giovedì 3 marzo 2011

Piazzisti


“Ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare
dei principi che sono il contrario di quelli
che i genitori vogliono inculcare ai lori figli”

Se invece di ripetere “inculcare” avesse usato un altro termine (per esempio, “trasmettere”), avremmo avuto la piena antitesi che era nelle intenzioni di Silvio Berlusconi: la famiglia trasmette legittimamente dei principi, la scuola pubblica ne inculca illegittimamente degli altri, che per giunta sono contrari ai primi. Il fatto è che, quando è arrivato a “principi”, dalla platea del II Congresso Nazionale dei Cristiani Riformisti (Roma, 26.2.2011) si è levato l’applauso, e lì, per affrettarsi a chiudere la frase e goderselo, è mancato il controllo lessicale.
Per dar forza al concetto si è affidato alla reiterazione ravvicinata dei termini, che è nell’armamentario retorico dei piazzisti (epifora, isocolon, anadiplosi, epanortosi, ecc.), ed è caduto in infortunio. Come se un venditore di tappeti, dopo aver definito “zerbini” i prodotti della concorrenza, chiudesse dicendo: “I miei zerbini sono incomparabilmente migliori”.

Questo genere di critica alla scuola pubblica non è nuovo, e non nasce fuori da essa: in embrione già sta in quanto la Cisnal Scuola lamentava verso la fine degli anni Cinquanta, prendendo corpo nella polemica sui contenuti dei libri di testo (soprattutto quelli di Storia) che si sollevò da destra sul finire degli anni Settanta.
Silvio Berlusconi pesca con le bombe in acque stagnanti: attacca una scuola pubblica che non c’è più, se mai ce n’è stata una come quella che descrive. Anche qui rivela il suo limite, che poi è anche la sua forza: l’evocazione di luoghi comuni che pretendono di essere promossi ad affermazioni di piano buon senso.
Può funzionare e infatti ha sempre funzionato. Potremmo dire che è stato straordinario in questo: promuovere alla dignità di argomenti molte frasi fatte che trenta e quarant’anni fa trovarono fortuna nell’immaginario democristiano e missino.

Dopo aver intascato tutto l’intascabile, la Chiesa cerca di smarcarsi: “Ci sono tantissimi insegnanti si dedicano al proprio lavoro con grande generosità, impegno e competenza, sia nella scuola statale che non statale”. Si tratta di una coltellata, senza dubbio, ma è segno che perfino il presidente della Cei rigetta il tentativo di farsi sequestrare in quell’immaginario. Adorabile bastardo, il cardinal Bagnasco, senza dubbio. Ma certamente più attento a cogliere nell’aria i luoghi comuni che sono destinati ad aver fortuna domani. Piazzista di più salda tradizione.

martedì 1 marzo 2011

Avvenire, 27.2.2011 - pag. 39


Caro direttore, mi pare che Roberto Saviano, dopo il meritato successo di Gomorra, si sia montato la testa. Si dedica ormai a monologhi oracolari inscenati in contesti ossequienti fino alla piaggeria, parla come se largisse il verbo di verità ad accoliti da istruire alla sequela. Ignora l’obiezione, il contraddittorio, il sospetto di essere nel torto. Non argomenta, sentenzia. E lo fa su tutto lo scibile umano, con quella sfrenata propensione alla tuttologia di chi si è ritagliato il ruolo di guru...

E questo non è bello perché spetta solo ai preti.

[...]



“Nasce facendo tv innovativa su Raitre, poi passa a Raidue, comincia a sentirsi oppresso dall’egemonia di sinistra e s’incanaglisce, gira spot in cui rovista tra la spazzatura, conduce talk-shows sul sesso, fa spettacolo del se stesso panzone. Quello è il vero Ferrara. […] La strada alla Carfagna, in effetti, l’ha spianata lui: prima creatura televisiva a ottenere la responsabilità di un dicastero. Probabilmente, da lì in poi lui stesso ha cominciato a darsi un’importanza che prima non aveva, a studiacchiare un po’ di più. […] O pensate che sia un pensatore, Ferrara? Ha mai poi scritto libri? Lascerà qualcosa di intellettualmente interessante? Secondo me no”

Il ritorno dell’orco (Piste, 28.2.2011)



The Book of Fallacies / 3



Attendevo l’occasione per parlare delle “distinzioni fittizie” nei “sofismi di confusione” (The Book of Fallacies, IV, 6) e oggi ho finalmente modo di evitare la faticosa prosa benthamiana a riguardo, con un esempio pratico: quello qui sopra.
Per predisporre la “protezione” a salvaguardia di qualcosa (per esempio, di una libertà), non è possibile che mi sia necessaria l’“attuazione” di qualcos’altro (per esempio, di una volontà in quel senso)? Io dico che è possibile. Se, infatti, voglio difendere il mio diritto di rifiutare qualcosa (per esempio, di vegetare in coma), dovrò fuor di dubbio attuare qualcos’altro a protezione di questo diritto (per esempio, la nomina di un tutore che rappresenti la mia volontà in tal senso). E allora dov’è la distinzione tra “protezione” e “attuazione”? Se c’è, è fittizia, e presumibilmente serve a confondere, e dunque è da rigettare. Però Jeremy Bentham consiglia di smontare sempre, prima.


E adesso va’ a capire chi ha ragione



“For most women an abortion is safer than carrying a pregnancy and having a baby”, così sulle nuove linee guida del Royal College of Obstetricians and Gynaecologists, ma Il Foglio ha da ridire, perché neanche tre giorni fa il Papa ha detto che “l’aborto distrugge la donna”.

E adesso va’ a capire chi ha ragione. Perché non c’è dubbio che quelle linee guida siano il risultato di lunga ricerca e approfondito studio sotto severo controllo scientifico, ma di parti e di aborti, alla fin fine, i ginecologici potranno mai saperne più del Papa?


[...]




“Se vedemo n’artra vorta!”



