sabato 3 luglio 2010

Contrordine, fratelli!


A un mese dalla morte di monsignor Luigi Padovese pare debbano essere corrette alcune affrettate conclusioni tratte a salma ancora calda da pur autorevolissimi e autorizzatissimi commentatori. La lettura “politica” dell’omicidio come ennesimo episodio di “ostracismo nei confronti dei cristiani”, ora, pare almeno un pochetto riduttiva, almeno per Avvenire, che infatti ammette: “Le indagini in Turchia sembrano procedere a stento e ancora non s’è dissipata la fitta coltre dei dubbi su circostanze e moventi dell’assassinio”.
A salma ancora calda, le circostanze erano avvolte nella fitta coltre, ma sui moventi non sembravano esserci dubbi: odio anticristiano, sgozzamento di chiara marca jihadista. Ora la nebbia ha avvolto anche i moventi. Anzi, Avvenire concede: “A volerlo leggere come un fatto di cronaca…”. Mica obbligatorio considerarlo un martirio per fede, però il Padovese aveva da sempre offerto la sua vita alla missione in partibus infidelium, a testimoniare lì la sua fede, e la testimonianza è sempre martirio, almeno etimologicamente, e dunque si potrebbe dire... Insomma, martire ad honorem.
E sì che sulla certezza del movente islamista c’era chi spronava Benedetto XVI a una crociata. Foglianti, teste di cazzo.

Se Avvenire prende atto che dalle indagini non emergono prove certe che si sia trattato di un martirio per fede (e questo lascia intendere che stia emergendo tutt’altro), Libero commemora un Padovese che “forse si è offerto al posto del Papa”. Sì, avete capito bene: il Padovese sarebbe morto per salvare la vita al Papa, “si potrebbe spiegare così, infatti, l’improvviso annullamento da parte del presule, del viaggio a Cipro, in occasione della visita di Benedetto XVI”. Mancare a quell’importantissimo appuntamento a Cipro rimane il grande mistero dell’intera vicenda, e lì probabilmente sta il reale movente dell’omicidio: per Libero è mistero che si risolve in questo modo.
Per salvare la vita al Papa, il Padovese non poteva partire per Cipro senza portarsi appresso il suo factotum turco come aveva voluto fino al giorno prima? Non poteva comunicare i suoi sospetti sulle intenzioni di Murat Antun alle autorità turche e/o cipriote? C’era bisogno di farsi ammazzare per salvare la vita al Papa? Teste di cazzo insuperabili, a Libero

Esd 10, 36



Mi aspettavo più attenzione sulle scritte lasciate da mano ignota sulla Scala Santa, ma pare che la cosa non interessi troppo. Eppure penso che da quelle si possa risalire al loro autore o, se non proprio a lui, a quella ristretta cerchia di individui che possano avere avuto un fine nel mandare un messaggio criptato a quel modo: frasi in cirillico dal tenore erotico-sentimentale, firmate Vania, con la cifra di un versetto dal Libro di Esdra (Esd 10, 36).
L’associazione tra caratteri cirillici e un nome che è anche russo, ma che è scritto in caratteri latini, assume un significato particolare se si considera che il versetto biblico recita: “Vania, Meremòt, Eliasib, Mattenai, Iaasai”. Il Vania qui citato non è diminutivo di Ivan, ma è – con gli altri – il nome di uno dei “sacerdoti [ebrei] che avevano sposato donne straniere” (Esd 10, 18) e che furono condannati a “rimandare le loro donne insieme ai figli avuti da esse” (Esd 10, 44). [Siamo tra il 520 e 515 a.C.]
Io penso che l’autore delle scritte sia un prete cattolico di nazionalità slava al quale il vescovo ha ordinato di sbarazzarsi dell’amante, venuto a Roma a scavalcare l’ordine gerarchico per una folle supplica. La Scala Santa è, infatti, ancora oggi percorsa in ginocchio da molti fedeli che chiedono grazie.
Altro che insulti al Papa, come si è detto.

