Il Decalogo del giornalista di Piero Ottone (la Repubblica, 25.9.1996) recita:
“1. Scrivi sempre la verità, tutta la verità, solo la verità.
2. Cita le fonti. Se la tua fonte vuole restare anonima, diffida.
3. Verifica quel che ti dicono. Se non puoi verificare, prendi le distanze.
4. Non diffamare il prossimo, ed evita le frasi del tipo: «Sembra che il tale abbia rubato...».
5. Non obbligare il lettore a leggere una colonna di roba prima che cominci a capire che cosa è successo.
6. Non fare lunghe citazioni fra virgolette all’inizio di un «pezzo» senza rivelare subito chi sia il loro autore.
7. Non mettere mai fra virgolette, nei titoli, frasi diverse da quelle che sono state pronunciate.
8. Evita le iperboli e le metafore di Pierino, come «bufera» («il partito è nella bufera»), «giallo» («il giallo di Ustica»), «rissa» («ed è subito rissa fra x e y»), «fulmine a ciel sereno».
9. Prima di scrivere nel titolo che «Londra è nel panico», va’ a Londra e controlla se otto milioni di persone sono davvero usciti di testa.
10. Non dire mai: «L’obiettività non esiste». È l’alibi di chi vuole raccontare balle”.
Quello di Manuel Lozano Garrido (1920-1971), giornalista cattolico spagnolo, beatificato oggi, è tutta un’altra cosa:
“1. Ringrazia l’angelo che sulla tua fronte segnò la stella della Verità e che la fa brillare ogni momento.
2. Ogni giorno partorirai il tuo messaggio con dolore, perché la verità è una brace che si toglie dal cielo e brucia il nostro cuore per illuminare. Tu fai in modo di portarla dolcemente fino ai cuori dei tuoi fratelli.
3. Tu, quando scriverai, lo dovrai fare in ginocchio per amare; seduto per giudicare, in piedi e con forza per combattere e seminare.
4. Apri con stupore gli occhi a ciò che vedrai, e lascia le tue mani riempirsi della freschezza della linfa, in modo che gli altri, quando ti leggeranno, toccheranno con mano il miracolo palpitante della vita.
5. Il buon pellegrino della parola pagherà con la moneta della franchezza nella porta aperta della locanda che è ogni cuore.
6. Lavora il pane dell’informazione pulita con il sale del buon stile e il lievito dell’eterno. Poi offrilo affettato per avvivare l’interesse, ma non togliere a ciascuno la gioia di assaporare, giudicare ed assimilare.
7. Albero di Dio, chiedi di diventare una rovere dura ed impenetrabile all’ascia della lusinga e della corruzione, ma con la tua fronte nel fogliame al momento della raccolta.
8. Se chiamano fallimento il tuo silenzio perché la luce manca all’appello, accetta e taci. Guai al povero idolo con i piedi fatti con il fango della bugia. Ma attento anche alla vanagloria del martire quando le parole non si fanno sentire a causa della codardia.
9. Taglia la mano che vuole imbrattare, perché le macchie nei cervelli sono come quelle ferite che non guariscono mai.
10. Ricorda che non sei nato per la stampa a colori (gialla, nera, rossa..). Né confetteria, né piatti forti. Meglio servire il buon boccone della vita pulita e speranzosa, così come è”.
Io preferisco quello che sta in una sentenza della Corte di Cassasione del 17.10.1984:
“Il diritto di stampa (cioè la libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti) [...] è legittimo quando concorrano le seguenti tre condizioni: 1) utilità sociale dell’informazione; 2) verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest’ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; 3) forma «civile» della esposizione dei fatti e della loro valutazione: cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere mai consentita l’offesa triviale o irridente i più umani sentimenti.
La verità dei fatti, cui il giornalista ha il preciso dovere di attenersi, non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato. La verità non è più tale se è «mezza verità» (o comunque, verità incompleta): quest’ultima, anzi, è più pericolosa della esposizione di singoli fatti falsi per la più chiara assunzione di responsabilità (e, correlativamente, per la più facile possibilità di difesa) che comporta, rispettivamente, riferire o sentire riferito a sé un fatto preciso falso, piuttosto che un fatto vero sì, ma incompleto. La verità incompleta (nel senso qui specificato) deve essere, pertanto, in tutto equiparata alla notizia falsa.