Poco più di due anni fa scrivevo: “Sentiremo ancora parlare dei lefebvriani: come avanguardia da riacciuffare rincorrendola o come retroguardia da fuggire lasciandola nello scisma” (in Appendice copio-incollo l’articolo, per giornalettismo.com). Ma subito mi pentivo, perché un vaticanista dei nostri scriveva: “Non ci sono divergenze gravi tra le due parti e il gesto di questi giorni di Ratzinger [la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani] non può che accelerare il tutto” (paolorodari.com, 23.1.2009).
Be’, sbagliavo a pentirmi, perché un vaticanista dei nostri – poco importa che sia lo stesso di prima, perché sono tutti uguali – oggi scrive: “Dopo l’uscita nel 2007 del motu proprio Summorum Pontificum con cui si è permessa la celebrazione secondo il rito antico, e dopo la revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani, una nuova primavera sembrava potesse nascere tra le due parti, ma ben poco di quanto auspicato in partenza sembra sia effettivamente nato... La galassia tradizionalista non dorme sonni tranquilli... (Il Foglio, 1.3.2011).
Gesù, Giuseppe, Sant’Anna e Maria! Se invece di limitarti a studiare le cose cattoliche telefonando a questa e a quella tonaca, di tanto in tanto, faccio per dire, avessi studiato un po’ di teologia, saresti stato tanto ottimista allora? E ora saresti così pessimista?

[Diceva bene Padre Pizarro: “Se vedemo n’artra vorta!”.]

*


Appendice


SENTIREMO PARLARE ANCORA DEI LEFEBVRIANI


1. Con un decreto della Congregazione per i Vescovi in data 21.1.2009 arriva la rimozione della scomunica latae sententiae che la stessa Congregazione aveva formalizzato il 30.6.1988 nei confronti di monsignor Marcel Lefebvre e dei quattro vescovi che egli aveva consacrato senza mandato pontificio, ma ciò che maggiormente fa discutere è il fatto che uno d’essi, monsignor Richard Williamson, abbia affermato nel corso di un’intervista rilasciata ad una tv svedese: “I believe that the historical evidence is hugely against 6 million having been deliberately gassed in gas chambers as a deliberate policy of Adolf Hitler. I believe there were no gas chambers”.
Occorre liquidare in fretta questa faccenduola di contorno, perché i problemi relativi alla rimozione della scomunica sono ben più seri e complessi: liquidiamola dicendo che l’estrema destra svedese sta saldando un’intesa politica con frange del cattolicesimo tradizionalista che trovano riferimento proprio in elementi della Fraternità Sacerdotale «San Pio X» (FSSPX) fondata da Lefebvre [1]; che la multisecolare tradizione antigiudaica del cattolicesimo (un antisemitismo non razziale, ma teologico, fondato sul mito di un “vero Israele” cristiano) ha un residuale ma significativo ascendente su molti settori (impropriamente detti) conservatori; e diciamo che le intese politiche esigono reciproche garanzie in forma di affettuose attenzioni. La Santa Sede ha ufficialmente dichiarato che quelle di monsignor Williamson opinioni personali, e questo dovrebbe bastare a chi voglia farselo bastare: gli altri – gli ebrei, in primo luogo – possono consolarsi col fatto che nella Preghiera del Venerdì Santo si continua a pregare affinché escano dalle tenebre dell’errore e si convertano, ma almeno senza più chiamarli “perfidi”.
Possiamo liquidare in fretta anche un’altra questione che è sempre stata menzionata ogni volta che si è parlato dei lefebvriani in questi 21 anni trascorsi da scomunicati, come se fosse l’unica ragione che motivasse la loro disobbedienza: quella sulla liturgia. Affezionati al messale di Pio V, i seguaci della FSSPX hanno già avuto quello che volevano col motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI (7.7.2007): “Missae Sacrificium, iuxta editionem typicam Missalis Romani a B. Ioanne XXIII anno 1962 promulgatam et numquam abrogatam, uti formam extraordinariam Liturgiae Ecclesiae, celebrare licet”.
Tutto dovrebbe e potrebbe considerarsi chiuso con quello che oggi viene presentato come “un atto di misericordia del Papa” nei confronti di alcune pecorelle tornate all’ovile, ma le cose non stanno proprio così. E qualche problemino affiora fin dai testi del decreto della Congregazione dei Vescovi e della risposta di monsignor Bernard Fellay, attualmente a capo della FSSPX. Nel primo si legge che “si auspica che questo passo sia seguito dalla sollecita realizzazione della piena comunione con la Chiesa di tutta la Fraternità San Pio X”, che evidentemente al momento non è ancora “piena” (e vedremo che grazioso eufemismo sia questo); da parte sua, monsignor Fellay scrive che i suoi sono “fermamente determinati nella volontà di rimanere cattolici e di mettere tutte le nostre forze al servizio della Chiesa” e “per questo ci fa tanto soffrire l’attuale situazione”, segno che la rimozione della scomunica non rimuove interamente la sofferenza. È questa sofferenza, il punto che rimane in discussione, e che già fa dichiarare alla Congregazione dei Vescovi la necessità “di non risparmiare alcuno sforzo per approfondire nei necessari colloqui con le Autorità della Santa Sede le questioni ancora aperte, così da poter giungere presto a una piena e soddisfacente soluzione del problema posto in origine”.

