Neanche il tempo di dire che D’Alema è la peggior sciagura del Pd, e Veltroni riappare per farti venire dei dubbi.
giovedì 13 maggio 2010
Tridimensionale!
Detto con simpatia, Berlicche è uno stronzetto di cui consiglio la lettura a chiunque abbia l’hobby della demistificazione, a mo’ di stretching.
Vi viene voglia di smontare a pezzettini la questione del Filioque? Un post di Berlicche vi preparerà il muscolo. Esempio?
Vi è venuta voglia di mettere un po’ di ordine fra tutte le puttanate raccontate da chi ritiene autentica la Sindone? Basterebbe il piccolo saggio di Luigi Garlaschelli sull’ultimo numero di MicroMega, ma se proprio avete la fissa del fai-da-te e volete affrontare qualche quintale di cartaceo, scaldatevi con questo post di Berlicche.
“Cari amici laicisti, […] io sono cattolico e la mia fede non poggia su quel telo; se saltasse fuori che [la Sindone] è stata fatta nel Medioevo, come sostenete, ne prenderei nota e basta. Però, se fosse stata realizzata da qualche ignoto protoscienziato del 1300, allora quello che vorrei veramente è il brevetto”.
Troverete questo rivoltare la frittata in quasi tutti quelli che sono stati in difficoltà con le prove materiali: se la Sindone è un falso, dimmi come è stata falsificata; se non sai dirmelo, tutte le evidenze contrarie alla sua autenticità perdono sostanza; e allora sono autorizzato pure ad appoggiarci la mia fede, ma giusto un pochino, e tu mi devi lasciar fare, senza darmi del cretino.
“Una procedura per imprimere un’immagine su un telo che non usa pigmenti”, dice Berlicche, come se non fosse possibile.
“Con una nitidezza di particolari impressionante”, dice, “e con informazioni tridimensionali!”, esclama. E qui lo stretching arriva all’estensione che potremmo definire autodimostrativa: Berlicche lo sa che, se la maschera di Agamennone sta alla faccia di Agamennone, la faccia di Cristo sulla Sindone sta al muso di un levriero afgano?
A gentile richiesta, due parole su Di Pietro
Paolo Garbet mi fa: “Nel 99% dei casi mi trovo d’accordo con tutto quello che lei scrive, ma quando parla di Di Pietro non la seguo più. In un paese devastato da corruzione e illegalità, e definitivamente seppellito da un debito pubblico che in parte è causato proprio dalla corruzione, c’è un solo politico che ha il coraggio di dire: chi delinque deve andare in galera. D’accordo, non sarà il massimo come eloquenza o leadership, ma perché stroncarlo in questo modo?”.
Ottimo argomento per un post, ma bisogna rettificare due o tre cosette. Mai rimproverato a Di Pietro deficit di eloquenza, perché quello è il suo deficit più scusabile, mentre ne ha uno che mi è sempre parso incolmabile, e su quello – quasi solo su quello – ho sempre appuntato le mie critiche (stroncature mi pare termine esagerato): il deficit di quella cultura che riconosce garanzie all’indagato, all’imputato e al condannato.
Ciò che mi dà un fastidio davvero insopportabile in Di Pietro – da sempre, fin dal 1992 – è la sua insofferenza ai limiti che l’indagine deve rispettare per non degenerare in tortura (fisica e psicologica), ai limiti che sono posti alla pubblica accusa in quella sostanza che fa la forma della procedura (penso che siano meglio dieci colpevoli in libertà che un solo innocente in carcere), ai limiti che devono essere posti alla pena perché non si esaurisca in vendetta, funzione che peraltro non le è nemmeno riconosciuta (dovrebbe essere finalizza al recupero del condannato, diteglielo).
Non mi si fraintenda: credo nella necessità di combattere la corruzione e l’illegalità, e credo nella necessità della certezza della pena, tutt’è capire a quale prezzo, e ritengo che quello chiesto da Di Pietro costi un di più che serve a reclutare consenso.
