martedì 15 giugno 2010

Padri


Sul congedo obbligatorio di paternità si confrontano, sulla prima pagina de il Giornale di oggi, Giordano Bruno Guerri, favorevole, e Vittorio Feltri, contrario, dandoci una splendida occasione per non entrare nel merito, che essi stessi paiono eludere e che sta tutto nell’obbligatorietà prevista dal ddl a firma di Barbara Saltamartini. Con Guerri e Feltri siamo – prima di tutto e quasi del tutto – di fronte a due diversi modi di intendere la paternità.
Nel primo caso, abbiamo un uomo divenuto padre a 55 anni, dopo un’esistenza ricca di esperienze, in gran parte appaganti. Un uomo che parla della sua infanzia come di un felice laboratorio esistenziale e della sua paternità come un approdo ancor più felice.
Nel secondo caso, abbiamo un uomo indurito dalla vita: “Dopo la morte prematura di suo padre, infatti, sua madre dovette andare a lavorare per mantenere i tre figli. Furono anni duri”, dice Luciana Baldrighi che ne ha raccolto le confessioni in Feltri racconta Feltri (Sperling & Kupfer, 1997); e lui: “Sì, ma non ne parlo volentieri. […] Accanto al cancello del palazzo c’era un campanello, suonava ogni volta che qualcuno passava. E a ogni scampanellata mi precipitavo alla finestra nella speranza di vedere arrivare mia madre. Succedeva anche trenta o quaranta volte per sera: non era mai lei. Così quelle corse verso vetri sempre appannati di umidità e delusione mi sono rimaste impresse nella memoria. […] Non ho mai trovato niente in famiglia: nessun incoraggiamento, nessun appoggio. Nessun supporto morale e anche poco aiuto materiale. Magari c’era, ma io non l’ho trovato. Ero il più piccolo quando morì mio padre. E rimasi solo” (pagg. 57-58).
A tutto questo si può sopravvivere solo indurendosi, finendo per ritenere superflua la tenerezza, fino a considerarla vacuo esercizio di sdilinquimenti e svenevolezze: si può rimuovere un’infanzia come quella di Feltri solo in un ideale di maternità (e ancor più di paternità) essenzialmente finalizzati alla sopravvivenza materiale della prole. Il dolore per tutto ciò che non si è avuto può essere superato solo nel convincersi che era irrilevante.
“Ogni volta penso quanto siamo fortunati, Nicola e io, perché lavoro a casa e le nostre reciproche assenze sono così brevi”, scriveva Guerri. Feltri, invece, si raccontava così: “Ai figli non ho insegnato niente. Ho solo cercato di comportarmi in modo decoroso. Pensavo: se verrà loro in mente di prendermi come modello non faranno scemenze. Adesso che ho passato i 50 anni li trovo divertenti, simpatici, interessanti. […] In questi ultimi anni ho molto rinsaldato i legami affettivi con loro” (pagg. 75-76).
È naturale che, oggi, sul congedo obbligatorio di paternità, il primo scriva: “Rientreranno in ufficio con una marcia in più, a aumentare la loro produttività, come padri di famiglia e come uomini responsabili di qualcosa che non ha prezzo”; e il secondo: “Poche balle. […] Quattro giorni di congedo per fare quattro passi all’ospedale sono troppi per fugare il sospetto che si tratti di ossequio a una moda insulsa”.
Rimarrebbe, a parte, la questione di merito, che a me pare l’obbligatorietà. Ma perché discuterne?

Segnalibro

Perfino



Ho lasciato in moderazione un commento anonimo assai scostumato al post “Un’omelia che è un capolavoro di diplomazia”, nel quale sostenevo che il cardinale Tettamanzi non avesse affatto avallato la tesi della morte di monsignor Padovese come martirio per fede. L’anonimo definiva bislacca la mia lettura dell’omelia e condiva il suo rilievo con insulti. Ecco, gli faccio presente che perfino Libero se n’è accorto. Dico: perfino Libero.

[...]



“Qui a fianco una scena «caravaggesca» da «Passion», film di Godard dell’82…” (Corriere della Sera, 15.6.2010). La scena, in realtà, è rembrandtiana (i personaggi nella foto sono quelli del La ronda di notte). Il redattore non conosce Rembrandt e non ha visto il film di Godard.
“Il regista spazia con disinvoltura dalle citazioni cinematografiche a quelle letterarie…”. È il redattore che ci si muove dentro con goffaggine.

Attenzione!


“Non intercettateli, intervistateli. Meglio delle meglio intercettazioni finora uscite, l’intervista di Repubblica all’ex ministro Pietro Lunardi” (Il Foglio, 15.6.2010). Stefano Di Michele ha ragione, ma l’intervista non sarebbe stata possibile in quei termini se i fatti di cui Corrado Zunino chiede ragione all’ex ministro non fossero gia noti. E grazie a cosa sono noti? Grazie a quanto è stato fin qui divulgato circa i maneggi della cricca e che senza le intercettazioni (e la pubblicazione delle intercettazioni) sarebbe rimasto ignoto. Quell’intervista è sì una “edificante lettura”, come il Di Michele scrive, ma chi sarebbe andato mai a intervistare Lunardi senza saperlo coinvolto? E relativamente a cosa, poi?
Tuttavia c’è un errore assai più grave nel quale incorre: pur velati di ironia, esprime giudizi assai severi sugli uomini attorno a Berlusconi e dalle pagine di un giornale che ha scelto una linea del tutto diversa. È la seconda volta in meno di una settimana: sabato 12 giugno era necessaria una soave rampogna del direttore nella rubrica delle lettere per invitarlo a rivedere il suo non benevolo giudizio sulle crociate, elogiate in prima pagina qualche giorno prima. Insomma, il Di Michele rischia. Solleva obiezioni su due punti che sono qualificanti della linea del giornale: la santità dei crociati e l’innocenza della cricca. Con ottimi argomenti in entrambi i casi, ma questo non vuol dire niente. Attenzione!