2. In un’intervista a caldo, subito dopo l’annuncio ufficiale della rimozione della scomunica, monsignor Fellay ha dichiarato: “Accettiamo e facciamo nostri tutti i Concili fino al Concilio Vaticano II, sul quale esprimiamo delle riserve”. Sono le stesse riserve che sollevarono il “problema posto in origine”: ben prima della consacrazione dei quattro vescovi con procedura che poneva gli estremi della disobbedienza scismatica [2], ben oltre le divergenze sulle questioni di natura liturgica, la polemica di monsignor Lefebvre era a monte: il Concilio Vaticano II avrebbe affermato la rinuncia della Chiesa all’affermazione della “regalità sociale di Cristo”.
Per monsignor Lefebve, era Giovanni Paolo II il “non cattolico”, lo “scomunicato”, quello “fuori dalla Chiesa”, il capo della “setta modernista annidata nel Vaticano” (15.6.1988); e allo “pseudo-restauratore” Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, diceva: “Voi avete cercato di dimostrarmi che Nostro Signore Gesù Cristo non può e non deve regnare nella società, [...] noi [invece] siamo per la cristianizzazione: non possiamo capirci” (14.7.1987).
Spaccatura profondissima, verticale: sull’ermeneutica dei Vangeli, sulla cristologia, sul magistero sociale, sull’ecumenismo e – solo infine – sulla liturgia. I lefebvriani hanno sempre riaffermato la “regalità sociale di Cristo”: con Pio X sostengono che “separare lo Stato dalla Chiesa [...] è una tesi assolutamente falsa, un perniciosissimo errore. Basato in effetti sul principio che lo Stato non deve riconoscere nessun culto religioso, essa è innanzitutto gravissimamente ingiuriosa per Dio; infatti il Creatore dell’uomo è anche il Fondatore delle società umana [...] Noi Gli dobbiamo dunque non solamente un culto privato, ma un culto pubblico e sociale per onorarLo” [3]; e con Pio XII sostengono che “nel corso di questi ultimi secoli si è tentata la disgregazione intellettuale, morale e sociale dell’unità nell’organismo misterioso di Cristo. Si è voluta la natura senza la grazia; la ragione senza la fede; la libertà senza l’autorità; e qualche volta anche l’autorità senza la libertà. Questo nemico è diventato sempre più concreto, con un’audacia che Ci lascia stupefatti: Cristo sì, la Chiesa no. Poi: Dio sì, Cristo no. E infine il grido empio: Dio è morto; o piuttosto Dio non è mai esistito. Ecco il tentativo di edificare la struttura del mondo su fondamenti che Noi non esitiamo a indicare col dito come i principali responsabili della minaccia che pesa sull’umanità: un’economia senza Dio, un diritto senza Dio, una politica senza Dio” [4]. I lefebvriani sono la forma più fulgida e coerente del pensiero teocratico cattolico [5], un pensiero cui la storia ha tolto occasione ma non speranza, e che ritorna col suo irresistibile fascino a provocare dubbi, fino a vere angosce, anche in alto.

3. Scrive Carlo Cremona: “Quando [monsignor Lefebvre] saliva sino alla residenza estiva di Castel Gandolfo verso le ore notturne e si aggirava intorno alle mura della vecchia villa, non in penitenza e nemmeno disposto a trattare, ma per «convertire» il papa che, a suo parere, aveva tradito la Chiesa di Dio, Paolo VI si chiedeva: «Che fare?»” [6].
La tradizione gronda di riferimenti anche relativamente recenti alla pretesa teocratica della Chiesa, che solo il Concilio Vaticano II ha definitivamente dichiarato accantonabile, ma la resipiscenza affiora e provoca disagio, sicché è in questi termini che deve essere letta la “misericordia” di Benedetto XVI nei confronti della FSSPX: si riconosce alla buonanima di monsignor Lefebvre la fedeltà alla tradizione (che è anche tradizione del pensiero teocratico cattolico); gli si continua a rimproverare il non aver accettato il cambio di prospettiva introdotto dal Vaticano II riguardo al ruolo della Chiesa in un mondo largamente secolarizzato; si riaccolgono come figli diletti i suoi seguaci, fidando sulla possibilità di convincerli che Cristo può essere Re anche senza sfoggiare la corona.
È una possibilità che Joseph Ratzinger non ha mai escluso: “Non vedo alcun futuro per una posizione che si ostina in un rifiuto di principio del Vaticano II. Infatti essa è in se stessa illogica. Punto di partenza di questa tendenza è infatti la più rigida fedeltà all’insegnamento, in particolare di Pio IX e di Pio X e, ancor più a fondo, del Vaticano I e la sua definizione del primato del Papa. Ma perché i Papi sino a Pio XII e non oltre? Forse che l’obbedienza alla Santa Sede è divisibile secondo le annate o secondo la consonanza di un insegnamento alle proprie convinzioni già stabilite? [...] I seguaci di mons. Lefebvre [...] sostengono che, mentre si è intervenuti subito, con la pena severa della sospensione, nei confronti di un benemerito arcivescovo a riposo, si tollera in maniera incomprensibile ogni forma di deviazione dalla parte opposta. [...] Le deviazioni «a sinistra» rappresentano senza dubbio una vasta corrente del pensiero e dell’iniziativa contemporanea nella Chiesa, tuttavia quasi da nessuna parte hanno trovato una forma comune giuridicamente definibile. Al contrario, il movimento dell’arcivescovo Lefebvre è probabilmente molto meno ampio dal punto di vista numerico, tuttavia è dotato di un ordinamento giuridico ben definito, di seminari, di istituzioni religiose, ecc. [...] Dobbiamo impegnarci per la riconciliazione, fin tanto che e per quanto essa è possibile, e usare tutte le opportunità concesseci a questo scopo” [7].
Resta il problemino: convincerli che da Giovanni XXIII in poi il Papa continua ad essere infallibile, anche quando rinuncia a proclamare la “regalità sociale di Cristo”, cioè la legittimità della pretesa che fonda sulla tesi che “separare lo Stato dalla Chiesa [sia] un perniciosissimo errore”. Potrebbe risultare impresa dura.