Qui mi torna utile l’osservazione che mi fa un lettore che si firma incubomigliore: “Di Pietro, a mio parere, veste i panni di un semplice notaio, più che di un giustizialista. Il problema è che da noi pure il notaio diventa un barbaro forcaiolo se dall’altra parte la menzogna è imperativo. La metafora, l’iperbole e l’esagerazione e le loro eco fanno poi parte sicuramente del costume politico in generale, e del personaggio più in particolare, ma esse non sono da essere confuse con la sostanza”.
La sostanza sarebbe che gli arresti domiciliari equivalgono alla libertà per i passati in giudicato all’ultimo anno di detenzione? Era una proposta fatta per rendere un poco più decenti le nostre carceri sovraffollate: quale retroterra culturale la rigetta perché gli arresti domiciliari equivarrebbero allo sconto di un anno sulla pena?
Ma naturalmente non si tratta solo della cultura del diritto. Di Pietro non mi piace perché è speculare a Berlusconi. Come lui, è il suo partito e – insieme – ne è il proprietario, sicché come Berlusconi esagera nel mostrarsi padrone di sé, ma ne ha tutto il diritto. Troppo per chi, come me, ha orrore dei partiti come momento di promanazione carismatica e/o patrimoniale. (Insieme a Berlusconi e a Di Pietro metto pure Pannella e Bossi.)
D’altra materia rispetto a quelle usate da Berlusconi, ma le sue metafore, le sue iperboli e le sue esagerazioni hanno in comune a quelle la cifra populista, sentimentalista, con irrimediabile vocazione plebiscitaria, negazione più che esplicita di quell’apatia e dello scetticismo che dovrebbero fare la neutra laicità (in senso lato) dello spazio liberaldemocratico.
Sull’Italia dei Valori non vorrei dire troppo, mi fido di quello che ho letto su un numero di MicroMega di qualche tempo fa. (Non mi risulta che MicroMega sia rivista ostile a Di Pietro, ma l’affresco del suo partito era di merda: in mezzo a tanta brava gente, certi figuri di pessima fama, e pessimissima pure. Partito tutt’altro che adamantino, e mi pare che Di Pietro l’abbia pure ammesso, almeno in parte. E non parlo di Sergio De Gregorio, ma di roba recentissima. A naso, ho il sospetto che ce ne sia di molt’altra, per ora sommersa. Ma non vorrei che questo sospetto mi stigmatizzasse come dietrologo, forcaiolo e giustizialista, tanto meno come irrispettoso dell’onore di tutti e di ciascuno: diciamo che parlo del tutt’insieme.)
In ultimo, come fa l’antisemita che vanta di avere molti amici ebrei, vorrei dire la mia figlia maggiore vota IdV e che alle ultime regionali ho curato la campagna elettorale di un candidato dell’IdV in Campania, a gratis. Testi assai vibranti, ho scimmiottato Travaglio.
Non ci sono più le nespole di una volta
Anche a comprarle della qualità sopraffina che costa un occhio, è ormai rarissimo trovare anche una sola nespola su cento che abbia il sapore giusto, il punto giusto di dolce, il giusto retrogusto di nespola come si deve, insomma, non si trovano più le nespole di una volta. E vabbe’ che già ai tempi di Proust non si trovava più una madeleinette decente…
Non so nemmeno perché l’ho ritenuto degna di un post, ‘sta cosa. Ma è che oggi m’è capitato sotto gli occhi un Pierluigi Battista che si atteggiava a laico come se scrivesse per il Corriere della Sera diretto da Giovanni Spadolini, e volevo farmene una ragione.
Shock addizionali
Nicola Bergonzi mi segnala un articolo di Antonio Socci (Libero, 13.5.2010), annotando: “Tanta roba su Fatima, molta confusione”.
Non direi, mi sembra tutto molto chiaro su Fatima, e anche la confusione – che in apparenza è bella grossa – mi pare abbia una sua chiarezza.