Nacionalcatolicismo



Ieri ho parlato del Merdaccia e delle sue simpatie per Francisco Franco, oggi L’Osservatore Romano pretende di darne spiegazione nelle violenze subìte dal clero cattolico spagnolo prima della guerra civile (1936-1939): il governo repubblicano ne sarebbe stato complice, rendendo dunque inevitabile un’alleanza tra la Chiesa e il caudillo. Parliamo dei conventi e delle chiese dati alle fiamme tra il 1930 e il 1931. Fu proprio il Merdaccia, allora ancora segretario di Stato, a inoltrare al governo repubblicano la richiesta dei risarcimenti, che non fu soddisfatta per mancanza di fondi, ma anche perché soddisfarla avrebbe significato sottoscrivere le accuse di complicità.
In realtà, con la precipitosa fuga all’estero di Alfonso XIII, che seguì la caduta della dittatura di Miguel Primo de Rivera (1923-1930) da lui appoggiata, si liberò nel popolo spagnolo la rabbia verso l’unico responsabile a disposizione: quel clero cattolico da sempre strettissimo alleato della monarchia e forte sostenitore della dittatura. Il potere della Chiesa in Spagna era stato fin lì enorme, al punto da controllare le attività di ogni governo, che per guadagnarsene le simpatie non rifiutava favori. Basta uno sguardo ai concordati in vigore fino alla caduta del de Ribera per farsi un’idea di quale ruolo la Chiesa fosse arrivata ad occupare nella società spagnola di quei tempi.
Solo per fare un esempio: contraria all’alfabetizzazione del popolo, la Chiesa deteneva il monopolio dell’istruzione, in modo da assicurarsi il controllo delle élites culturali e politiche del paese. Si è parlato di nazionalcattolicesimo per descrivere questa alleanza tra monarchia, esercito, latifondo terriero e Chiesa cattolica al fine di conservare un assetto sociale di tipo feudale, con una coincidenza di interessi nell’oppressione della stragrande maggioranza degli spagnoli, poveri e ignoranti, ma devotissimi.
La modernità avrebbe bussato anche alle porte di Spagna, sarebbe saltato il tappo, la rabbia popolare avrebbe preso di mira la Chiesa e i suoi preti: ne furono fatti fuori circa 7.000 fino al 1939, senza contare gli atti vandalici ai danni di ogni simbolo religioso, in realtà simbolo di un potere castale.
Non è secondaria, tuttavia, un’altra ragione della furia popolare: contadini e operai, che prima s’erano opposti alla dittatura del de Ribera e poi si sarebbero opposti al golpe di Franco, erano spesso segnalati alle loro squadracce dal clero cattolico, che godeva di una tale capillare presenza nel tessuto sociale da poter assicurare un efficiente servizio delatorio.
Contestualizzando: nemico della dittatura, nemico della monarchia e nemico della Chiesa erano la stessa cosa. Bene, L’Osservatore Romano (Vicente Cárcel Ortí, Quando in Spagna c’erano troppi conventi) ignora tutto questo: davanti alle chiese e ai conventi in fiamme vede solo la furia anticristiana, l’odio antireligioso.

I disordini scoppiarono l’11 maggio 1930 e “appena giunsero in Segreteria di Stato le prime notizie su questi gravi fatti, il cardinale Pacelli si affrettò a telegrafare al nunzio Tedeschini pregandolo, il 14 maggio, di comunicare al governo che la Santa Sede altamente deplorava le profanazioni e gli atti di fanatismo antireligiosi verificatisi in quei giorni, chiedendo che cosa le autorità intendessero fare per impedire che tali eccessi potessero ripetersi e esigendo il risarcimento dei danni arrecati a persone e cose sacre. […] Tedeschini consegnò al presidente la nota nella quale era contenuta l’energica protesta della Santa Sede. Durante la sua lunga conversazione, questi sostenne che disgraziatamente gli ordini del governo non erano stati eseguiti dalle forze di Pubblica Sicurezza. Il nunzio già aveva saputo da parte del ministro della Gobernación (Interno), Miguel Maura, che la Pubblica Sicurezza si era rifiutata di eseguire gli ordini impartiti dal governo: cosa che motivò le dimissioni di Maura, fatte poi o ritirare o sospendere dai colleghi. Le autorità, fu spiegato, ritennero dunque di non intervenire per non spargere sangue”.
Avrebbero dovuto farlo, probabilmente, per non avere lamentele da Roma. Sennò – sarebbe stato chiaro con l’appoggio della Chiesa a Franco – la Repubblica avrebbe dovuto pentirsene. E così fu.