4. Se abbiamo liquidato la questione liturgica per mettere in primo piano il pensiero teologico-politico lefebvriano, non possiamo dimenticare che lex orandi est lex credendi e che “non si comprende nulla della rivoluzione liturgica [del Concilio Vaticano II] se non la si considera come la prima fase di una rivoluzione di tutta la religione cattolica: del dogma, della morale, del sentimento” [8], che i lefebvriani hanno sempre accusato di essere luterana: un tradimento della fede, un’eresia. Continuando a tener fuori dalla nostra discussione le faccende relative all’uso del latino, all’orientamento del sacerdote, alla posizione dell’altare, ecc., non possiamo fare a meno di considerare che ciascuna questione di apparentemente esclusiva natura liturgica, intesa come formale, è tenuta a rendere conto di una forma che qui è sostanza, e non si limita a rappresentarla, contenerla o simbolizzarla. Tutto rimanda, dunque, al ruolo del clero nella comunità ecclesiale: del prete nella messa, ma anche del magistero pontificio nella società.
Con la rivendicazione da parte protestante di un sacerdozio dei battezzati laici (al pastore è data solo la funzione di capo dell’assemblea), che ai lefebvriani pare sia stato raccolto dalla “riforma” del Vaticano II, si ha una perdita dell’asse gerarchico ecclesiale: questo offende il sacramento sacerdotale e in conseguenza – ma sarebbe meglio dire: insieme – Cristo. La lingua volgare al posto del latino toglie al messale il vero e proprio sangue che la irrora; trasformare l’altare in tavola dà all’eucaristia una funzione memoriale togliendole la cifra di grazia; allo stesso modo – identicamente - il magistero della Chiesa è mortificato se viene sacrificato in quella forma che si limita a rappresentare, contenere o simbolizzare la grazia offerta ai popoli. Insomma: la Chiesa e lo Stato non devono essere separati, e non è difficile immaginare in cosa possa tradursi questa unione.

5. Sarà difficile convincere i lefebvriani che la forma sia validamente riformabile senza intaccare la sostanza della pretesa magisteriale nell’affermazione della “regalità sociale di Cristo”, perché il Concilio Vaticano II l’ha già fatto, ed è sul Concilio che i lefebvriani continuano a “esprimere riserve” anche dopo la rimozione della scomunica. Eppure, quando l’allora cardinale Ratzinger stilava il protocollo d’intesa del 5.5.1988 che sarebbe stato poi rigettato da monsignor Lefebvre, il “problema posto in origine” era proprio il Vaticano II: “La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo” [9], con ciò che implicava sul piano politico.
Ai lefebvriani, probabilmente, non basteranno mai le rassicurazioni di Benedetto XVI, che non possono andar troppo oltre ciò affermava da prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: “Se per restaurazione si intende un tornare indietro, allora nessuna restaurazione è possibile. Ma se per restaurazione intendiamo la ricerca di un nuovo equilibrio… allora sì… è del resto già in atto. Sì, [per la Chiesa] il problema degli anni sessanta era acquisire [leggi: far propri, appropriarsi] i valori migliori espressi da due secoli di cultura liberale” [10], che per i lefebvriani hanno sempre considerato anticristiana, rifiutando anche la soluzione di una Chiesa “tradizionalista, ma in privato” [11].
Sì, sentiremo ancora parlare dei lefebvriani: come avanguardia da riacciuffare rincorrendola o come retroguardia da fuggire lasciandola nello scisma. Sarà quando sarà completata l’operazione del pontificato di Benedetto XVI: far vomitare ai cosiddetti “progressisti” ciò che avevano frainteso del Vaticano II. Se non muore prima.

[2] Codice di Diritto Canonico, Can. 1382
[3] Pio X, Vehementer (11.2.1906)
[4] Pio XII, Udienza (12.10.1952)
[5] Devo chiarire: non ho scritto “teocrazia cristiana”, che sarebbe stata una sciocchezza, ma “teocrazia cattolica”, facendo riferimento a un modello politico, prim’ancora che una realtà storica (il Papa-Re), e trova forma piena nella Quanta cura (Pio IX, 1864), anche se ha lontani antecedenti, addirittura medievali (Alvaro Pelayo), dunque addirittura antecedenti allo scisma luterano. (Più in qua: in Joseph-Marie De Maistre e Plinio Correa De Oliveira.)
[6] Carlo Cremona, Paolo VI, Rusconi 1991
[7] Vittorio Messori, Rapporto sulla fede, Edizioni San Paolo 1985
[8] Raymond Dulac, Monde et Vie (VI/1969)
[9] Gaudium et spes, 76 (7.12.1965)
[10] Joseph Ratzinger, Jesus (XI/1984)
[11] Giulio Maria Tam, Documentazione sulla Rivoluzione nella Chiesa (II/2001)

[pubblicato col titolo Lefebvre ha vinto o ha perso? (giornalettismo.com, 29.1.2009)]

lunedì 28 febbraio 2011

Assente in aula




“Sua Santità fece chiamare il cardinale a Roma...”


Da una newsletter di zenit.org recupero il succinto resoconto del dibattito tenutosi alla Pontificia Università Lateranense di Roma, venerdì 18 febbraio, alla presentazione di un volume a cura di Lucetta Scaraffia, che raccoglie scritti nel quarantennale della pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae (A.A.V.V., Custodi e Interpreti della Vita, Libreria Coletti 2010); da lì traggo, e copio-incollo qui, quanto ha rivelato monsignor Enrico Dal Covolo – mi azzardo a immaginare – con vocina soave: “All’epoca, l’enciclica trovò resistenze anche all’interno della Chiesa. Un presidente di una Conferenza episcopale di una importante nazione dell’America Latina aveva manifestato in un telegramma a Paolo VI, a nome dell’episcopato di quella nazione, una vibrata e decisa perplessità sul testo pubblicato. Sua Santità fece chiamare il cardinale a Roma e gli chiese di mettersi in ginocchio e chiedere scusa”.