Dovendone parlare, farei a ritroso: comincerei dal fatto che l’articolo di Antonio Socci andava in edicola, oggi, mentre Avvenire, in prima pagina, in basso a destra, mandava la réclame di un libro di Tarcisio Bertone (L’ultimo mistero di Fatima).
Al gregge sembrerà niente, ma in pratica accadeva un fatto strano: dal Portogallo il papa mandava a dire che la profezia di Fatima non s’è del tutto ancora realizzata; dalla felicità il Socci si sparava una pippa su Libero, perché l’aveva sempre sostenuto, contro quanto sostenuto invece dal Bertone, proprio nel libro reclamizzato dal giornale dei vescovi.
Non è tutto. La tesi esposta dal papa in Portogallo è incompatibile e alternativa a quella del Bertone: ha detto che nella profezia di Fatima “sono indicate realtà del futuro della Chiesa che man mano si sviluppano e si mostrano” (e dunque non ancora realizzate), mentre il Bertone ha sempre sostenuto che la Madonna s’era fermata al pronostico dell’attentato a Giovanni Paolo II del 1981.
Tutto qui? Macché. Indovinate chi sosteneva una tesi analoga al Bertone. Il Ratzinger, da cardinale. Sposava la tesi dell’allora Segretario di Stato, il cardinal Angelo Sodano, che sosteneva: “Le vicende a cui fa riferimento la terza parte del «segreto» di Fatima sembrano ormai appartenere al passato”, e giustappunto il Ratzinger, di rinforzo: “Nella misura in cui singoli eventi vengono rappresentati, essi ormai appartengono al passato”.
E per questo il Socci fu bruciato: sosteneva che la profezia di Fatima fosse ancora da realizzarsi. Proprio come il papa dice oggi. Comprensibile la pippa del Socci.
Comprensibile pure che il Ratzinger abbia cambiato idea, da papa, perché ogni a papa piace immedesimarsi nel papa della profezia di Fatima: attaccato a morte. Più comprensibile per Giovanni Paolo II, per l’attentato subìto del 1981 (anche se nella profezia il papa muore, e il Wojtyla no), ma non meno comprensibile per Benedetto XVI, che evidentemente si sente mortalmente ferito dagli scandali e dagli incidenti che hanno caratterizzato il suo pontificato (e manco muore di vergogna).
Inciso
Aspetto che Benedetto XVI ritorni dal Portogallo per tirare le somme di tutto quello che sta dicendo. Niente di nuovo, in apparenza, ma leggendo fra le righe, se non mi inganno, questo pontificato è a una torsione (svolta sarebbe termine inadeguato): lo scandalo dei preti pedofili è stato un colpo più duro di quello che è ci apparso e sotto la botta arrivano a scricchiolare la pretesa della eccezionalità dell’istituzione ecclesiastica rispetto alle istituzioni laiche, la natura gerarchica della Chiesa e quell’estroversione ecumenica un po’ molesta che sembrava voler essere il cazzutissimo stendardo di questo pontificato. Mi pare che si sia arrivando a dire che è stato frainteso anche il primo Concilio Vaticano, oltre che il secondo: siamo ad una crisi che non è di immagine ma di autocoscienza, che fa sentire urgente – non ha importanza quanto strumentalmente – un certo disincarnamento dal corpo mistico di Cristo, per un ripensamento della funzione dei carismi in seno alla comunità cattolica. Al problema che i preti siano sempre di meno, e tuttavia indispensabili perché la comunità cattolica regga sulla tradizione, con ciò che così si prospetta per la tradizione, è venuto ad aggiungersi il problema che i preti sono sempre meno palesemente l’alter Christus in serie che dovrebbero essere: si impone un nuovo clero o un nuovo Cristo, oppure – qui la torsione – un nuovo modo per ripensare la funzione sacerdotale.