lunedì 14 giugno 2010

Un’omelia che è un capolavoro diplomatico


Nell’omelia tenuta dal cardinale Dionigi Tettamanzi alle esequie di monsignor Luigi Padovese non c’è affermazione che letteralmente valga “ucciso per odio religioso”. Abbondano, certo, i riferimenti alla testimonianza di fede svolta in vita da Sua Eccellenza in partibus infidelium, ma è proprio la sua morte a non essere mai direttamente indicata come “martirio”. È un testo assai interessante che vale la pena di analizzare nel dettaglio.
“Per chiamata di Cristo”, monsignor Padovese “è divenuto figlio e padre della Chiesa di Turchia”: la chiamata di Cristo non implica la sua morte, ma la sua attività pastorale in vita. In più punti v’è un cenno al sacrificio di Cristo rinnovato nell’offerta di sangue dei suoi martiri, e in due punti v’è ciò che Sua Eccellenza commentava a riguardo, ma la morte di monsignor Padovese non è definita martirio per fede in alcun passaggio dell’omelia, nemmeno per perifrasi o per ellissi.
Anche quando si fa cenno a “quell’ultimo drammatico istante della sua vita”, il suo assassino non viene indicato come nemico della fede cristiana, ma come “fratello che [il Padovese] considerava amico e figlio”. Insomma, è come se Sua Eminenza avesse voluto dare alle sue parole il suono di un’omelia in morte di un martire della fede, ma senza essere disposto a dirlo nemmeno implicitamente. Il fatto, poi, che Murat Altun sia definito “fratello che considerava amico e figlio” lo spoglia di ogni franca connotazione islamista, che invece gli è stata voluta dare da chi nell’omicidio Padovese ha subito intravvisto l’assassinio rituale.

In definitiva, Sua Eminenza ha tenuto un’omelia che è un capolavoro diplomatico: ha accontentato col suono delle sue parole i sostenitori della tesi del martirio per fede, ma non l’ha avallata. Anzi, con quel “considerava” ha sottolineato una certa ingenuità del defunto nell’esporsi alle complicazioni dell’adottare come “amico e figlio” chi avrebbe potuto fare una qual certa resistenza all’adozione, come poi in effetti è accaduto. Il cardinale Tettamanzi, in realtà, non esclude affatto che monsignor Padovese sia stato ucciso perché corteggiasse con asfissiante insistenza l’Altun (questa è la versione sulla quale il giovane si ostina). E a una lettura non piatta del testo ha addirittura detto che è possibile, ma che ciò non leva merito ad una vita spesa per testimoniare la sua fede in terra ostile.  

Il nemico in casa


Il calcio non riesce ad appassionarmi, neanche quando gioca la Nazionale. E sì che posso dire d’essermi sforzato, almeno in gioventù, arrivando a indossare la maglietta di una squadretta di serie Ñ (da pronunciare come in sugna): niente da fare, mai riuscito a penetrare la filosofia del gioco. Collezionai sei giornate di squalifica in due anni, ruppi una tibia, segnai un goal di ginocchio, ma non riuscivo a uscire dalla logica del terzino destro che ha una questione personale aperta con l’ala sinistra. Insomma, una merda di terzino destro.
Mi ero spinto a provarmi proprio per l’antipatia verso il gioco – volevo entrarci dentro per farmi prendere dalla normale simpatia che il calcio riscuoteva da tutti attorno a me, firmai quel tesserino come un atto di umiltà, come a darmi una chance – ma in quel gioco tutto mi sembrava (e continua a sembrarmi) una variante delle sfide tra tribù: il meglio in campo (quasi tutti mercenari) e il resto sugli spalti (indigeni malati di senso di appartenenza alla tribù).
È un po’ così per tutti i giochi di squadra, sicché suppongo che questa mia repulsione abbia a che fare con la mia indole scontrosa e selvatica (e infatti amo la boxe, la corrida e il lancio del giavellotto), però col calcio la repulsione ha vera e propria somatizzazione intellettuale: mi dicono che, quando alla tv passa una partita, piglio una smorfia di disgusto e che seguo le discussioni dei dopopartita con lo stesso sguardo atterrito che ogni volta ho nel rivedere la scena della carcassa di motorino buttata giù dall’anello alto di uno stadio, mi pare San Siro.
Ecco, mai come nel calcio – potrei sbagliare ma ne ho salda convinzione – parlarne fa parte integrante del gioco. E il parlarne – per la natura stessa del contendere – mette sullo stesso piano la carcassa del motorino e la più sosfisticata analisi tecnica: si gioca in campo ma la questione è sempre sugli spalti, questo colore o l’altro è indossato da chiunque abbia a che spartire con quella partita. E dunque penso, confortato da chi lo afferma perché lo ama, che il calcio non attirerebbe nessuno se non reclutasse il senso di appartenenza alla tribù, buttando in mezzo al campo tutto il sentimento delle tribù dagli spalti…
Questo è il bello del calcio per chi lo ama, ma a me pare un’altra occasione per legare l’individuo ad una identità di ceppo: un potente richiamo alla guerra di campanile (di nascita o di adozione) dove si vince sempre per il valore delle proprie armi e si perde sempre perché l’avversario è disonesto o ha culo, quando non è perché l’arbitro è cornuto.
Il calcio educa le masse alla partigianeria. Gioca una chiavica, ma è pur sempre la mia squadra: vorrei vincesse sempre. Come nel “right or wrong, but it’s my country”, il calcio dichiara traditrici le categorie del giudizio e le sostituisce con un modello unico di giudizio: se non tifi per la tua Nazionale, o sei un fottuto eccentrico, fai bene ad isolarti, o sei una carogna disfattista, un nemico in casa.