Slow brown fireworks

If we were to bump into each other again, where would you rather it be:
A: In a sauna.
B: On an oil rig.
C: In a morgue.
D: I love you.
E: Please don’t think I’m mental.
F: I hand delivered this, I’m outside your house right now.


venerdì 2 luglio 2010

[...]

La cattiveria di Formamentis è adorabile, ma Jimmomo aveva scritto: “C’è da sospettare…”, mica che lo sospettava lui.

Una rotonda sul mare / 5



Blogosfere

Epicuro e ipercura.

Sapevámonlo


Il tempo mi ha dato ragione di ciò che ho sempre pensato e scritto di Vito Mancuso fin dal 2007, quando a me pareva già evidente la grave eresia contenuta ne L’anima e il suo destino, e ancor più evidente mi pareva la sua estrema conseguenza: radicalizzare quello spirito del Vaticano II che a detta dei cattolici di stretta ortodossia è sempre stato un letale fraintendimento della lettera di quel Concilio. Ho scritto che il rogo aspettava Mancuso e che se lo meritava. Intanto mi stupivo che fosse tanto coccolato finendo per risolvere: cercano di tenerselo buono, cercano di contenerlo.
“È come se dicesse alla teologia: vai al sodo. E alla cultura: accetta la sfida. Così Mancuso apre un dibattito franco e rigoroso grazie a un libro intelligente e documentato”, e mica lo diceva Corrado Augias a quei tempi: lo diceva monsignor Piero Coda, non proprio un “progressista”, docente di Teologia dogmatica alla Pontificia Università Lateranense, per darvi la misura del cerebro, e presidente dell’Associazione teologica italiana, per darvi quella del polso; lo diceva dalle pagine de Il Foglio, che a quei tempi portava Mancuso sul palmo della mano e oggi non smette di strofinarsi il palmo della mano sulla giacca, come se volesse pulire ogni traccia di Mancuso.
Sarà che il brillante teologo non va più tanto di moda o che ci va un po’ troppo? Di certo c’è solo che, prima, “il professor Mancuso è una voce accettata e ascoltata nel mondo della teologia cattolica” (Giuliano Ferrara - Il Foglio, 10.10.2007) e, ora, commissioniamo il commento della sua pericolosissima teologia anticattolica a due tosacani come Camillo Langone e Angiolo Bandinelli, non ci sprechiamo manco un Pietro De Marco.

Mi sono trattenuto dal commentare l’articolo di Vito Mancuso su la Repubblica di domenica 30 giugno per non ripetermi, mi sono trattenuto dal commentare ciò che ne ha scritto Il Foglio perché Luca Massaro ha buttato giù un post che spiaccica Langone e perché Bandinelli si spiaccica da solo.
Mi sembra interessante, invece, sottolineare ciò che ha scritto De Marco sul tanto contestato articolo di Mancuso: “Il nostro «teologo» scrive: «Essendo tutto dominato dalla logica evolutiva, non esiste alcun punto fermo, se con fermo si intende qualcosa di statico e di immobile [...]. Dio è un punto fermo [...] nel senso di immutabile quanto alla dinamica del suo movimento vitale che è l’amore [...]. E va da sé che, non essendo Dio, a maggior ragione non sono punto fermo né la Bibbia [...] né la Chiesa con il suo magistero dottrinale [...], il quale parla veramente nel nome del Dio vivo solo se consente e incrementa il creativo dinamismo della libertà» [La vita autentica, Raffaello Cortina Ed. 2009]. […] Questo monismo energetico, disperante nella sua dogmaticità, può certamente apparire frutto di un tardo, sfilacciato New Age. La Rivelazione, le Rivelazioni, sono accessorie. [...] Chi ha decostruito l’intelletto cattolico a questo punto?”. Dio, com’è bello sentir parlar chiaro: Mancuso è un eretico.
Modestamente, sapevámonlo. Ma quale autorevole fonte pigliamo per dargli fuoco? La Pascendi dominici gregis di Pio X (1907). Che De Marco non cita nei punti salienti, ma in cazzatelle accessorie. Però come dimenticare che la Pascendi è l’enciclica che condannò il modernismo? A questo stiamo: Mancuso ricicla. Bruciato.