E dunque a Nicola Bergonzi rispondo: no, tutto è molto semplice. Una profezia che era stata buona in Portogallo nel 1917 (chissà perché nessuno parla mai della situazione politico-istituzionale del Portogallo del 1917 e della condizione della Chiesa portoghese in quel contesto), che era stata ottimamente ricicciata in chiave anticomunista (dando per scontato che la Madonna già sapesse della rivoluzione russa di lì a qualche mese), che tornava buona per incastonare Karol il Grande nella galleria dei Grandi Santi (campa cavallo!), che poteva tornar buona pure per delegittimare il Vaticano II (o almeno i suoi “fraintendimenti”, tutti nello spirito, e malinteso, rispetto alla lettera) – una profezia così versatile, dico, era un peccato metterla in soffitta: ancora riutilizzabile.
E la réclame del libro del Bertone? In pratica, la tesi del Bertone definisce farlocchissima questa riutilizzazione prima che venga tentata da Benedetto XVI in Portogallo: e ad Avvenire non c’è un coglione che colga il controsenso.
Consigliare quel libro al gregge è come fargli brucare peyote: la realtà di Fatima sbava e si fluidifica, la profezia s’allunga come un salamino, si strozza e s’ammoscia.
Mi sembra tutto molto chiaro, caro Bergonzi, ma le suggerisco una metafora: immagini un Benedetto XVI un po’ samurai, immagini che dica Chiesa dove Battiato dice town, e il resto lo lascio alla sua libera interpretazione. Stanno ai cazzi amari, riciclano profezie inservibili, spacciano droghe per tossici sempre meno raffinati.
mercoledì 12 maggio 2010
Un Ghino strepitoso
“Era tutto scritto, tutto previsto, si sapeva già, la sofferenza della pedofilia era stata profetizzata dai pastorelli portoghesi fin dai primi del novecento” *.
Repetita
Nell’arco di un quarto d’ora, prima a Ottoemezzo e poi a Tetris, su La7 c’è Antonio Di Pietro: più che una somma, è un elevazione al quadrato: le cose che dice da Luca Telese – con le stesse parole, le stesse pause, gli stessi incisi che ha appena usato da Lilli Gruber – acquistano una forza che non hanno (e qui non vale neanche la pena di citarle), e questo è un saggio del potere televisivo.
Qui s’è trattato di un evidente caso di negligenza dell’addetto al palinsesto, ma una cazzata ha goduto dell’effetto di potenziamento che acquista se ripetuta due volte in breve tempo, senza contraddittorio, con due cravatte diverse, dal proprietario di un partito.
“Il perdono non sostituisce la giustizia”
Nella Lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda (19.3.2010) era concetto ancora vago, espresso nell’invito ai vescovi a “cooperare con le autorità civili”, ma “nell’ambito di loro competenza”. Il prete pedofilo veniva a perdere le tradizionali coperture, ma un vescovo diocesano non era tenuto denunciarlo, anche se venuto a conoscenza dei suoi crimini fuori dalla confessione: per la prima volta era invitato a collaborare con le autorità civili, a crimine già denunciato, niente di più.
Nella Guida alla comprensione delle procedure di base della Congregazione per la Dottrina della Fede riguardo alle accuse di abusi sessuali, pubblicata poco dopo (ma la Santa Sede l’ha datata 2003), v’è paradossalmente un po’ di più, e non si capisce perché Sua Santità non l’abbia ricordato ai vescovi irlandesi: “Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte”. Non è ancora una rinuncia piena alle prerogative giuridiche e giudiziali che la Santa Sede ha sempre rivendicato sui suoi preti (anche per i crimini da essi commessi ai danni di laici, compresi gli abusi sessuali su minori), ma è qui che si viene a creare la crepa.
Alcuni fanno notare che, per salvare la faccia, Benedetto XVI sta svendendo libertà, autonomia e potere della Chiesa, cedendo a una visione secolarizzata del peccato che lo riduce a reato, sottraendolo alla logica che lo inscrive nell’economia del pentimento e del perdono, della dannazione e della grazia.