Non mi intrattengo troppo sulle questioni preliminari. In breve:
(1) “All’epoca”, un cazzo. La Humanae vitae ha sempre trovato resistenze nella Chiesa, non ha mai smesso di trovarle. Basti pensare al cardinale Carlo Maria Martini: Sono fermamente convinto che la direzione della Chiesa possa mostrare una via migliore di quanto non sia riuscito alla Humanae Vitae. Saper ammettere i propri errori e la limitatezza delle proprie vedute di ieri è segno di grandezza d’animo e di sicurezza. La Chiesa riacquisterà credibilità e competenza” (Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori 2008), che non mi pare di sapore encomiastico.
(2) “Vibrata e decisa”: com’è fatta, una “vibrata e decisa perplessità”? La perplessità non era quella roba tutta incertezza e dubbio? E come mi è diventata roba “vibrata e decisa”? Maledetta ipocrisia dei preti, Sua Eccellenza riuscirebbe a dir soffice” anche la mannaia di Mastro Titta. (Certe volte la faccia di culo arriva all’arte.)
(3) Il Codice di Diritto Canonico riconosce a tutti battezzati, laici e chierici, “il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa [e] in modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono” (Can. 212, §3). Un cardinale, per giunta presidente di una Conferenza episcopale, non aveva il diritto di manifestare a Paolo VI la sua perplessità? Neanche in modo tanto riservato? (Qui, però, si tenga conto che il Codice vigente non era ancora in vigore nel 1968. E che tuttavia quello del 1917 riconosceva tale diritto in diretta subordinazione gerarchica: e subito sotto al Papa non ci sono i cardinali?)

Ma queste sono cazzate, veniamo al nodo della questione: “Sua Santità fece chiamare il cardinale a Roma e gli chiese di mettersi in ginocchio e chiedere scusa”.
Chiedere scusa per aver manifestato (seppur decisamente, seppur vibratamente) un dubbio su una enciclica che Paolo VI aveva scritto nel modo sconsigliatogli dalla gran parte dei consulenti. E consulenti scelti da lui. E chiedere scusa non bastava, era necessario farlo in ginocchio. E di Paolo VI si è soliti dire che fosse un Papa mite, intimamente problematico fino al perenne indugio. E meno male – dico sennò a quel cardinale avrebbe strappato le palle a morsi. (E monsignor Dal Covolo sarebbe stato costretto a un altro eufemismo dei suoi: il cardinale andò via da Roma – avrebbe detto – con un peso in meno sulla sua coscienza.)


Risorgimento in nuce


“Un giorno che il Machiavelli andava riparlando al tavolo d’un’osteria di questa bandiera da alzare per raccogliere tutta la gente di quella battuta, corsa, invilita provincia d’Italia, gli domandarono i suoi amici: «Ma infine, che impresa mettereste voi su questa bandiera?». Allora egli disegnò sulla tavola, intinto nel vino il suo indice, una bandiera; e in quella bandiera uno stemma sul quale scrisse, con belle lettere di cancelleria: ITALIA UNITA, ARMATA, SPRETATA”

Giuseppe Prezzolini,
Vita di Nicolò Machiavelli fiorentino,
Longanesi 1969

Salviamo la democrazia possibile


Stabilito che “un’oligarchia ben organizzata assomiglia molto a una democrazia possibile” (Il Foglio, 22.5.2008), non resta che organizzare bene l’oligarchia e smetterla col rincorrere democrazie impossibili. In primo luogo, per evitare che qualche rompiballe sollevi la questione che oligarchia è una cosa e democrazia un’altra, occorre dare alla prima almeno una parvenza della seconda, e dunque occorre che gli oligarchi sappiano sostenere entrambe le parti che stanno nel gioco democratico: i rappresentanti della maggioranza e quelli dell’opposizione dovranno dichiararsi alternativi gli uni agli altri e, quando non dovessero apparire tali, dovranno dichiararsi consociati in vista dell’interesse generale, che così sarà fatto sovrapponibile a quello dell’oligarchia, facendo apparente equivalenza tra tenuta del sistema democratico e inattaccabilità del patto consociativo.
In realtà, i rappresentanti della maggioranza e quelli dell’opposizione dovrebbero essere consociati ab initio in quanto appartenenti alla stessa élite oligarchica, o almeno così dovrebbe essere, e tuttavia non sempre accade: talvolta capita che tra chi interpreta la parte di rappresentante della maggioranza e chi interpreta quella di rappresentante dell’opposizione si perda di vista il fine ultimo della rappresentazione e si finisce per smarrire il senso di appartenenza ad un’unica élite. Capita, ad esempio, che quella forma di oligarchia che è detta partitocrazia possa subire una frattura interna, dando vita a due centri di poteri, distinti e alternativi per davvero, sostanzialmente motivati dallo stesso intento, che è l’esclusivo esercizio del potere, ma col rischio che a nessuno dei due riesca troppo agevolmente.
Si tratta di situazioni che mettono in serio pericolo il controllo oligarchico di una società, col rischio di rimettere nelle mani dei più il potere che i pochi non sono intenzionati a spartirsi. In tali situazioni, in nome dell’unica democrazia possibile, diventa necessario – anzi, indispensabile – che la frattura si ricomponga, e qui il patto consociativo non sarà più soltanto la rappresentazione di un compromesso tra maggioranza e opposizione per la tenuta del sistema democratico, ma una vera e propria misura emergenziale per rifondare ex novo un’oligarchia ben organizzata.