giovedì 1 luglio 2010

Uno strappo all'eccezione


L’articolo contiene innumerevoli cazzate. Lo firma un prete che sull’argomento – le “potentissime lobby omosessualiste” – torna costantemente, da anni e così spesso e con tale accanimento da far sospettare che voglia innanzitutto convincere se stesso. 
In più è un prete di quelli proprio insopportabili: ignorante e arrogante, borioso e smargiasso, mezzo lefebvriano, omofobo, razzista e, a naso, untuoso. Di quelli che, quando li incroci per strada, non li butti sotto solo perché poi passi un guaio (*).
Ancora: l’articolo, ormai vecchiotto, è riproposto da pontifex.roma.it, evidentemente a corto di roba fresca, e io avevo promesso a me stesso di non dedicare neanche più un rigo a quanto scarabocchiato su quella porta di cesso di oratorio, roba affine a “gli immigrati vengono a pisciarci dietro al Duomo”, “le donne che pigliano la pillola so’ tutte zoccole e quelle che abortiscono so’ tutte assassine”, un mix di Fallaci, Ferrara, Borghezio e Quagliariello, però di bassissimo livello estetico.
E però un lettore assiduo e affezionato, che tante volte ho dovuto ringraziare per le sue interessanti segnalazioni, mi scrive: “«Omosessualiste»? Al di là della solita aria fritta sul potere delle lobby gay, è quasi sorprendente notare il contributo che si sforzano di dare alla lingua italiana” (Nicola Bergonzi). È un invito al commento dell’articolo di don Marcello Stanzione.

Sul punto sollevato dal Bergonzi, direi che non fanno troppo sforzo: la trattano di merda, la lingua italiana. Senz’altra attenzione – né tecnica, né artistica – che all’utilizzo per fini apologetici o propagandistici (che poi è la stessa cosa). C’è da far intendere che la scelta omosessuale è socialmente destabilizzante (contro natura)? Bisogna rappresentare il destabilizzatore per eccellenza: l’ideologia.
L’ideologia (la tiri fuori da ogni cosa, basta che ci aggiungi -ismo o -ista) piega la verità ai suoi fini, così – scrive don Stanzione – “attraverso internet, la televisione, i giornali e una cattiva educazione sessuale si è riusciti a creare una opinione pubblica non ostile alla pratica omosessuale”: il complotto delle “potentissime lobby omosessualiste” è andato a buon fine e adesso l’opinione pubblica – mannaggia! – non è più ostile agli omosessuali e alle loro porcate contro natura.
Prova del nove? “Chi sostiene che [...] l’omosessualità è una condizione patologica che ostacola lo sviluppo integrale della personalità [...] viene liquidato come intollerante, retrogrado, sessuofobo, roba da medioevo, da mandare appunto dietro le sbarre e di conseguenza diviene il bersaglio favorito dai mass media”. Ma dico: è giusto?
Non è giusto – scrive don Stanzione – perché “è opinione erronea che l’omosessualità sia una opzione normale della realtà sessuale”. Perché sta scritto sulla Bibbia? Macché, don Marcello ci tiene a far vedere che è forte in Bignamino: perché lo diceva Freud.
Ecco, come nell’occhio del ciclone sta una perfetta pace, in mezzo a tanto vorticare di cazzate sta una questione decente: Freud considerava patologica la condizione omosessuale?