Lo spiega molto bene Pietro De Marco, con l’ansia che si conviene a chi ha cara la tradizione: “La richiesta di trasparenza nella vita della Chiesa e, per dire così, nella sanzione pubblica dei suoi peccati, va razionalmente commisurata alla sua essenza di responsabile rappresentante di una Verità che salva. La tutela dei diritti individuali nella chiesa, di conseguenza, non può inseguire […] i diritti […] dell’individuo contemporaneo. Ma deve anche seguire, nella definizione dei diritti dei fedeli, una logica di diritto sacro e, nel rapporto con gli ordinamenti statuali, salvaguardare anzitutto la propria libertà essenziale, la libertas ecclesiae che la rende idonea a quanto essa annuncia e rappresenta. Sotto tale vincolo possono essere concordate interpretazioni tra gli ordinamenti penali di chiesa e stato”, ma ciò per il codice penale è favoreggiamento e complicità può essere discrezione e misericordia per il Codice di Diritto Canonico: “La civiltà giuridica della Chiesa […] distingue tra foro interno e foro esterno, tra due spazi di giudizio diversamente istruiti, per dire così”, e attenzione a quando esce un “per così dire” a chi ha cara la tradizione: vi sta rifilando un pacco.
Ora gli è che il pacco sta diventando pesante in mano a Benedetto XVI e allora eccolo dire, in volo per il Portogallo, che “il perdono non sostituisce la giustizia”: affermazione che mette i “diritti individuali nella chiesa” sotto un’ipoteca secolare.
Si capisce l’ansia di chi vede in pericolo “la libertà della chiesa di essere come è, come la sua legge canonica, la sua dottrina, il suo magistero e la sua tradizione storica l’hanno definita” (Il Foglio, 12.5.2010), ivi compreso il vizietto di certi suoi preti, che però per Giuliano Ferrara sarebbe da intendere come effetto collaterale della “specialissima paideia” cattolica, che è “cultura e prassi del rapporto intenso, vero, in un certo senso erotico, d’amore e di carità, con i cuccioli dell’umanità”. E perciò, “detto con molta autoironia”, “Benedetto XVI è fuori linea per noi foglianti”, perché, seppure “dignitosamente” e per chissà quale “spinta profetica”, si fa “umile di fronte al mondo” come l’incarnazione del potere non dovrebbe mai fare, sennò che senso ha baciargli la mano?
Insomma, pure Benedetto XVI rifiuta i consigli di Giuliano Ferrara, che sulla pedofilia dei preti era dell’idea che ci si dovesse “difendere contrattaccando” (Il Foglio, 15.3.2010). Altro che contrattacco, Sua Santità si braca, col rischio di ridurre la Chiesa ad una “agenzia secolare” come tante. Giuliano Ferrara non è neppure sfiorato dal sospetto che possa già essere così da tempo. O forse lo sa, ma semplicemente teme che così si risappia in giro.
Anagrafe degli amati
Marco Pannella è convinto che Massimo D’Alema miri a concordare un governo di unità nazionale con Silvio Berlusconi. L’ha detto tre giorni fa, nel corso di seminario che il Pd ha tenuto a Cortona, al quale non era stato invitato, come ha tenuto a premettere.
Per chi ha il vizio di tenersi informato su ciò che avviene nella galassia radicale – parliamo di qualche centinaio di viziosi in tutta Italia – non è una sorpresa: la convinzione andava prefigurandosi da tempo, da quando Silvio Berlusconi propose Massimo D’Alema al Pesc, per poi dargli un Copasir di consolazione, ennesima prova che il Regime è bicipite, e che i “buoni a nulla” sono indispensabili ai “capaci di tutto”, e viceversa.
La dichiarazione di Marco Pannella non ha fatto molto rumore: i media ci hanno sbadigliato sopra, Daniele Capezzone non l’ha smentito a nome di Silvio Berlusconi, Massimo D’Alema non l’ha mandato a farsi fottere, e perfino nella galassia radicale l’eco è stata debolissima.
Insomma, c’era bisogno di qualcosa di più forte. Voilà, tre giorni dopo: “Ho avuto tre o quattro uomini” (Chi, 12.5.2010).
Se devo dire la mia, mi pare che anche qui Marco Pannella sbagli calcolo, perché l’unica reazione seria che può aspettarsi da una dichiarazione del genere, levate le battutine salaci, è la richiesta di una anagrafe degli amati.