A cosa dovrà assomigliare un’oligarchia ben organizzata che pretenda di essere considerata come sola democrazia possibile in una repubblica parlamentare? Ad una partitocrazia che regga ad ogni rischio di frattura interna. “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (Costituzione, art. 49), ma dicevamo che “un’oligarchia ben organizzata assomiglia molto a una democrazia possibile”: se questa oligarchia è trasversale ai partiti, il solo metodo democratico possibile è quello che assicuri all’élite partitocratica il pieno controllo di entrambe le parti in gioco. In altri termini, i dirigenti dei partiti di opposizione devono essere fatti consci, se non lo fossero, della possibilità di concorrere a determinare la politica nazionale da consociati, piuttosto che da concorrenti: il concorrere, infatti, indica il competere ma anche il collaborare e, quando si collabora nel costruire una democrazia possibile, c’è bisogno di una “concertazione tra tutte le forze sociali, per una sempre migliore calibratura nella distribuzione dei poteri corporativi [e c’è bisogno di] un incontro tra esecutivo e businessmen per stabilire dove e come investire [perché] riforme è parola generica per indicare un orizzonte e una nuova strumentazione legislativa fondata su liberalizzazioni e deregolamentazioni [ma poi ci sarebbe bisogno pure di un] Bersani [che] amasse [tanto] il suo mestiere [da] votare quanto necessario in Parlamento” (Il Foglio, 28.2.2011). Insomma, salviamo la democrazia possibile.



Da un attento raffronto comparativo tra quello che invii e quello che pubblicano...



... ti rendi conto che quale sia il limite dei finiani. Ottime persone, senza dubbio, ma non riesci a insinuar loro neanche un sospetto e “l’editore” diventa “qualcuno”. Poco importa che il senso della letterina venga stravolto – sono abituato – ma è segno che la risposta che chiedevo a Giordano Bruno Guerri era davvero nella domanda che gli facevo.

Niente di personale



Adesso chiama il 5,
adesso chiama il 5…
E chiama proprio il 5.

A me Piroso sta sul cazzo. Niente di personale, mi sta sul cazzo quel tipo di intervistatore.
Stasera, per esempio, aveva davanti Davigo. E gli è andato a metter sotto il muso il caso Tortora. E quello a dirgli che non si pronunciava su processi dei quali non avesse letto gli atti. E Piroso a insistere: be’, però, si sarà fatta una mezza idea? E Davigo: non ho letto gli atti, non mi esprimo. E Piroso: sì, vabbe’, però... E Davigo: no. E Piroso: ma... E Davigo: no.
Bene, io credo che questo non dovrebbe mai accadere nel corso di unintervista: di fronte a un rifiuto del genere lintervistatore non deve insistere, ma punire lintervistato. Nel caso di Davigo, sarebbe stato consigliabile cambiare subito registro: solo domande alle quali Davigo potesse aver il legittimo diritto di non rispondere.

Per esempio:
Parliamo di sesso. Dottor Davigo, a lei che piace?
Vedo qui dal monitor che lei muove assai nervosamente la coscia sotto il tavolo: è nervoso? Lo fa spesso?
Dottor Davigo, nel cancellare i numeri sul tabellone luminoso che ha davanti, lei sceglie una sequenza che graficamente dà una X... Può escludere si tratti di ciò che *** [un nome inventato al momento] ha messo in relazione a una personalità di tipo *** [a scelta]? Ha letto il suo trattato, vero?

Non è tutto, c’è pure l’intervista a Martina Colombari, che a un certo punto gli risponde con una domanda: ma perché, tu che facevi vent’anni fa? Ecco, qui l’intervistatore ha solo due opzioni, ma non può rispondere: non è il caso di parlarne. O dice: qui sono io a fare le domande; o risponde e dice: ero co-conduttore di Primadonna, con Eva Robin’s. E con fierezza.
 
 

sabato 26 febbraio 2011

La piccola fiammiferaia



“Tanto ve lo ritrovate in tv prima o poi”

“Ho avuto l’offerta di rifare la mia vecchia rubrica Radio Londra e l’ho accettata”, annuncia. Cominciamo col dire che l’offerta era stata sollecitata, anche assai pateticamente, qualche mese fa: “È il mio terzo Natale senza tv, e ormai sono o immagino di essere come la piccola fiammiferaia, strofino il naso sul monitor scintillante dell’elettrodomestico più prestigioso del mondo, un giocattolo che la sorte ria, la vita amara, il destino cinico e baro mi hanno tolto per pura cattiveria” (Il Foglio, 20.12.2010). Mi pare fosse obbligatorio fargliela, l’offerta: se un deputato vale almeno 150.000 euro, una escort anche 178.000 e una igienista dentale uno stipendio da consigliere regionale, a un propagandista di ottimo livello puoi negare un contratto Rai?
Cerco di mettermi nei panni di Berlusconi di fronte alla richiesta che gli veniva da Ferrara. Avrà fatto i suoi calcoli e tutto si può dire tranne che non sappia farli. Smette di flirtare con Tremonti, anzi, può darsi sappia pure logorarmelo un poco. Mi dà una mano a spaccare l’opposizione tra garantisti e giustizialisti, e in quello è bravissimo, molto trasversale e molto obliquo. E poi dà una passata di straccio alla rivoluzione liberale. E poi lecca bene. Via, vale almeno sei o sette Capezzoni, tanto più che poi stavolta lo faccio pagare ai contribuenti, non come l’altra volta che Bettino me lo caricò sulle spese. Fate entrare la piccola fiammiferaia, poverina, ché li fuori gela.


[L’illustrazione è di Sospensorio.]

venerdì 25 febbraio 2011

Tutto fa brodo



A sostegno della tesi che le rivolte popolari in Tunisia, in Egitto e in Libia nascono “laiche” e che almeno fino ad ora non mostrano di aver subito significativi condizionamenti di parte islamista, si rileva che neppure una bandiera americana è stata bruciata in piazza, né a Tunisi, né al Cairo, né a Bengasi. Il rilievo dev’essere di notevole valore se un giornale che si sta spendendo molto in questi giorni a rappresentarci come estremamente serio il rischio di una deriva islamista dei moti che agitano il Nord Africa – e parlo de Il Foglio – pubblicava ieri una foto come quella che riporto qua sopra.
Foto scattata a Ramallah, in Cisgiordania, a più di 500 km dal Cairo, a più di 1500 km da Bengasi, a più di 2000 km da Tripoli, a quasi 2500 km da Tunisi. D’altronde, quando si deve dimostrare l’indimostrabile, tutto fa brodo.