Può darsi che la considerasse tale nel 1905, quando scriveva: “L’evoluzione ha lo sbocco nella cosiddetta vita sessuale normale dell’adulto  [e quel “cosiddetta” è interessante], ove l’acquisizione del piacere è entrata al servizio della funzione procreativa e le pulsioni parziali, sotto il primato di un’unica zona erogena, hanno formato una solida organizzazione per raggiungere la meta sessuale in un oggetto estraneo [senza però neanche aggiungere “appartenente al sesso opposto”](Tre saggi sulla teoria sessuale). Ma nel 1935, per esempio, già la pensava in tutt’altro modo: “L’omosessualità non dà sicuramente alcun vantaggio, ma non c’è nulla di cui vergognarsi, nessun vizio, nessuna degradazione, non può essere classificata come malattia” (Lettera a una madre americana). Già anni prima, inoltre, aveva dichiarato che l’omosessualità dello psicoanalista non è condizione che in sé faccia ostacolo all’attività psicoanalitica.
La convinzione che Freud considerasse patologica la scelta omosessuale nasce alla morte di Freud e regge solo per alcuni decenni: don Marcello è rimasto incastrato nel Bignamino d’annata.
(*) Per modo di dire, naturalmente.

70 giorni


Benedetto XVI accetta le dimissioni che monsignor Walter Mixa aveva presentato il 22 aprile con l’ammissione di aver commesso gli abusi su minori che gli venivano attribuiti e che fin lì aveva sempre negato di aver compiuto: 70 giorni per decidere se accettarle o no.

Una rotonda sul mare / 4



Per chi suona la campana?



Un paginone pubblicitario su Avvenire di domenica 27 giugno ci invita a riflettere. Solitamente una campana ha lunghissima vita, non di rado ultrasecolare, però, quando subisce danni, diventa inutilizzabile e c’è solo da buttarla. In compenso, la sua manutenzione ordinaria richiede poco impegno, mentre quella straordinaria (riparazione o sostituzione delle parti mobili o di sostegno) è solo occasionale e dal costo irrisorio rispetto a quello della campana stessa, che può arrivare anche a diverse centinaia di migliaia di euro. Perciò nessuno si disfa di una campana che non abbia subito lesioni, per il semplice fatto che il mercato di campane usate lesionate è praticamente inesistente. E tuttavia ci sono delle eccezioni, tutte legate alla necessità di un ridimensionamento delle spese di gestione al capitolato del personale addetto, quasi sempre risolto con l’installazione di dispositivi elettronici sostitutivi. E dunque donde vengono le campane usate vendute dalla Italsonor? Da chiese che non sono più in grado di sostenere le spese per farle risuonare e che hanno scelto l’opzione alternativa di un altoparlante sul campanile e di un pulsante in sagrestia: quel paginone pubblicitario è uno dei tanti indicatori di una crisi. Scarseggiano i preti, ma scarseggiano anche i soldi per pagare un campanaro, al punto da considerare conveniente disfarsi di campane che – Italsonor garantisce – sono in ottime condizioni.

[...]


In Mc 11, 11-26 si racconta di Gesù che maledice un fico sul quale, mosso da languorino, non aveva trovato neanche un frutto, ma solo foglie, e si legge: “Non era infatti la stagione dei fichi”. Che cazzo maledici, allora? Com’è e come non è, la maledizione di Gesù fa seccare il fico “fin dalle radici”. Qui la domanda è: dovendo compiere un prodigio, non potevi farlo fruttificare fuori stagione? Mah, lasciamo perdere.

È ragionevole ipotizzare


“Attraverso un programma di azioni criminali che hanno cercato di incidere gravemente e in profondità sull’ordine pubblico, Cosa Nostra ha certamente inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste”. Così affermava Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia, lo scorso 26 maggio. Carlo Azeglio Ciampi, che era presidente del Consiglio all’epoca di quelle azioni criminali, si affrettava a dirsi d’accordo: “Il procuratore antimafia dice la verità, e io condivido pienamente le sue parole”.
Nessuno dei due produceva prove e senza prove si dovrebbero evitare termini come “verità” o “certamente”, ma in questo caso non si trattava di un Gaspare Spatuzza o di un Massimo Ciancimino: le loro dichiarazioni sembrarono ipotesi, però autorevoli.

