Da una newsletter di zenit.org recupero il succinto resoconto del dibattito tenutosi alla Pontificia Università Lateranense di Roma, venerdì 18 febbraio, alla presentazione di un volume a cura di Lucetta Scaraffia, che raccoglie scritti nel quarantennale della pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae (A.A.V.V., Custodi e Interpreti della Vita, Libreria Coletti 2010); da lì traggo, e copio-incollo qui, quanto ha rivelato monsignor Enrico Dal Covolo – mi azzardo a immaginare – con vocina soave: “All’epoca, l’enciclica trovò resistenze anche all’interno della Chiesa. Un presidente di una Conferenza episcopale di una importante nazione dell’America Latina aveva manifestato in un telegramma a Paolo VI, a nome dell’episcopato di quella nazione, una vibrata e decisa perplessità sul testo pubblicato. Sua Santità fece chiamare il cardinale a Roma e gli chiese di mettersi in ginocchio e chiedere scusa”.
Non mi intrattengo troppo sulle questioni preliminari. In breve:
(1) “All’epoca”, un cazzo. La Humanae vitae ha sempre trovato resistenze nella Chiesa, non ha mai smesso di trovarle. Basti pensare al cardinale Carlo Maria Martini: “Sono fermamente convinto che la direzione della Chiesa possa mostrare una via migliore di quanto non sia riuscito alla Humanae Vitae. Saper ammettere i propri errori e la limitatezza delle proprie vedute di ieri è segno di grandezza d’animo e di sicurezza. La Chiesa riacquisterà credibilità e competenza” (Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori 2008), che non mi pare di sapore encomiastico.
(2) “Vibrata e decisa”: com’è fatta, una “vibrata e decisa perplessità”? La perplessità non era quella roba tutta incertezza e dubbio? E come mi è diventata roba “vibrata e decisa”? Maledetta ipocrisia dei preti, Sua Eccellenza riuscirebbe a dir “soffice” anche la mannaia di Mastro Titta. (Certe volte la faccia di culo arriva all’arte.)
(3) Il Codice di Diritto Canonico riconosce a tutti battezzati, laici e chierici, “il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa [e] in modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono” (Can. 212, §3). Un cardinale, per giunta presidente di una Conferenza episcopale, non aveva il diritto di manifestare a Paolo VI la sua perplessità? Neanche in modo tanto riservato? (Qui, però, si tenga conto che il Codice vigente non era ancora in vigore nel 1968. E che tuttavia quello del 1917 riconosceva tale diritto in diretta subordinazione gerarchica: e subito sotto al Papa non ci sono i cardinali?)
Ma queste sono cazzate, veniamo al nodo della questione: “Sua Santità fece chiamare il cardinale a Roma e gli chiese di mettersi in ginocchio e chiedere scusa”.
Chiedere scusa per aver manifestato (seppur decisamente, seppur vibratamente) un dubbio su una enciclica che Paolo VI aveva scritto nel modo sconsigliatogli dalla gran parte dei consulenti. E consulenti scelti da lui. E chiedere scusa non bastava, era necessario farlo in ginocchio. E di Paolo VI si è soliti dire che fosse un Papa mite, intimamente problematico fino al perenne indugio. E meno male – dico – sennò a quel cardinale avrebbe strappato le palle a morsi. (E monsignor Dal Covolo sarebbe stato costretto a un altro eufemismo dei suoi: il cardinale andò via da Roma – avrebbe detto – con un peso in meno sulla sua coscienza.)
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