Sì alla globalizzazione, ma che sia sul modello bizantino


I rivoltosi sarebbero manovrati da al Qaida, dice Muammar Gheddafi, e rispetto a qualche autorevole commentatore, che in questi giorni ci ha invitato almeno a temerlo, ha il vantaggio di dirlo coi rivoltosi a un tiro di schioppo, in tutti i sensi.
Gheddafi, dunque, accetta il ruolo di musulmano moderato e laico che l’occidente gli ha richiesto per farsi garante di una diga all’islamismo: finirà che dovremo davvero mandare truppe a Tripoli e a Bengasi, ma contro i rivoltosi, non contro Gheddafi. Oplà, Putin ci difende dall’islamismo da est e Gheddafi da sud.


   

giovedì 24 febbraio 2011

Tredici secondi degni di Buñuel




Pochi ma ottimi lettori


“Insomma, il quesito sta nel titolo di questo articolo del Corriere della Sera: il cibo a un malato con un sondino è terapia o solo alimentazione? È evidente che, se lo si considera terapia, si può evocare la questione dell’accanimento terapeutico. [...] Luigi Castaldi aveva risolto la questione con una memorabile proposta sul suo blog Malvino. [...] Castaldi proponeva il seguente esperimento: se il ministro Sacconi e la sottosegretaria Roccella sono in grado di inserire un sondino a un paziente in terapia intensiva e con ciò alimentarlo senza ucciderlo [1], allora è evidente che si tratta di un trattamento ordinario; se invece occorrono un medico e degli infermieri [2], be’, allora non si può sostenere che quello è il bicchiere d’acqua e quello è il pezzo di pane, perché chi lo sostiene mente sapendo di mentire. La proposta Castaldi ci pare ineccepibile”

Massimo Bordin, Stampa e Regime




[1] Domani, in Parlamento, si comincerà a discutere di testamento biologico e pare che il punto sul quale sarà impossibile trovare intesa sia quello relativo all’alimentazione e all’idratazione artificiali: c’è chi le ritiene cure mediche cui «nessuno può essere obbligato» (Costituzione, art. 32), e che in sede di testamento biologico sia legittimo rifiutarle; e c’è chi, invece, non le ritiene affatto cure mediche, pur convenendo che si tratta di mezzi artificiali, e che esse debbano essere obbligatorie per tutti. Si tratta di due posizioni che non ne consentono una terza: l’alimentazione e l’idratazione artificiali sono cure mediche, o non lo sono. Io sono dell’opinione che lo siano, però potrei cambiare idea se una Eugenia Roccella o un Maurizio Sacconi – tanto per citare i primi due che mi saltano in mente – mi dimostrassero di saper infilare un sondino nasogastrico a un soggetto in stato vegetativo permanente, senza infilarglielo in trachea o farglielo uscire da un orecchio: nel caso non vi riuscissero e per farlo fossero costretti a chiedere l’aiuto di personale medico, questo genere di cura si configurerebbe come trattamento sanitario o no?” (Malvino, 26.1.2009).

[2] Per applicare un sondino nasogastrico occorrono un sondino in materiale plastico (meglio se silicone), della pomata lubrificante che abbia tra i componenti dell’anestetico locale, una vaschetta di plastica, una siringa con catetere da 50 ml ed un’altra senza catetere, un bicchiere d’acqua, del cerotto e delle garze, un telino sterile, un fonendoscopio e dei guanti.
Prima di applicarlo bisogna valutare quale delle due narici sia quella che offra maggiore facilità di inserimento, riconoscendo eventuali patologie (ipertrofia dei turbinati, deviazioni del setto, ecc.), e calcolando la porzione del tratto del sondino da inserire per evitare che il capo peschi nell’esofago, se troppo corto, o faccia anse nello stomaco, se troppo lungo. Lubrificato il sondino con la pomata, lo si infila nella narice prescelta spingendolo con delicatezza e ruotandolo sul suo asse maggiore fino ad arrivare al rinofaringe. Qui bisogna far estendere il capo di circa 45° per far scivolare la punta del sondino lungo l’ipofaringe e verso l’esofago, evitando di infilare la laringe e la trachea o di provocare danni all’epiglottide e alle corde vocali, ma soprattutto per evitare che il “cibo” vada a finire nei polmoni provocando da semplici polmoniti e letali asfissie. Per consentire un migliore scivolamento del sondino, si fa bere dell’acqua al paziente (se è in grado di deglutire, sennò si accetta l’eventualità di qualche piccolo sanguinamento da abrasione). Nel corso dell’inserimento si provvede ad aspirare a più riprese il materiale (muco, saliva e sangue, per lo più) che possono venirsi ad accumulare lungo il tragitto del sondino. A complicare l’operazione, di sovente, subentra il riflesso della tosse (rammentiamo che tale riflesso può essere presente anche in soggetti con gravissime ed estese lesioni corticali): in questi casi conviene soprassedere rimandando ad altro tentativo con premedicazione adeguata. Una volta infilato il sondino, si valuta col fonendoscopio la presenza di quei rumori che ne attestino il corretto posizionamento nello stomaco, e se ne fissa col cerotto l’estremo che emerge dalla narice, provvedendo ad una aspirazione dei succhi gastrici di cui l’inserimento del corpo estraneo abbia eventualmente stimolato la produzione. Quindi, si chiude il foro esterno del sondino con un tappetto – a piacere, giallo, rosso o verde – in attesa di applicarvi l’ugello della pompa che somministrerà il “cibo”. Dimenticavo: anche quando correttamente inserito, il sondino nasogastrico ha tendenza ad ostruirsi e deve essere sostituito con una certa frequenza” (Malvino, 13.2.2009).

