo creando modelli di «realtà» destinati sempre a rivelarsi inadeguati. Come affermavo riguardo alla «verità», ogni sua ricerca si risolve sempre in una fuga nel metafisico.
Susskind dice: “Continuiamo a inventare nuovi realismi [rappresentazioni della realtà], che non soppiantano del tutto le vecchie idee, ma le sostituiscono in gran parte con modelli che funzionano meglio, descrivono meglio la natura, e che sono spesso molto strani, spingendo le persone a chiedersi che cosa significhi la parola «realtà»”. Questo accade perché nulla come la «realtà» sembra indiscutibile al senso comune, ma “poi arriva il paradigma successivo che fa piazza pulita del precedente, e ogni volta ci stupiamo che i nostri vecchi modi di pensare, le teorie che usavamo, i modelli che avevamo creato, ora, sembrino sbagliati. […] Secondo me – conclude – dovremmo sbarazzarci della parola «realtà». Discutiamo senza impiegare la parola «realtà», è solo un ostacolo, trascina con sé cose che non servono a niente”. A maggior ragione dovremmo sbarazzarci della parola «verità».

  

10 commenti:

  1. E una volta "sbarazzati" di tali parole (realtà, verità), mi piacerebbe ascoltare (leggere) qui con quali altre parole riempire questo vuoto, per stabilire un nuovo patto tra esseri "confusi" (non oso dire prigionieri) dalla propria "architettura neurale".

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  2. Io su queste cose sono parecchio riduzionista, non uso mi «verità» se non in contrapposizione a menzogna.
    Realtà lo si può usare senza paura finché lo si contrappone a finzione; ma se lo si oppone a illusione, non necessariamente torna il corto circuito: purché sia palese che si intende rappresentazione più funzionale della precedente.

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  3. Ciao Malvino,
    tra le tante esistenti e formulabili, la definizione di "realtà" che ho scritto nel precedente post (e cioè "... esiste indipendentemente dal soggetto che la conosce") proviene dal Realismo filosofico. Non sono convinto d'aver fatto cortocircuito accostando a questa definizione anche quella di "verità": per lungo tempo non mi sono accorto che una mia collega era innamorata di me; era stata molto brava a dissimulare la "realtà". Io, però, ignoravo una "verità" (il suo sentimento) perché - prima ancora - non ero stato in grado di decifrare delle "realtà", benché celate (i suoi comportamenti, le sue espressioni, i suoi sguardi ecc...). Ora, è vero: nel commento al post precedente ho usato una parola impropria, ossia "sinonimo". Il rapporto tra "verità" e "realtà" può essere però consequenziale, e qui mi riallaccio alla seconda parte del mio primo commento. E, del resto, non mi trovi d'accordo quando affermi che ogni ricerca della verità si "risolve sempre in una fuga nel metafisico", perché sottintendi che tutte hanno uguale importanza.

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  4. @ Marcello Nardo
    Non tutte hanno uguale importanza, ma nessuna può dirsi la più importante, tanto meno dando per scontato che "nuove" verità non possano toglierle "ogni" importanza. Il valore relativo posto tra due verità induce taluni - anzi, la maggior parte - all'errore di ritenere che allora debba necessariamente porsi un suo valore assoluto, come parametro di riferimento: una verità sarebbe allora più vera di un'altra per una favorevole prossemica all'assoluto. Bene, questo modo di rappresentare il relativo implicita un assoluto di verità che, per quanto fuori dal fisico, ne sarebbe sua radice in trascendenza. In questo senso, caro Nardo, non si offenda, lei risolve il cortocircuito "verità <--> realtà" con una fuga oltre il fisico. Può darsi non ammetta una verità assoluta, ma le apre la via.

    P.S. Nulla è meno verificabile (qui inteso come dimostrazione che invera) di un sentimento. Può aversene affermazione con una proposizione o dimostrazione in una manifestazione, ma - anche in questo caso, forse soprattutto in questo caso - la "cosa stessa" non può darsi come "prodotto finale" di un "processo" cognitivo. Insomma, come fa ad essere certo che la collega la amasse? Può crederci, ma non saperlo. Così con la metafisica: può immaginare qualcosa di là dal fisico, ma altra cosa è poter dire "eccola!".

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  5. "Insomma, come fa ad essere certo che la collega la amasse?" Semplicemente perché me lo ha ribadito quando poi, anni dopo, ci siamo sposati. Il che non è certo il "prodotto finale" di un "processo" cognitivo, ma nemmeno la risoluzione del suddetto cortocircuito in una fuga metafisica.
    In sostanza: il "prodotto finale" (letteralmente inteso) di un processo cognitivo non esiste, poiché quest'ultimo è continuamente in evoluzione; semmai "prodotto più o meno provvisorio". Come, appunto, un sentimento: che certo si trasforma, ma nei suoi più intensi vissuti, nelle sue più vive emozioni, lascia chiare le vestigia del ruolo che ha giocato.

    Credo che nulla racchiuda "vero" e "reale" meglio di una emozione.

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  6. @ Marcello Nardo
    "Nulla racchiude 'vero' e 'reale' meglio di una emozione". Questo spiega tutto. Non mi trova affatto d'accordo, direi tutto il contrario. Ma spiega tutto.

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  7. Lo accetto volentieri come un complimento! Il più bello che abbia mai ricevuto da uno sconosciuto. Se non ti dispiace, copierei questo breve scambio di vedute sul mi bllog: mi è piaciuto. In bocca al lupo per tutto e continuo a leggerti.

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  8. s. hawking una volta disse: "ho notato che anche chi afferma che tutto è predestinato e che non possiamo cambiare niente del destino, guarda a destra e a sinistra prima di attraversare la strada."
    s. hawking nel "il grande disegno" dice: "come facciamo a sapere di non essere semplicemente i personaggi di una soap opera generata da computer? se vivessimo in un mondo artificiale immaginario, gli eventi non necessariamente avrebbero una qualsiasi logica o coerenza o obbedirebbero a leggi. [..] questa è una versione moderna dell'idea che noi siamo tutti creature fittizie del sogno di qualcun altro. simili esempi ci conducono a una conclusione che avrà grande importanza in questo libro: non esiste alcun concetto di realtà indipendente dalle descrizioni o dalle teorie."
    domanda: ma allora perché ogni teoria, assioma, descrizione subisce il logorio del tempo e necessita sempre revisioni, rettifiche o addirittura rivoluzioni? evviva la "riproducibilità" abbasso la "realtà".

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