Non vogliamo sapere i nomi – sono cose personali, mancherebbe – ma questi tre o quattro amati hanno rivestito cariche dirigenziali nel Partito Radicale? Se sì, è accaduto prima o dopo che sbocciasse l’amore? E l’amore è finito prima o dopo che decadessero da quelle cariche?
Non tanto per imbastirci sopra malevoli congetture, ma giusto per lasciarci andare al pettegolezzo, visto che l’invito è al pettegolezzo .
lunedì 10 maggio 2010
10
Ho trovato finalmente una scusa per le dovute due righe sul decennale di Dagospia – la vita è maestra, ci detta temini – e si tratta di una foto di Umberto Pizzi, sodale del titolare, che così posso evitare di nominare, che poi è proprio quello che non mi dava una scusa.
Pizzi fotografa Geronzi e Letta sotto le tette di Mamma Lupa, in un apologo morale di quelli nelle foto a centrofascicolo de Il Borghese di Mario Tedeschi. Satira di destra, se satira. Giornalismo alla Pecorelli, se giornalismo. Detto col massimo rispetto per entrambe le cose, naturalmente. E però, in Dagospia, queste rispettosissime cose stanno senza autocoscienza, con un’autoironia da abiura permanente, smussa, sciatta, tonta, pusillanime.
Per dire: Geronzi e Letta non sono perfettamente centrati nell’apologo morale, non si sovrappongono a Romolo e Remo, sicché O.P. sta a Dagospia come un sordido ricatto sta a un buffetto ruffiano.
Quando è moda, è moda
“Grisbì è una cagnetta seduttrice”
Sandro Bondi, Corriere della Sera, 28.11.2009
“Non faccio più politica, porto a spasso la mia cagnetta”
Sandro Bondi, Corriere della Sera, 28.11.2009
“Non faccio più politica, porto a spasso la mia cagnetta”
Giuliano Ferrara, Corriere della Sera, 22.4.2010
“Stavo portando a spasso la mia cagnetta...”
Giampiero Mughini, Libero, 8.5.2010
A un certo livello la vergine cuccia è diventata un must.
Un parrucchiere alla ristrutturazione degli Uffizi
L’intellettuale più lucido del centrodestra – parlo di Marcello Junio Clerici – è chiamato a superare se stesso, stavolta. Si tratta di difendere Sandro Bondi non già dalle insinuazioni che minano la sua reputazione di uomo onesto – per quello basta un Daniele Capezzone qualsiasi – ma dalle perplessità che sollevano certe sue scelte che il senso comune definirebbe “del cazzo”, come quella di affidare a un parrucchiere la ristrutturazione degli Uffizi. Compito arduo, ma non impossibile.
Gli consiglierei, prima di tutto, di invertire i termini della questione, per mettere in primo piano gli Uffizi, facendo arretrare di un passo il parrucchiere: dire che il signor ministro aveva un fine (la ristrutturazione di un bene artistico), e che sul mezzo per ottenerlo al meglio (parrucchiere o non parrucchiere) non era mosso da idee preconcette o preclusioni aprioristiche, tanto meno verso la nobile tradizione dell’artigianato italiano, da sempre contiguo all’arte, fino confondervisi. Un parrucchiere non è artigiano? Un sano pragmatismo scevro da condizionamenti ideologici mi esclude in partenza un parrucchiere alla ristrutturazione degli Uffizi?
Qui non guasterebbe una tirata – di quelle palpitanti, però – contro la natura dei pregiudizi che stroncherebbero l’opzione-parrucchiere senza neanche prenderla in considerazione: chiaramente radical chic, com’è di quella élite di sinistra, culturalmente egemone, eccetera, eccetera, eccetera.
