“Sta facendo quello che io gli consigliavo di fare cinque o anche dieci anni fa, quando ero direttore dell’Indipendente” (Il Sole-24Ore, 22.4.2010).
Gianfranco Fini sta facendo quello che gli consigliava Giordano Bruno Guerri, quello che non ha mai smesso di consigliargli, neanche dopo essere stato sollevato dalla direzione de L’Indipendente, di cui era editore un finiano, Italo Bocchino.
Fu nel 2005. Di lì a qualche mese ci sarebbero state le elezioni regionali e L’Indipendente tornava scomodo presso il tradizionale elettorato di An con tutto quel parlare di «nuova destra», una destra che Guerri non si è mai stancato di auspicarsi “davvero liberale, liberista e anche libertaria” (il Giornale, 20.7.2006): licenziarono Guerri e al suo posto misero Malgieri.)
A quei tempi, ero molto scettico sul fatto che i consigli di Guerri potessero essere raccolti da Fini, e pensavo che quella «nuova destra», nel caso, stesse in fondo ad un lunghissimo percorso. Le ragioni del mio scetticismo interessarono in qualche modo Guerri, che mi chiese di collaborare al suo giornale. Durò solo nove mesi (una trentina di articoli e un centinaio di corsivi), perché interruppi quella collaborazione quando pensai di aver vinto la scommessa: il licenziamento di Guerri mi sembrò la prova che quella sua «nuova destra» fosse impossibile.
Su cosa potesse essere, questa «nuova destra», pochi mesi prima mi ero espresso così:
Il termine «cultura» è sommamente ambiguo. Può indicare l’insieme delle conoscenze fatte proprie da un gruppo più o meno esteso di individui, come cifra distintiva di carattere antropologico. Ma può indicare anche il comune patrimonio di pensiero, espresso nelle forme della produzione intellettuale, che quel gruppo prende a referente. Può indicare anche lo sviluppo di una tradizione di pratiche condivise, caratterizzate da comuni elementi di articolazione storica. E può indicare anche, soltanto, il minimo comune multiplo che lega eterogenee esperienze di ricerca in campo intellettivo, artistico e scientifico.
Il termine «cultura» tocca il punto più alto della sua ambiguità quando si fa tassonomia di queste esperienze, compilando liste di autorità in questi campi, affiliando ad esse il ruolo di numi tutelari, orse maggiori nel cammino delle elaborazioni individuali, sistemi, protocolli. Di qui l’ambiguità degenera nell’indistinto di consorteria, mero avamposto della secolarizzazione, carta geopolitica del prestigio e del fascino mondano, accademizzazione, cattedra e cattedrale, famiglia mafiosa di questo o quel mandamento filosofico, letterario, politico (in senso lato).
Il sommo grado di ambiguità del termine «cultura» si realizza, così, nella comune utensileria che un dato sistema produttivo (una catena di produzione intellettuale nella sua piena articolazione) si tramanda da generazione a generazione di monopolisti. La norma a regime è l’inscrizione a egemonia.
L’ambiguità che, invece, attiene ai termini di «destra» e «sinistra», su una ormai logora polarità che fondò il suo asse nella nascita e nello sviluppo della cultura politica come bastione di frontiere oggi irriconoscibili, è ambiguità di categoria socio-storica. Quando se ne adotta il metro è per mera impossibilità a muoversi in un territorio che è faglia perpetua. Fin dall’inizio, fin dal momento in cui nella Palestra della Pallacorda si disposero file di sedie su un lato e file di sedie sull’altro, il confine tra «destra» e «sinistra» si aprì in diastasi di impraticabilità politica, qui, e si sovrappose in aree di irrisolta similitudine, lì. Qualche momento di diastasi minacciò di ingoiare la differenza: per horror vacui la Storia riempì l’abisso di centrismo, e sopra vi eresse monumenti di moderatismo, tregue e sospensioni, ponti sulla faglia. Più spesso, il confine collassò, sovrapponendo i diversi: sinistre fasciste, nazi-maoismi, per dirne due.
Data l’ambiguità di questi termini, è materia di vertigine pensare, dire e scrivere «cultura di destra» e «cultura di sinistra». Però lo si pensa, lo si dice, lo si scrive. Vertigine nella vertigine è il caso davvero strano che per «cultura di sinistra» si possa dire dove sia (non «cosa sia», perché l’identificazione è topografica, dunque storica) “l’insieme delle conoscenze fatte proprie da un gruppo più o meno esteso di individui come cifra distintiva di carattere antropologico”, dove sia “il comune patrimonio di pensiero, espresso nelle forme della produzione intellettuale, che quel gruppo prende a referente”, dove sia “lo sviluppo di una tradizione di pratiche condivise” e – soprattutto, oggi, nel punto in cui l’umile sottoscritto verga queste note chiocce per un giornale della «nuova destra» – dove sia la “consorteria” di sinistra, la mafia delle cattedre, delle società editrici, delle fondazioni para-, peri- e meta-partitiche, delle congreghe, delle cooperative, delle conventicole – di «sinistra». La «cultura di destra»? Direbbe Adriano Romualdi che “non esiste una cultura di destra”, perché a corto di “organizzazione, danaro e propaganda”, ma anche perché “a sinistra si sa bene quel che si vuole [...], a destra si brancola nell’incertezza, nell’imprecisione ideologica”.
Cattolici (sedevacantisti, lefebvriani, tradizional-popolari, lepantisti, fascio-tradizionalisti, carlisti, neoborbonici, ecc.) e non cattolici (tradizional-comunitari, evoliani, esoterici-ermetici, neopagani, guenoniani, tradizionalisti-non tradizionalisti, ecc.). Oltre: conservatorismo e rivoluzionalismo, ribellismo e perbenismo, ateismo e spiritismo, nazionalismo e universalismo, corporativismo e liberismo, futurismo e dada. Non c’è una destra. Le destre sono tante quante gli uomini che si dicono “di destra”, e ciascuno d’essi ha la sua cultura: qui codina e bigotta, lì dissennata e insistematizzabile; qui democratica, lì elitaria; qui accademica, lì anti-accademica. L’unico valore comune a tutte è l’individualismo. E l’unico portato politico-culturale che nel terzo millennio questo individualismo può far proprio è il liberalismo, per non esaurirsi.
La cultura della «nuova destra», a ben vedere, non rimuove e non esorcizza le sue diverse anime, le ricompone in esperienze di una stessa anima, desistematizzandole da Weltanshauung. L’approdo al metodo, più che alla sostanza, del liberalismo ne fa mezzi invece che inarrivabili fini, e forse anche dispositivi etico-estetici di conoscenza.
La «nuova destra» vuole rinunciare alla Verità Assoluta. Comincia – ma lentamente – a capire che essa è intraducibile nel nomos dello Stato Etico, ove l’individuo è uno solo se organico, per reductio. E l’unica rivoluzione che non abortirà – qui lo si crede, fidando più nella pazienza che nel fervore. Ma questo ovviamente è in fondo, in fondo, in fondo.
(L’Indipendente, 20.10.2004)
Ma in fondo, in fondo, in fondo.