Ora accade che, a poco più di un mese di distanza, per di più all’indomani di una sentenza che rigetterebbe almeno l’elemento più inquietante in quelle ipotesi, e cioè un accordo tra mafia e importanti pezzi della politica, della finanza e dello stato, Beppe Pisanu, presidente della Commissione bicamerale antimafia, affermi: “È ragionevole ipotizzare che nella stagione dei grandi delitti e delle stragi si sia verificata una convergenza di interessi tra cosa nostra, altre organizzazioni criminali, logge massoniche segrete, pezzi deviati delle istituzioni, mondo degli affari e della politica”. Siamo ben oltre le affermazioni di Grasso: “certamente” Cosa Nostra cercò un accordo – diceva il procuratore nazionale antimafia – ma qui è “ragionevole” pensare che quell’accordo fu trovato. Siamo dopo Grasso e Ciampi, poco prima di Spatuzza e Ciancimino, sicché è lo stesso Grasso che adesso chiede prove a Pisanu.

Probabilmente Pisanu non le ha, altrimenti non avrebbe detto “ipotizzare”. Il fatto è che accanto a “ipotizzare” mette un “ragionevole” che tutto sommato è d’uomo di buona reputazione, peraltro appartenente ad uno schieramento politico che, leader in testa, definisce farneticanti quelle ipotesi, ma pure assai stimato dai suoi avversari, soprattutto da quelli poco inclini a formulare o sostenere ipotesi senza prove e cauti in costruzioni complottiste.
Non è tutto. Pisanu è stato coinvolto nello scandalo della P2 e la sua carriera politica ne risultò compromessa per qualche tempo. Voci di brogli elettorali, poi, hanno insidiato la sua reputazione, nel 2006. A coinvolgerlo, in entrambi i casi furono ipotesi forse ritenute “ragionevoli” con eccessiva leggerezza: un uomo che ha constatato questo sulla sua pelle solitamente ipotizza con giudizio, evitando considerazioni ardite su dati inconsistenti. E dunque le sue dichiarazioni odierne hanno un rilievo particolare.

Voci maliziose non tarderanno ad insinuare, addirittura ad affermare in modo esplicito, che queste affermazioni tornano a palese sostegno dei teoremi cari ai più accaniti nemici di Silvio Berlusconi e che, dunque, sono da intendere come ulteriore sintomo di disagio interno al centrodestra e soprattutto al Pdl. Si dirà che a parlare è stato un politico caduto in disgrazia presso il suo Principe, emarginato da qualche tempo in qua, un poco incarognito dal risentimento e fra i tanti che nel Pdl stanno accantonando punti per il dopo Berlusconi o per soluzioni bipartisan nell’interregno. Si dirà che ha rispolverato la vecchia giubba da zaccagniniano, che si muove da post-post-democristiano...

Di certo c’è solo il fatto che Pisanu sembra aver previsto questo. Infatti aggiunge: “Di fronte a [quegli] eventi terribili si giustappongono senza mai fondersi tre verità, quella giudiziaria, quella politica e quella storica, che si basano su metodi di ricerca e su fonti diverse con la conseguenza di dare luogo a risultati parziali e insoddisfacenti. La verità politica interessa tutti noi per cercare di spiegare ai nostri elettori quale pericolo ha corso la democrazia in quel biennio e come si è riuscito a evitarlo”.
Pisanu, in realtà, offre una ipotesi che solo in apparenza è imbarazzante per il centrodestra: concorda con chi ritiene che con gli attentati del ’92-’93 la mafia abbia voluto aprire un tavolo di trattativa col mondo politico, ma che la risposta fu negativa e il “no” venne proprio dal mondo politico che si sarebbe coagulato in Forza Italia.
I giudici e gli storici diranno quanto nelle loro possibilità, il politico già dice quanto nelle sue: Forza Italia nacque  proprio da quel “no”. Se l’opzione militarista di Cosa Nostra si rivelò fallimentare, come non darne merito a chi riempì il vuoto politico di quegli anni?

mercoledì 30 giugno 2010

Una rotonda sul mare / 3




Con ritorno elastico


La Chiesa è perseguitata? I mali vengono tutti dal suo interno? Per Benedetto XVI, a volte è l’una, a volte è l’altra. Dio voglia che riesca a giungere a sintesi: si procura danni da sé sola, con ritorno elastico.