Poi, di botto, a chiudere, qualcosa tipo “pure il Vasari, in fondo, partì dalla bottega di un vetraio”.
domenica 9 maggio 2010
Avido, l’ebreo
Quando ci si intrattiene sulla differenza tra antisemitismo e antigiudaismo, tra odio razziale e odio teologico, si finisce sempre per trovare un tramite tra i due diversi modi di odiare un ebreo. Uno l’ho trovato stasera, ed è il dargli del cane, scritto in caratteri gotici (qui sopra) o greci (qui sotto).
Hund, nel Mein Kampf (1925). Ma quando degradarono (εξεπεσον) alla condizione di cani (προς την των κυνων συγγενειαν)? San Giovanni Crisostomo non ha dubbi: quando non riconobbero in Gesù il figlio di Figlio. Ma cosa spinse il popolo giudeo nell’abisso nella malvagità? Un vizio – insieme – fisico e morale, nel quale faranno cortocircuito “ragioni” teologiche e razziali: l’ebreo è grasso, la sua πολυσαρκια (Omelie contro gli ebrei, I, 2) è segno di empia ingordigia e di ampia disponibilità di beni materiali, accumulati con la stessa empia ingordigia.
Avido, l’ebreo. Come un cane insaziabile. Come si legge nel Mein Kampf.
Il catalogo è questo
sabato 8 maggio 2010
Gonzi, stanno cercando di rifilarvi un santino
Non farete fatica a trovarne ampia documentazione presso gli storici e i sociologi che hanno affrontato il tema: i rapporti tra chiesa e mafia sono sempre stati buoni, a ogni livello, per una straordinaria coincidenza di mentalità e costumi sotto le due cupole, non di rado sinergiche in affarucci morali e in affaroni economici.
Al netto di qualche prete ucciso da questa o quella mafia, al netto di qualche condanna del fenomeno mafioso emessa da questo o quel vescovo, vi è sempre stata simpatetica alleanza tra familismo mafioso e familismo cattolico: mai la mafia ha veramente rotto il cazzo alla chiesa, mai la chiesa ha veramente rotto il cazzo alla mafia, anzi, è assai più spesso accaduto che chiesa e mafia mostrassero – anche se a posteriori – una felice convivenza sulla pelle di una possibile doppia sudditanza, e dentro la sua stessa carne, dentro la sua stessa mente, come la doppia commessura della stessa bocca sanguisuga.
E dunque, gonzi, sappiate che la chiesa farà santo Rosario Livatino solo perché era un giudice che della giustizia aveva una visione integralmente cattolica: la mafia ha dato solo il tocco necessario, certo non concordato, ma che oggettivamente torna a fagiolo, e di una oggettività che sta nella natura del potere e del tipo di obbedienza che gli è dovuta.
Quando la chiesa definisce Rosario Livatino “martire della giustizia e indirettamente della fede”, intende dire che nel pensiero di quel giudice, eloquentemente glossato e chiosato da molti cattolici integralisti attivi nel web, da anni, c’è la prova – la “testimonianza” – di un’aderenza piena ad un’idea di giustizia che sposa l’idea della sovranità sociale di Cristo.
Se non fosse morto, Rosario Livatino sarebbe l’originale di quella brutta copia che è Alfredo Mantovano (o viceversa, naturalmente) o sarebbe una di quelle penne che fanno coda di pavone su Avvenire, come editorialisti col tic giuridico.
Ma è morto – questo è l’importante – e un morto fatto santo puzza sempre meno di un vivo per il quale – parimenti – il principio che informa il legislativo dev’essere trascendente.
Gonzi, stanno cercando di rifilarvi un santino. Guardate a tergo: c’è una giustizia ispirata dal Catechismo.