"Ne abbiam visti geni e maghi uscire a frotte, per scomparire"



Corrispondenze


In relazione a un post del 9 maggio (Avido, l’ebreo), nel quale affermavo che l’antisemitismo razziale ha radici nell’antigiudaismo teologico che ha il primo teorizzatore in Giovanni Crisostomo, un lettore mi scrive per chiedermi in cosa abbia radice l’antigiudaismo teologico, proponendo come ipotesi il materiale che lo stesso Giovanni Crisostomo trae dai Vangeli, dagli Atti degli Apostoli e dalle Lettere di Paolo. Non sono della stessa idea: l’uso di questo materiale, nelle sue otto omelie adversus judeos, è palesemente strumentale (come abbondantemente dimostrato da Jules M. Isaac in Jésus et Israël). L’antigiudaismo nasce tra il III e il IV secolo: nella letteratura antecedente a questo periodo non vi sono “insegnamenti al disprezzo” degli ebrei e, anzi, almeno fino a Paolo, gli ebrei continuano ad essere “popolo eletto” anche non avendo riconosciuto in Cristo il Messia. Proprio partendo dalle Lettere di Paolo, in Jeshù ha-nozerì, Joseph G. Klausner arriva a dimostrare che fra i primi cristiani, almeno fino al I/II secolo, fosse opinione corrente che gli ebrei avessero consegnato Gesù a Pilato solo per sottrarsi alle conseguenze che sarebbero potute venire dai romani in reazione a ciò che l’insegnamento di Cristo faceva fraintendersi come movimento di resistenza all’occupazione. Lo studio di Klausner mi pare convincente e basta una lettura della Lettera ai Romani (3, 1-2; 9, 4; 11, 1; 11, 11-12; 11, 29) per constatare che in Paolo v’è intento di proselitismo verso gli ebrei, ma mai una chiara accusa di deicidio. Come e perché sia nato l’antigiudaismo cristiano è faccenda complicatissima, ma è proprio il fatto che se ne abbiano le prime tracce nel III/IV secolo che può spiegarlo: è il momento in cui il cristianesimo diventa religione di stato e Gerusalemme comincia ad essere trasformata lentamente in città bizantina, con qualche resistenza da parte degli ebrei...

domenica 13 giugno 2010

Il Merdaccia



Sfoglio un vecchio numero di Semana (I/3, 12.3.1940) che celebra il primo anno del pontificato di Pio XII.
È il marzo del 1940 e l’Europa è un rogo sempre più incandescente, con poche eccezioni, una delle quali è proprio la Spagna, che se ne terrà fuori. Francisco Franco ha vinto la guerra civile (1936-1939) e si prepara a diventare l’unico fascista che resterà saldo al potere dopo la caduta di tutti i fascismi europei alla fine della seconda guerra mondiale, proprio grazie al suo tenersi defilato, praticamente neutrale. È che deve consolidare la vittoria interna sul comunismo, che ha avuto nella Chiesa un fortissimo alleato.
Pio XII è un papa che piace molto a Franco e una rivista filogovernativa come Semana non ne fa mistero, celebrando in questo numero fra le molte virtù del Pacelli quella più simpatica al regime franchista: l’anticomunismo. E però non la si può celebrare in modo esplicito, perché questo potrebbe imbarazzare il Papato: c’è delicatezza verso un altro tipo di neutralità, quella santa della Chiesa, certamente anticomunista ma da qualche tempo anche antifascista.
C’è un unico modo per dire quanto la Spagna di Franco senta vicino il Papa e quanto gli sia grata per il contributo che ha dato al fascismo spagnolo nella vittoria interna sul comunismo: mandargli insegne militari da benedire. E qui è la volta che tocca alla Marina militare.


“Vuestra profesión de marinos españoles Nos trae a la memoria quella provídenciales carabelas de la España misionera, verdaderas auxiliares de las naves de San Pedro…”. Stiamo parlando della Marina militare che Franco ha ormai definitivamente purgato di ogni ammiraglio che non gli sia stato fedele, a cominciare dai responsabili dell’ostruzione fattagli a Gibilterra dal cacciatorpediniere “Lepanto”, che nell’agosto del 1936 gli aveva ostacolato lo sbarco della sua “Armata d’Africa”.
In ginocchio innanzi al Papa ci sono militari fascistissimi e al Merdaccia paiono provvidenziali ausiliari della evangelizzazione, scorta armata in mare della fragile navicella di San Pietro. Sennò perché Merdaccia?

[...]




L’intento ritorsivo e minatorio



Filippo Facci sostiene che la cosiddetta legge-bavaglio introduce una sola “differenza sostanziale” rispetto alla “vecchia norma” (artt. 684 e 329 del Codice di Procedura Penale): “Il nuovo disegno di legge prevede sanzioni che giornalisti ed editori non potranno trascurare, se applicate”. Perché non bastava applicare la “vecchia norma”, allora, rivendendo eventualmente solo le sanzioni e il meccanismo col quale vengono erogate? Perché una legge nuova, “in teoria – sostiene Facci – più permissiva della precedente”?
La principale ragione per cui hanno fatto la legge – dice – è quella di evitare la pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni prima del tempo, cioè prima del processo. Ma questo non era già assicurato dalla “vecchia norma”, come lo stesso Facci ci rammenta col secondo comma del vecchio art. 114 del Codice di Procedura Penale?
Sono stati commessi abusi verso la “vecchia norma”? Si puniscano, eventualmente in modo più pesante. Ma com’è che Facci non riesce a leggere l’intento ritorsivo e minatorio che c’è nella legge-bavaglio? Com’è che non riesce a cogliere il movente intimidatorio?

Un marziano a Roma


Immaginate d’essere un marziano a Roma, però in incognito. E immaginate d’essere piovuto in Piazza San Pietro nel corso della messa che sta chiudendo l’Anno Sacerdotale: migliaia di preti, venuti lì da ogni parte del mondo. Naturalmente, da marziano, vi è oscuro il senso del termine, ma intuite che quei tizi assai diversi fra di loro per colore, forma e peso abbiano una cosa in comune che peculiarmente li contraddistingue sopra ogni cosa, e vi chiedete cosa.
Non avete che da porgere uno dei vostri sei meati uditivi, parla il loro boss: “Il sacerdote non è semplicemente il detentore di un ufficio, come quelli di cui ogni società ha bisogno affinché in essa possano essere adempiute certe funzioni. Egli invece fa qualcosa che nessun essere umano può fare da sé: pronuncia in nome di Cristo la parola dell’assoluzione dai nostri peccati e cambia così, a partire da Dio, la situazione della nostra vita. Pronuncia sulle offerte del pane e del vino le parole di ringraziamento di Cristo che sono parole di transustanziazione – parole che rendono presente lui stesso, il Risorto, il suo corpo e suo sangue, e trasformano così gli elementi del mondo: parole che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono a lui”.