La forma della critica non è «civile», non soltanto quando è eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire o difetta di serenità e di obiettività o, comunque, calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto, ma anche quando non è improntata a leale chiarezza. E ciò perché soltanto un fatto o un apprezzamento chiaramente esposto favorisce, nella coscienza del giornalista, l’insorgere del senso di responsabilità che deve sempre accompagnare la sua attività e, nel danneggiato, la possibilità di difendersi mediante adeguate smentite nonché la previsione di ricorrere con successo all’autorità giudiziaria. Proprio per questo il difetto intenzionale di leale chiarezza è più pericoloso, talvolta, di una notizia falsa o di un commento triviale e non può rimanere privo di sanzione.
Lo sleale difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista, al fine di sottrarsi alle responsabilità che comporterebbero univoche informazioni o critiche senza, peraltro, rinunciare a trasmetterle in qualche modo al lettore, ricorre - con particolare riferimento a quanto i giudici di merito hanno nella specie accertato - ad uno dei seguenti subdoli espedienti (nei quali sono da ravvisarsi, in sostanza, altrettante forme di offese indirette):
a) al sottinteso sapiente: cioè all’uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico dei lettori, per ragioni che possono essere le più varie a seconda dei tempi e dei luoghi ma che comunque sono sempre ben precise, le intenderà o in maniera diversa o addirittura contraria al loro significato letterale, ma, comunque, sempre in senso fortemente più sfavorevole - se non apertamente offensivo - nei confronti della persona che si vuol mettere in cattiva luce. Il più sottile e insidioso di tali espedienti è il racchiudere determinate parole tra virgolette, all’evidente scopo di far intendere al lettore che esse non sono altro che eufemismi, e che, comunque, sono da interpretarsi in ben altro (e ben noto) senso da quello che avrebbero senza virgolette;
b) agli accostamenti suggestionanti (conseguiti anche mediante la semplice sequenza in un testo di proposizioni autonome, non legate cioè da alcun esplicito vincolo sintattico) di fatti che si riferiscono alla persona che si vuol mettere in cattiva luce con altri fatti (presenti o passati, ma comunque sempre in qualche modo negativi per la reputazione) concernenti altre persone estranee ovvero con giudizi (anch’essi ovviamente sempre negativi) apparentemente espressi in forma generale ed astratta e come tali ineccepibili (come ad esempio, l’affermazione il furto è sempre da condannare) ma che, invece, per il contesto in cui sono inseriti, il lettore riferisce inevitabilmente a persone ben determinate;
c) al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato specie nei titoli o comunque all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre perché insignificanti o, comunque, di scarsissimo valore sintomatico, al solo scopo di indurre i lettori, specie i più superficiali, a lasciarsi suggestionare dal tono usato fino al punto di recepire ciò che corrisponde non tanto al contenuto letterale della notizia, ma quasi esclusivamente al modo della sua presentazione (classici a tal fine sono l’uso del punto esclamativo - anche là ove di solito non viene messo - o la scelta di aggettivi comuni, sempre in senso negativo, ma di significato non facilmente precisabile o comunque sempre legato a valutazioni molto soggettive, come, ad esempio, «notevole», «impressionante», «strano», «non chiaro»;
d) alle vere e proprie insinuazioni anche se più o meno velate (la più tipica delle quali è certamente quella secondo cui «non si può escludere che...», riferita a fatti dei quali non si riferisce alcun serio indizio) che ricorrono quando pur senza esporre fatti o esprimere giudizi apertamente, si articola il discorso in modo tale che il lettore li prenda ugualmente in considerazione a tutto detrimento della reputazione di un determinato soggetto”.
A scanso di ogni equivoco, dico subito che, a mio parere, un blogger non è un giornalista: non ne ha i titoli, non ne ha gli onori, non ha diritto agli oneri che gravano sul giornalista (qualunque sia il Decalogo qui preso in considerazione). Un blogger diffonde notizie e commenti, ma non lo fa per mestiere: ha doveri verso la legge ordinaria, non verso un codice deontologico condiviso, tanto meno verso una normativa speciale implicita nell’adesione ad un ordine professionale. Ed è per questo che mi stanno sul cazzo i giornalisti che hanno un blog e i blogger che si danno arie da giornalisti.
Tutto questo a premessa di due o tre post che, se ho tempo, butterò giorni giù entro lunedì. Sennò quando sarà.