È morto pure


Dalla neutra posizione di chi non ha mai provato né troppa simpatia né troppo antipatia nei confronti di Pietro Taricone, giudico esagerata tutta questa simpatia post mortem. Non è solo per l’effetto-morte, che risaputamente rende più simpatico chiunque, dev’esserci dell’altro. Se qui, contrariamente a quanto accade solitamente (fisiologicamente, direi), nessuno s’azzarda a dire: “Da vivo mi stava sul cazzo”, dev’esserci dell’altro. Ma lo dico da subito: non posso farlo io: l’ho già detto: non ho mai provato né troppa simpatia né troppo antipatia per il morto: non posso sforzarmi adesso. Anche per risparmiare energie – soffro molto l’afa – mi limiterei ad azzardare alcune ipotesi sul perché di tanta simpatia.
Ma vorrei cominciare da lontano.

Non c’è da stupirsi che qui da noi, in Italia, il personaggio pubblico venga indicato spessissimo col nome di battesimo piuttosto che col cognome: a qualsiasi livello – Alfredino, Tommy, Eluana, Rosa e Olindo, ma anche Vasco, Marco, Silvio – ci piace familiarizzare. Mai visto niente di simile sui media del resto del mondo, ma forse giro poco.
Riducendo il personaggio pubblico a persona familiare – senza far altro che tentare – pensiamo di fargli una cortesia. In realtà gliela facciamo, ma senza sapere se sia desiderata, e facendogliela pagare: da quel momento in poi, qualunque sia il segno della vicenda di cui il personaggio pubblico è protagonista, gli è riservato il trattamento che riserviamo agli intimi.
È un modo per entrare nella conoscenza delle vicende di rilievo pubblico: riduciamo lo spazio pubblico – senza far altro che tentare – ad ambiente familiare.

Venendo a noi: mai sentiti tanti “Pietro”, ora, laddove il normale “Taricone” era quasi d’obbligo, ieri. Il “Pietro” era dei fan e dei parenti, al massimo della Bignardi, ora è di tutti. È solo la morte ad aver consentito a Pietro Taricone una perfetta familiarità: nel cognome, che suonava pure da soprannome, residuavano le zone di ambiguità che scoraggiavano dall’eccessiva familiarità, sicché “Taricone”, oggi, sembra poco adeguato e, come liberato da ogni ambiguità, abbiamo “Pietro”.
Non che Pietro Taricone non ci avesse provato, anzi, poverino, ci teneva tanto, ma partiva svantaggiato, con l’essere entrato nello spazio pubblico col più ambiguo dei ruoli: la rappresentazione della naturalità, che poi fu il gioco di stare in una casa di vetro.
Probabilmente il concetto di intimità è cambiato dal Grande Fratello in poi, almeno un poco, e Pietro Taricone pare aver finalmente toccato una condizione che ci è familiare: è morto pure.

martedì 29 giugno 2010

“Disposizioni urgenti”


Il 4 giugno 2008 una sentenza della Cassazione riconosceva un diritto di indennizzo agli italiani deportati in Germania nel corso della II guerra mondiale per essere destinati al lavoro forzato nell’industria bellica tedesca. La Germania aveva istituito nel 2001 un fondo che destinava 7.500 euro ad ogni ex deportato (eventualmente ai suoi eredi), ma negava l’erogazione della somma a quanti all’epoca dei fatti fossero militari, perché da considerare prigionieri di guerra, in favore dei quali l’Italia rinunciato ad ogni rivendicazione con la firma del Trattato di pace del 1947. La Cassazione stabiliva che all’indennizzo avessero diritto non solo i civili, ma anche i militari, dichiarando irrilevante la richiesta di “immunità di Stato estero dalla giurisdizione italiana”, avanzata dalla Germania.
Non finiva qui. Un decreto-legge del 28 aprile 2010, poi convertito in legge giusto una settimana fa (98/23.6.2010), dettava “disposizioni urgenti in tema di immunità di Stati esteri dalla giurisdizione italiana”, recependo in pieno le ragioni tedesche. L’art. 1 di quella che ora è legge dello Stato italiano recita: “Fino al 31 dicembre 2011, l’efficacia dei titoli esecutivi nei confronti di uno Stato estero è sospesa di diritto qualora lo Stato estero abbia presentato un ricorso dinanzi alla Corte internazionale di giustizia, diretto all’accertamento della propria immunità dalla giurisdizione italiana, in relazione a controversie oggettivamente connesse a detti titoli esecutivi. La sospensione dell’efficacia cessa con la pubblicazione della decisione della Corte. I procedimenti esecutivi e/o conservativi basati sui titoli la cui efficacia è sospesa non possono essere sottoposti e, se proposti, sono sospesi. La sospensione opera di diritto ed è rilevata anche d’ufficio dal giudice. A tale fine, prima di adottare provvedimenti esecutivi o conservativi nei confronti di uno Stato estero il giudice accerta se sia pendente un giudizio per l’accertamento dell’immunità dalla giurisdizione italiana, anche mediante richiesta di informazioni al Ministero degli affari esteri…”.