Facciamo conto che su Marte siate tipi perspicacissimi e che questo vi sia bastato a cogliere l’essenza del cattolicesimo: vi rimane comunque un buco: cosa fa speciale questo umano detto prete? “Dio si serve di un povero uomo – dice per colmarvelo – al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro favore”, sì, ma perché proprio di lui? Perché lui ci si sente portato: sente che Dio stesso lo chiama a fare quel “qualcosa che nessun essere umano può fare da sé”. Ma l’onnipotente – chiederete voi – non poteva dotarne ogni essere umano? Obiezione tipicamente marziana che sulla Terra non ha senso: noi siamo fatti così, tendiamo a delegare le questioni personali, anche il rapporto con Dio, quando siamo credenti, e soprattutto quello, quando siamo cattolici.

Altra obiezione senza senso, almeno qui da noi, è quella relativa a cosa dia la garanzia che un prete sia indispensabile nel rapporto con Dio, a cosa certifichi l’indispensabilità di quelle “parole che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono a lui”: è la stessa sua vocazione, ne fa garanzia un altro prete che lo fa prete.
Su Marte la chiamate tautologia e non l’avete in buona considerazione, ma qui da noi è il non plus ultra: con le tautologie riusciamo a costruire l’inverosimile e, più è inverosimile, più la tautologia ci sembra spiegar tutto. Dunque non vi stupite più di tanto se sentite: “Questa audacia di Dio, che ad esseri umani affida se stesso; che, pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua, questa audacia di Dio è la cosa veramente grande che si nasconde nella parola «sacerdozio»...”; si tratterebbe dell’audacia dei sacerdoti, ma la tautologia la fa diventare “audacia di Dio”.

E allora non state a strabuzzare il vostro papillario ottico se il papa esprime “gratitudine per il fatto che Egli si affidi alla nostra debolezza” come se la vocazione fosse – di per se stessa – prova provata di un forza nel debole, di una virtù nel fetente e di una grazia nell’ordinato: su Marte fate come vi pare, qui da noi usa così.
“È successo che, proprio in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio – dice – siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti, soprattutto l’abuso nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come compito della premura di Dio a vantaggio dell’uomo viene volto nel suo contrario. Anche noi chiediamo insistentemente perdono a Dio ed alle persone coinvolte, mentre intendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più; promettere che nell’ammissione al ministero sacerdotale e nella formazione durante il cammino di preparazione ad esso faremo tutto ciò che possiamo per vagliare l’autenticità della vocazione e che vogliamo ancora di più accompagnare i sacerdoti nel loro cammino, affinché il Signore li protegga e li custodisca in situazioni penose e nei pericoli della vita”.
Su Marte ci sarebbe una contraddizione, so bene: il prete, che prima, anche se debole, trovava ogni sua forza nella vocazione e nel fatto che questa fosse certificata come genuina da un altro prete, non essendo fin lì venuto alla luce alcun abuso da lui compiuto su un minore, qui – di colpo – perderebbe ogni forza e la sua debolezza porrebbe dubbi sulla stessa autenticità della sua vocazione. Contraddizione su Marte, forse, qui da noi è solo apparente: la vocazione è autentica fino a quando non è più autentica, e nell’un caso e nell’altro a stabilirlo è un altro prete. In definitiva, l’autenticità della vocazione è garantita per ciascun prete dall’insieme dei preti.

“Se l’Anno Sacerdotale avesse dovuto essere una glorificazione della nostra personale prestazione umana, sarebbe stato distrutto da queste vicende”, e qui sembrerebbe che i preti non siano mera corporazione: “dono di Dio”, piuttosto. E però questo “dono di Dio”, che “rende concreto in questo mondo il suo amore” anche “attraverso tutta la debolezza umana” dei “vasi di creta” che sceglie, non è più tale solo quando la corporazione svuota il vaso, sicché “consideriamo quanto è avvenuto quale compito di purificazione”. La corporazione resta pulita disfandosi dei membri di cui gli abusi siano venuti alla luce: per tutti gli altri fa garanzia la vocazione, in assoluto.
Com’è da voi su Marte? Avete anche da voi una corporazione che si occupa del vostro rapporto con Dio? Anche da voi ciascun membro di questa corporazione offre garanzie da sé, in forza della vocazione? E accade anche da voi che queste garanzie perdano valore solo quando (e se) la corporazione gliene sottrae l’autentica? Insomma, avete pure voi un Dio così corporativo?

[...]



Il Decalogo del giornalista di Piero Ottone (la Repubblica, 25.9.1996) recita:

“1. Scrivi sempre la verità, tutta la verità, solo la verità.
2. Cita le fonti. Se la tua fonte vuole restare anonima, diffida.
3. Verifica quel che ti dicono. Se non puoi verificare, prendi le distanze.
4. Non diffamare il prossimo, ed evita le frasi del tipo: «Sembra che il tale abbia rubato...».
5. Non obbligare il lettore a leggere una colonna di roba prima che cominci a capire che cosa è successo.
6. Non fare lunghe citazioni fra virgolette all’inizio di un «pezzo» senza rivelare subito chi sia il loro autore.
7. Non mettere mai fra virgolette, nei titoli, frasi diverse da quelle che sono state pronunciate.
8. Evita le iperboli e le metafore di Pierino, come «bufera» («il partito è nella bufera»), «giallo» («il giallo di Ustica»), «rissa» («ed è subito rissa fra x e y»), «fulmine a ciel sereno».
9. Prima di scrivere nel titolo che «Londra è nel panico», va’ a Londra e controlla se otto milioni di persone sono davvero usciti di testa.
10. Non dire mai: «L’obiettività non esiste». È l’alibi di chi vuole raccontare balle”.