mercoledì 23 febbraio 2011

Il suffisso -ismo


Il suffisso -ismo per certi versi è inutile: non c’è alcuna sostanziale differenza tra una cosa e la sua contestualizzazione in un sistema, perché nulla è fuor di ogni sistema. Non reputo possibile, dunque, un pensiero de-ideologizzato: potrà non essere riconducibile ad una ideologia nota, ma credo che il pensiero sia per sua natura ideologico e ideologizzante. Arrivo ad essere radicale e dico che pensare è sistematizzare. Vi ho già fatto cenno – e nello specifico rimando a quanto ho addotto in argomento – quando ho detto che tra morale pubblica e moralismo non v’è alcuna sostanziale differenza. Oggi voglio parlarne un poco più estesamente intrattenendomi sul conato di de-ideologizzazione che da destra, come da sinistra, si è cominciato a sentire dal 1989 in poi. E mi limiterò a dire del ripetuto fallimento di questo conato da parte della destra italiana.
Cosa può significare liberare la destra italiana dal giogo ideologico? In pratica, può significare solo de-sistematizzare l’ideologia della destra, anzi, le ideologie della destra: può significare solo ri-contestualizzare i termini sui quali essa regge. Qui non voglio annoiare il mio lettore e rimando alle numerose pagine (qui un sommario) che ho dedicato alla sussistenza di molte destre nella destra, tutte irriducibili ad una, tranne che per una caratteristica comune: la natura trascendente dell’individuo. Chiedo solo: cosa può significare de-ideologizzare la destra se non spostare l’individuo da un sistema all’altro? E in quale? In altri termini: quando i finiani dicono di voler liberare la destra italiana dal giogo ideologico, in quale sistema intendono trasferirla? Ancora, più brutalmente: quale può essere l’esito – auspicabile o no – di un ri-pensamento della destra italiana?
Per me che, prima di approdare al liberalismo, ho speso la gioventù tra Nietzsche ed Evola, tra il “fascismo immenso e rosso” e nevrastenici estetismi paganeggianti, sono domande che valgono di più di una scommessa. Ho abbandonato An nel 1995, a pochi mesi dalla fondazione, perché correvo troppo avanti: il Manifesto di Fiuggi grondava ancora di rebecchinismo e di tatarellismo, di liberale aveva troppo poco. Però capivo Fini, che più di tanto per volta non poteva. Anche per questo non mi sono mai stupito troppo dei suoi strappi, che inevitabilmente laceravano la parte più mobile della base ex-missina da quella più refrattaria ad ogni emancipazione liberaldemocrazia, segnata senza speranza dalla fascinazione dell’autoritarismo. Capivo Fini, costretto a procedere ma lentamente. E però era troppo lento perché potessi stargli dietro.
Più andavo avanti io, più mi sembrava lontano, ma ad ogni suo strappo lo sentivo un po’ più vicino: sempre troppo lontano, in ogni caso, sicché quando nel 2003 scriveva il disegno di legge che sarebbe diventato la famigerata Fini-Giovanardi (decreto legge n. 272 del 30.12.2005, poi legge n. 49 del 21.2.2006), io ero già antiproibizionista da sei anni e, quando dichiarò che avrebbe votato sì a tre dei quattro quesiti referendari sulla legge n. 40 del 19.2.2004, gli rimproverai il no al quarto, strascico ideologico di una destra che riconosceva il vincolo parentale esclusivamente nel sangue.
Furono anni nei quali attorno a Fini si agglutinarono aennini e indipendenti nati dopo la caduta del fascismo, come lui d’altronde, e venuti alla politica dopo la morte di Almirante, foss’anche per mera questione anagrafica. Sangue fresco, potremmo dire, ma in arterie sclerotizzare, basti pensare alla sorte de L’Indipendente di Giordano Bruno Guerri, troppo avanti pure lui. Ora sento dire che Flavia Perina sta per perdere la direzione de Il Secolo d’Italia: si sarebbe spinta troppo avanti. E dire che le poche volte che ho letto il giornale sotto la sua direzione mi è parso organo finiano più dello stesso Fini, dunque destinato ad essere riposizionato alla prima difficoltà che Fini avrebbe incontrato sul suo cammino. E così è stato. A volere il licenziamento di Guerri fu – in pratica – Italo Bocchino, a volere quello della Perina?

[segue]

Ci vuole niente



L’annunciata beatificazione di Karol Wojtyla causa violente coliche biliari a molti ultras del tradizionalismo cattolico e da pontifex.roma.it vengono le urla e i lamenti di don Luigi Villa, “ex agente segreto vaticano – così dice – con nomina di Pio XII e su volontà di San Pio da Pietrelcina”, che in missione speciale contro l’infiltrazione massonica in Vaticano [1] “ha subito 8 attentati alla vita documentati”.
Su Giovanni Paolo II, invece, non ci sarebbero dubbi: “è stato un apostata protestante”, beatificarlo è “un insulto alla cristianità” [2]. Oggi, poi, don Villa produce un argomento al quale attribuisce il valore di pistola fumante: “Come è possibile che un Papa baci il Corano? Solo per questo gesto manifestamente ereticale, nessun tipo di beatificazione può essere possibile”. Ma è evidente che gli varrà a niente: non si fa alcuna fatica a trovare più di trecento deputati disposti a dirsi pubblicamente convinti che Berlusconi non abbia mai pagato una puttana [3], e che ci vuole ad avere la maggioranza alla Congregazione per le Cause dei Santi sul fatto che in quella foto Wojtyla non stesse baciando il Corano, ma solo guardando il prezzo in quarta di copertina?


[1] Forse non lo sapevate ma Giovanni XXIII e Paolo VI erano massoni, don Villa lo ha dimostrato in una mezza dozzina di volumi.
[2] Una nota ufficiale del suo superiore avverte che “gli scritti di don Villa non godono di nessun appoggio o consenso o riconoscimento da parte della diocesi o del presbiterio o del vescovo”, ma che importa? Quando fanno così, sono adorabili.
[3] Eccetera eccetera eccetera.