Al Senato, nel corso della discussione sulla conversione in legge, c’è stato chi ha posto la priorità del principio che pone “un limite alla sovranità degli Stati, dato dalla violazione di valori universalmente riconosciuti”, sulle ragioni della diplomazia, spesso disposta a sacrificarli in cambio di buone relazioni internazionali, dichiarandosi perciò contrario, e invano, a quella condizione di squilibrio posta nell’avere, “da un lato, una ragione politica e la ragione della sovranità e, dall’altro, [i diritti del]le vittime”, “da un lato, il realismo politico delle relazioni internazionali e, dall’altro, i principi generali”; e così concludeva: “Il ricorso di fronte alla Corte di giustizia dell’Aja da parte del Governo tedesco è del dicembre 2008. Vi era il tempo per muoversi diversamente, lo dico con dolore. Non siamo riusciti neanche a sentire quelle vittime… non abbiamo neppure avuto il tempo per una audizione…” (Pietro Marcenaro, Pd - Senato, 16.6.2010).
Ma ormai la legge è legge dello Stato e, in nome delle buone relazioni diplomatiche con la Germania, alla quale l’Italia riconosce in questo ambito l’immunità dalla propria giurisdizione, dovremo rinunciare a far valere i diritti di quanti potrebbero avanzare richiesta di risarcimento ad uno Stato estero per aver subito un danno del quale sia dimostrabile la responsabilità di quello.
Idea partorita dal Governo nell’aprile di quest’anno, mentre in mezzo mondo fioccavano richieste di risarcimento alla Chiesa di Roma per le sue responsabilità nella gestione del clero pedofilo. Si spiega perché le disposizioni fossero “urgenti”.

[...]




Piano con le conclusioni


Avvenire spiega che succede in Oregon adesso che i legali di un tizio stuprato da un prete quando era un ragazzino sono autorizzati a chiederne conto alla Chiesa. Succede, spiega Avvenire, che adesso quel tizio “dovrà dimostrare che il sacerdote che a suo dire lo molestò negli anni Sessanta può essere considerato un dipendente del Vaticano”, sennò lo prende ancora a quel posto. Probabilmente ai legali del tizio converrà procedere per esclusione: non era una spia russa, non era un mafioso siciliano, non era un militante di al Qaeda... Avvenire ha ragione: non sarà facile arrivare a dimostrare che un sacerdote cattolico, per anni spostato dalla Santa Sede di diocesi in diocesi, avesse un rapporto di dipendenza proprio dalla Santa Sede.

Mi arrendo e però


Pure Avvenire – perfino Avvenire – ritiene che quei “possibili errori di valutazione” siano la cosa notevole del comunicato che la Sala Stampa Vaticana ha diffuso riguardo alla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli: mi arrendo, dev’essere così. Ma se presuntivi e consuntivi di Propaganda Fide erano correntemente approvati dalla Segreteria di Stato, se i “possibili errori di valutazione” di Sepe erano correntemente autorizzati da Sodano, vogliamo informarne la Procura di Perugia?