Quello di Manuel Lozano Garrido (1920-1971), giornalista cattolico spagnolo, beatificato oggi, è tutta un’altra cosa:

“1. Ringrazia l’angelo che sulla tua fronte segnò la stella della Verità e che la fa brillare ogni momento.
2. Ogni giorno partorirai il tuo messaggio con dolore, perché la verità è una brace che si toglie dal cielo e brucia il nostro cuore per illuminare. Tu fai in modo di portarla dolcemente fino ai cuori dei tuoi fratelli.
3. Tu, quando scriverai, lo dovrai fare in ginocchio per amare; seduto per giudicare, in piedi e con forza per combattere e seminare.
4. Apri con stupore gli occhi a ciò che vedrai, e lascia le tue mani riempirsi della freschezza della linfa, in modo che gli altri, quando ti leggeranno, toccheranno con mano il miracolo palpitante della vita.
5. Il buon pellegrino della parola pagherà con la moneta della franchezza nella porta aperta della locanda che è ogni cuore.
6. Lavora il pane dell’informazione pulita con il sale del buon stile e il lievito dell’eterno. Poi offrilo affettato per avvivare l’interesse, ma non togliere a ciascuno la gioia di assaporare, giudicare ed assimilare.
7. Albero di Dio, chiedi di diventare una rovere dura ed impenetrabile all’ascia della lusinga e della corruzione, ma con la tua fronte nel fogliame al momento della raccolta.
8. Se chiamano fallimento il tuo silenzio perché la luce manca all’appello, accetta e taci. Guai al povero idolo con i piedi fatti con il fango della bugia. Ma attento anche alla vanagloria del martire quando le parole non si fanno sentire a causa della codardia.
9. Taglia la mano che vuole imbrattare, perché le macchie nei cervelli sono come quelle ferite che non guariscono mai.
10. Ricorda che non sei nato per la stampa a colori (gialla, nera, rossa..). Né confetteria, né piatti forti. Meglio servire il buon boccone della vita pulita e speranzosa, così come è”.

Io preferisco quello che sta in una sentenza della Corte di Cassasione del 17.10.1984:

“Il diritto di stampa (cioè la libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti) [...] è legittimo quando concorrano le seguenti tre condizioni: 1) utilità sociale dell’informazione; 2) verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest’ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; 3) forma «civile» della esposizione dei fatti e della loro valutazione: cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere mai consentita l’offesa triviale o irridente i più umani sentimenti.
La verità dei fatti, cui il giornalista ha il preciso dovere di attenersi, non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato. La verità non è più tale se è «mezza verità» (o comunque, verità incompleta): quest’ultima, anzi, è più pericolosa della esposizione di singoli fatti falsi per la più chiara assunzione di responsabilità (e, correlativamente, per la più facile possibilità di difesa) che comporta, rispettivamente, riferire o sentire riferito a sé un fatto preciso falso, piuttosto che un fatto vero sì, ma incompleto. La verità incompleta (nel senso qui specificato) deve essere, pertanto, in tutto equiparata alla notizia falsa.
La forma della critica non è «civile», non soltanto quando è eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire o difetta di serenità e di obiettività o, comunque, calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto, ma anche quando non è improntata a leale chiarezza. E ciò perché soltanto un fatto o un apprezzamento chiaramente esposto favorisce, nella coscienza del giornalista, l’insorgere del senso di responsabilità che deve sempre accompagnare la sua attività e, nel danneggiato, la possibilità di difendersi mediante adeguate smentite nonché la previsione di ricorrere con successo all’autorità giudiziaria. Proprio per questo il difetto intenzionale di leale chiarezza è più pericoloso, talvolta, di una notizia falsa o di un commento triviale e non può rimanere privo di sanzione.
Lo sleale difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista, al fine di sottrarsi alle responsabilità che comporterebbero univoche informazioni o critiche senza, peraltro, rinunciare a trasmetterle in qualche modo al lettore, ricorre - con particolare riferimento a quanto i giudici di merito hanno nella specie accertato - ad uno dei seguenti subdoli espedienti (nei quali sono da ravvisarsi, in sostanza, altrettante forme di offese indirette):
a) al sottinteso sapiente: cioè all’uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico dei lettori, per ragioni che possono essere le più varie a seconda dei tempi e dei luoghi ma che comunque sono sempre ben precise, le intenderà o in maniera diversa o addirittura contraria al loro significato letterale, ma, comunque, sempre in senso fortemente più sfavorevole - se non apertamente offensivo - nei confronti della persona che si vuol mettere in cattiva luce. Il più sottile e insidioso di tali espedienti è il racchiudere determinate parole tra virgolette, all’evidente scopo di far intendere al lettore che esse non sono altro che eufemismi, e che, comunque, sono da interpretarsi in ben altro (e ben noto) senso da quello che avrebbero senza virgolette;
b) agli accostamenti suggestionanti (conseguiti anche mediante la semplice sequenza in un testo di proposizioni autonome, non legate cioè da alcun esplicito vincolo sintattico) di fatti che si riferiscono alla persona che si vuol mettere in cattiva luce con altri fatti (presenti o passati, ma comunque sempre in qualche modo negativi per la reputazione) concernenti altre persone estranee ovvero con giudizi (anch’essi ovviamente sempre negativi) apparentemente espressi in forma generale ed astratta e come tali ineccepibili (come ad esempio, l’affermazione il furto è sempre da condannare) ma che, invece, per il contesto in cui sono inseriti, il lettore riferisce inevitabilmente a persone ben determinate;
c) al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato specie nei titoli o comunque all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre perché insignificanti o, comunque, di scarsissimo valore sintomatico, al solo scopo di indurre i lettori, specie i più superficiali, a lasciarsi suggestionare dal tono usato fino al punto di recepire ciò che corrisponde non tanto al contenuto letterale della notizia, ma quasi esclusivamente al modo della sua presentazione (classici a tal fine sono l’uso del punto esclamativo - anche là ove di solito non viene messo - o la scelta di aggettivi comuni, sempre in senso negativo, ma di significato non facilmente precisabile o comunque sempre legato a valutazioni molto soggettive, come, ad esempio, «notevole», «impressionante», «strano», «non chiaro»;
d) alle vere e proprie insinuazioni anche se più o meno velate (la più tipica delle quali è certamente quella secondo cui «non si può escludere che...», riferita a fatti dei quali non si riferisce alcun serio indizio) che ricorrono quando pur senza esporre fatti o esprimere giudizi apertamente, si articola il discorso in modo tale che il lettore li prenda ugualmente in considerazione a tutto detrimento della reputazione di un determinato soggetto”.