Certi flood
Ho avuto modo di leggere solo qualche giorno fa – via feed, l’unico ricevuto negli ultimi due mesi da un blog di quella piattaforma – un post di servizio (sarebbe meglio dire: di disservizio) de ilcannocchiale.ilcannocchiale.it datato 25 marzo: “In queste ultime settimane si sono verificati con molta frequenza alcuni disservizi, riassumibili in blocchi della piattaforma. Dopo tutte le verifiche del caso, è stato appurato il motivo di questi disservizi […] Stiamo assistendo ad attacchi di tipo malevolo da parte di gruppi di computer, probabilmente virati, che stanno sistematicamente bombardando il Cannocchiale con attacchi chiamati flood: inviano contemporaneamente, e da computer diversi, centinaia di migliaia di richieste di apertura di connessione, che i nostri server non riescono a soddisfare e vanno quindi in temporaneo blocco. […] Abbiamo deciso di contrastare comunque questi attacchi, per mantenere il livello di qualità degno del valore delle persone che frequentano questa piattaforma”.
Tre giorni prima, nell’impossibilità di accedere a malvino.ilcannocchiale.it sia in lettura che in scrittura, mi ero trasferito qui. Non prima d’aver contattato tre o quattro volte, e fino al giorno prima, i responsabili di quella piattaforma, ma dei flood non mi era stato fatto cenno, sennò sarei rimasto dov’ero, in attesa che il contrattacco al bombardamento riportasse tutto alla normalità.
Avrei sbagliato, perché il problema rimane e obbliga al trasloco anche il mitico Adinolfi, del quale leggo il post di addio al Cannocchiale grazie al solerte copia-incolla di un amico, che in prima battuta me ne aveva solo allegato il link, ignaro del fatto che non avrei potuto aprirlo. Continuo, infatti, a non avere accesso ai blog del Cannocchiale (su Google reader seguo Aronne, Desaparecidos, Makia e un’altra mezza dozzina di blog di quella piattaforma, ma non ho mai avuto un attimino, come si dice, di infilarci anche Adinolfi) e devo ringraziare un pazzo che per sei anni ha archiviato tutto di Malvino, inviandomene copia quando ha saputo, sennò adesso non avrei a disposizione neanche una virgola degli oltre ottomila post scritti di là.
Il mitico scrive: “Qui ci ho messo tutto. La vita che scorreva, giorno dopo giorno. E le idee che si facevano, crescevano, si confrontavano con quelle di ciascuno di voi. In un flusso di coscienza collettiva senza censure, totalmente libero. È stato un capolavoro. E i capolavori hanno un inizio e una fine. Questa è la fine. […] Grazie a tutti, è stato meraviglioso trascorrere questi sette anni insieme. Mi mancherete”.
Frasi brevi, come di commento all’avvincente trailer di un film assai palloso. È un post che merita di essere segnalato per mettere in evidenza l’idiota crudeltà di certi flood.
venerdì 7 maggio 2010
Facilmente accettabile
Un trader avrebbe digitato per errore billions invece di millions su un ordine di titoli della Procter & Gamble e il Dow Jones è crollato: 1.250 miliardi di dollari andati in fumo per una b al posto di una m, che su una tastiera stanno a meno di 3 cm di distanza l’una dall’altra. È pensabile che sia andata proprio così? No, però è spiegazione che sa di apologo e che dunque si presta ad essere facilmente comprensibile, più accettabile.
Farsa stravista
La cricca si è ispirata ai più volgari luoghi comuni di cricca, mettendo insieme figurine prese in prestito da film di serie B: il faccendiere, il suo factotum, l’autista tunisino, il gentiluomo di casa pontificia un poco pederasta, il ras dei dissesti idrogeologici, il ministro strafottente e strafottuto, le sorelle con la casa davanti al Colosseo, l’anziano pretozzo che tiene cassa…
Trama arcinota, personaggi scontati, un cast di caratteristi riciclati, comparse spostate all’ultimo minuto da un altro di film di serie B, fondali ritagliati via da Case & Giardini, patetici effetti speciali, colpi di scena dove e come te li aspetti, cronisti costretti a spremere sangue dalle rape e pathos dall’ovvio, carabinieri e magistrati dalle ascelle molto sudate.
Quanto più affascinanti, quanto più eccitanti, gli affari tra i talebani e i grossisti d’oppio afghani, tra i signori della guerra e i trafficanti di diamanti sudanesi, tra gli agenti del Kgb e i guardiani della rivoluzione islamica: qui è farsa stravista.
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