A scanso di ogni equivoco, dico subito che, a mio parere, un blogger non è un giornalista: non ne ha i titoli, non ne ha gli onori, non ha diritto agli oneri che gravano sul giornalista (qualunque sia il Decalogo qui preso in considerazione). Un blogger diffonde notizie e commenti, ma non lo fa per mestiere: ha doveri verso la legge ordinaria, non verso un codice deontologico condiviso, tanto meno verso una normativa speciale implicita nell’adesione ad un ordine professionale. Ed è per questo che mi stanno sul cazzo i giornalisti che hanno un blog e i blogger che si danno arie da giornalisti.

Tutto questo a premessa di due o tre post che, se ho tempo, butterò giorni giù entro lunedì. Sennò quando sarà.

sabato 12 giugno 2010

Secret message cuff links

Indispensabili.

“Avranno una ragione”



“È un bugiardo, punto. […] Penso che in molte cose sia davvero convinto di fare il bene del Paese. È talmente così fuori di testa che pensa di fare il bene del Paese. Non è un mascalzone, non è una carogna, è l’Alberto Sordi della politica. Ognuno di noi ha delle caratteristiche e gli italiani ne hanno diverse: sono un po’ bugiardi, un po’ gradassi, un po’ mascalzoncelli. Lui ha preso tutte queste cose, le ha messe insieme e le ha elevate al cubo. C’è riuscito mirabilmente, tanto è vero che gli italiani lo votano, gli danno il consenso: avranno una ragione”

Last minute


Lo scalpore


Su L’Osservatore Romano di ieri:

All’articolo Tammurriata nera, di Giulia Galeotti – pubblicato su L’Osservatore Romano dell’11-12 gennaio scorso – andrà il Premio Eduardo Nicolardi 2010; la cerimonia di premiazione si svolgerà nel pomeriggio di giovedì 10 giugno, alle 18.30, presso l’Institut Français Grenoble di via Francesco Crispi a Napoli. Il premio, giunto alla sua ventesima edizione, è nato per onorare la memoria del poeta e giornalista Eduardo Nicolardi, e per valorizzare chi diffonde, promuove e salvaguarda la canzone e la cultura napoletana nel mondo. Nel suo articolo, Giulia Galeotti citava proprio la celebre canzone scritta da Nicolardi nel 1945 nel periodo in cui dirigeva un ospedale cittadino, come simbolo di una società abituata a non discriminare chi ha un diverso colore della pelle.

È notizia che mi lascia senza fiato, perché a commento di quell’articolo avevo scritto:

Gli italiani sono più razzisti oggi che nel 1945? Può darsi, ma Tammurriata nera è un pessimo argomento per sostenere questa tesi. Giulia Galeotti, invece, è convinta del contrario e così scrive su L’Osservatore Romano:
“Nel vivace botta e risposta con la gente del vicolo, il protagonista-spettatore commenta un fatto «strano», la nascita di un bambino nero da una ragazza partenopea. Nella canzone lo stupore per un fenomeno nuovo («Io nun capisco ‘e vvote che succede / e chello ca se vede nun se crede. / È nato nu criaturo, è nato niro») e diffuso («Sti cose nun so’ rare, se ne vedono a migliare»), viene spiegato in modo affascinante e singolare: «‘E vvote basta solo ‘na guardata / e ‘a femmina è rimasta sott’ ‘a botta impressionata». Interviene quindi il parularo: poco importa che sia dalla pelle bianca o nera, rimane una creatura. «Addò pastíne ‘o ggrano, ‘o ggrano cresce: / riesce o nun riesce, sempe è ggrano chello ch’esce!». Nel 2010, invece, siamo ancora all’odio”.
Bene, è proprio ciò che afferma il «parularo» [in realtà: «parulano»] a smentire ciò che erroneamente sembra a Giulia Galeotti. La sua frase, infatti, è da interpretare in tutt’altro modo: se pianti [un seme] bianco, buona o cattiva che sia la raccolta, mieterai [un raccolto] bianco (se mieti [un raccolto] nero, dev’essere stato piantato [un seme] nero). La spiegazione “affascinante e singolare” è in tal modo rigettata dal «parularo», come è evidente da ciò che dice nel ritornello subito seguente: “Seh, ‘na uardata, sì. / Seh, ‘na ‘mpressione, seh. / Va’ truvanne mo chi è stato / c’ha cugliuto bbuono o’ tiro: / chillo ‘o fatto è niro niro…”. Tutt’altro che bianco, diverso da un bianco, sicché “ca tu ‘o chiamme Ciccio o ‘Ntuono, / ca tu ‘o chiamme Peppe o Ciro / chillo ‘o fatto è niro niro…”: un nome da [uomo] bianco non lo farà diventare un [uomo] bianco. Ci si legge più razzismo, temo, che il contrario.
(Italiani e razzismoMalvino, 11.1.2010)

Ho ripreso fiato informandomi sui membri della giuria del Premio Eduardo Nicolardi e sull’associazione che ne cura le edizioni, ma qui non è il caso di fare polemiche, perché anche premi assai più prestigiosi vengono dati a cazzo di cane, in Italia, da cani a cani. Quello che mi interessa è altro: Tammurriata nera descrive un’Italia del 1945 meno razzista di quella del 2010, come sostiene la Galeotti nel suo articolo, o no? In altri termini: ho letto male il suo articolo a gennaio?
L’ho letto bene, l’ho letto bene: ci ho passato un pomeriggio, ma ho trovato la conferma alla mia lettura. In due volumi di storia della canzone napoletana (l’enciclopedia di Ettore De Mura e il trattato di Vittorio Paliotti) e in una biografia di E.A. Mario che musicò Tammurriata nera (di Max Vajro) ho trovato lo stesso aneddoto.
Nel 1945, all’Ospedale Loreto Mare, dove Eduardo Nicolardi lavora in amministrazione, nasce un bambino niro e la cosa genera scalpore. Al momento chiamiamolo scalpore. È lo scalpore descritto nella canzone. E che il Nicolardi comunica a E.A.Maio, suo amico (di lì a poco anche suo consuocero). Il quale ne rimane assai colpito. Al punto che gli fa: “È ‘na mamma curaggiosa! È ‘na mamma chiena ‘e core! Edua’, facimmo ‘sta canzone!”.
Curaggiosa: per una donna bianca che mette al mondo un bambino nero, nell’Italia del 1945, ci vuole del coraggio per affrontare lo scalpore. Forse non è proprio scalpore.
La Galeotti non ha capito un cazzo. Ma è stata premiata. È questo che dovrebbe provocare scalpore.

venerdì 11 giugno 2010

Chi ha fatto fuori padre Vianney?



“L’anno che il Papa ha dedicato ai sacerdoti si sta chiudendo con un giallo” (Il Foglio, 11.6.2010). Non si tratta del caso Padovese, che Il Foglio ha già archiviato come martirio della fede. Il giallo sta nel fatto – cominciate a rosicchiarvi le unghie, la cosa merita – che “Giovanni Maria Vianney, il santo curato d’Ars, non verrà proclamato «patrono dei preti di tutto il mondo» come l’Osservatore Romano aveva annunciato il 9 giugno”.
Eccitante, no? Eccitante ed edificante, direi. Come un giallo della serie di padre Brown, tenuto conto che il signor direttore copia i papillon a Chesterton. Mica un giallaccio di quelli da cronaca nera, nel quale – faccio per dire – il cadavere è quello di un gay assillante e l’assassino ha agito con la furia di quella resipiscenza omofoba che prende chi ha dato un qualche diritto all’assillante: questo no, sarebbe un Giallo Mondadori, mentre Il Foglio smercia suspense di qualità superiore.
Sentite come monta: “La proclamazione era un passo naturale dopo che nel corso dell’anno più volte il Papa ha citato Vianney come modello per il clero”; al vertice del climax: “Perché dunque la retromarcia?”. (Non ho ancora un iPad, non posso controllare, ma a questo punto, sulla versione scaricabile de Il Foglio, dev’esserci di certo un link che apre un file audio con breve traccia musicale dall’effetto a incalzo, come in ogni buon film noir.)

Chi ha fatto fuori padre Vianney? “Secondo le dichiarazioni rilasciate dal Vaticano all’agenzia I.Media, l’inedita decisione è stata presa perché il curato d’Ars non è «abbastanza rappresentativo del sacerdozio del XXI secolo, né abbastanza universale». Inoltre non riflette «completamente la figura del prete di oggi, all’epoca della comunicazione»”.
Dopo averlo portato in giro dappertutto con più devozione che per una Madonna Pellegrina e per un anno intero? È chiaro che qui il giallista ci sta dando solo una delle false soluzioni che solitamente anticipano, con immediata smentita, la rivelazione finale, la vera soluzione del giallo, due minuti prima dei titoli di coda, all’ultima pagina del thriller. È banale solo a non capire che si tratta di un meccanismo canonico della suspense, solo se siete lettori di basso livello potete chiedervi: se ne accorgono solo adesso che come modello faceva cagare?
Se siete lettori di alto livello – al livello de Il Foglio – vi godete buoni buoni l’effetto a incalzo e le false soluzioni. Dopo la prima, la seconda: “Il motivo potrebbe anche essere burocratico. Qualcosa non avrebbe funzionato nella stesura del Motu proprio che ne sanciva la proclamazione”.

Soluzione finale del giallo? Non c’è: il giallista lascia l’opera aperta. In meno di 24 ore Il Foglio è riuscito ad archiviare un fattaccio oscuro accaduto a migliaia di chilometri di distanza, in Turchia, ma il giallo che sta di là da Lungotevere Raffaello Sanzio resta senza assassino. (Una eventuale delusione prova che siete fatti solo per i gialli volgari, da plebe incolta.)