“No, non l’ho sentito. La situazione è in evoluzione
e quindi non mi permetto di disturbare nessuno”
Silvio Berlusconi, 19.2.2011
La domanda di democrazia che sale dalle piazze di Tripoli e Bengasi non ha finora avuto altra risposta che una durissima repressione: Muammar Gheddafi ha dato l’ordine di sparare ad altezza d’uomo e al momento i morti sono almeno 84. Ci si aspetterebbe una pronta, ferma e univoca reazione sul piano diplomatico da parte di quei paesi che, fino a non troppo tempo fa, dichiaravano un tal surplus di democrazia interna da ritenere indispensabile esportarne un tot. E invece non si registrano che timide proteste, e in ordine sparso, nelle quali “preoccupazione” prevale su “condanna”, come se anche per la Libia – così è per l’Egitto – la fine della dittatura sia gravida di incognite peggiori della stessa dittatura, e pare, insomma, che l’unica democrazia possibile nei paesi arabi sia quella di importazione.
Non c’è da stupirsene, perché l’esportazione della democrazia non è mai stata dichiarata operazione solo filantropica: la si esporta innanzitutto per bloccare l’importazione di terroristi protetti o addirittura finanziati da stati canaglia, ed è lì che l’affare promette un ritorno. Anche questo, però, non basta. Gli strumenti necessari all’esportazione della democrazia sono per lo più di natura bellica, e dunque assai costosi, sicché conviene rinunciare quando il costo è troppo alto: dove un dittatore dia adeguate garanzie di non costituire minaccia alla sicurezza dei paesi esportatori di democrazia, si può chiudere un occhio, eventualmente entrambi se può ricavarsene un profitto economico. E così è stato per la dittatura di Ben Alì in Tunisia, ma soprattutto per quella di Hosni Mubarak in Egitto e quella di Muammar Gheddafi in Libia, fino a ieri in ottimi rapporti con le democrazie d’occidente.
Solo avendo un’anima molto bella si può biasimare questo atteggiamento occidentale. Amiamo la democrazia, è fuor di dubbio, e la vorremmo dappertutto, perché con tutti i suoi difetti è il meno peggio che ci sia e perché tra due paesi democratici è assai raro che si arrivi a una guerra. In fondo, siamo pacifici e ricorriamo alla forza solo come ultima risorsa, solo quando ci sembra necessaria, solo quando non ci pare peggio del far niente. Ma poi c’è la ragion di stato – di ciascun stato – e questa ci costringe a fare i conti con le difficoltà sul campo. Rimaniamo democratici ma cerchiamo di intrattenere buoni rapporti diplomatici con i dittatori che ci sembrano più affidabili. Accade che tali rapporti possano addirittura diventare ottimi, con reciproco vantaggio.
È il caso della Libia, che può essere interessante considerare attraverso l’analisi che ne fa un giornale filogovernativo, e parliamo di un governo che ha sempre schierato il paese in prima fila tra gli esportatori di democrazia: “Il regime di Gheddafi ha investito molto [in Italia] […] Messi in fila questi capitali danno la somma di 6,3 miliardi di euro […] Il problema è se i libici vadano considerati degli sleeping partner – dei puri investitori appunto – o invece degli azionisti strategici. E tutto fa propendere per la seconda ipotesi. L’ingresso in Unicredit, in Finmeccanica e soprattutto nell’Eni è solo ufficialmente avvenuto attraverso normali operazioni borsistiche. In realtà è abbastanza noto che siano stati oggetto di negoziati tra governi, in particolare tra Silvio Berlusconi e Gheddafi, con il duplice obiettivo di rafforzare patrimonialmente le nostre principali banche e aziende, e di garantirne gli sbocchi su attuali e futuri mercati. L’Eni è in Libia praticamente da sempre, da quando Enrico Mattei combatteva contro le sette sorelle del petrolio americane, inglesi e francesi. Ma oggi è qualcosa di più, è partner del regime di Tripoli […] Ma certo l’Italia non è sola. La Libia è il primo produttore di petrolio africano, il quarto al mondo dietro Arabia Saudita, Emirati, Iran. Da quando nel 2004 gli Usa hanno abolito le sanzioni e, nel 2006, tolto la Libia dall’elenco degli stati canaglia, tutte le grandi major si sono precipitate a fare affari con il colonnello” (Il Tempo, 19.2.2011).
È il caso della Libia, che può essere interessante considerare attraverso l’analisi che ne fa un giornale filogovernativo, e parliamo di un governo che ha sempre schierato il paese in prima fila tra gli esportatori di democrazia: “Il regime di Gheddafi ha investito molto [in Italia] […] Messi in fila questi capitali danno la somma di 6,3 miliardi di euro […] Il problema è se i libici vadano considerati degli sleeping partner – dei puri investitori appunto – o invece degli azionisti strategici. E tutto fa propendere per la seconda ipotesi. L’ingresso in Unicredit, in Finmeccanica e soprattutto nell’Eni è solo ufficialmente avvenuto attraverso normali operazioni borsistiche. In realtà è abbastanza noto che siano stati oggetto di negoziati tra governi, in particolare tra Silvio Berlusconi e Gheddafi, con il duplice obiettivo di rafforzare patrimonialmente le nostre principali banche e aziende, e di garantirne gli sbocchi su attuali e futuri mercati. L’Eni è in Libia praticamente da sempre, da quando Enrico Mattei combatteva contro le sette sorelle del petrolio americane, inglesi e francesi. Ma oggi è qualcosa di più, è partner del regime di Tripoli […] Ma certo l’Italia non è sola. La Libia è il primo produttore di petrolio africano, il quarto al mondo dietro Arabia Saudita, Emirati, Iran. Da quando nel 2004 gli Usa hanno abolito le sanzioni e, nel 2006, tolto la Libia dall’elenco degli stati canaglia, tutte le grandi major si sono precipitate a fare affari con il colonnello” (Il Tempo, 19.2.2011).
“Certo l’Italia non è sola”, ma il modo in cui l’Italia ha performato la sua ragion di stato ha prodotto vantaggi tanto consistenti al punto di dover temere gli effetti di una caduta della dittatura libica: siamo nell’imbarazzante situazione di essere esportatori di democrazia, per quanto nel ruolo di gregari degli Stati Uniti, ma di augurarci che la dittatura di Gheddafi regga. Ma non possiamo dirlo esplicitamente, perché ci guadagneremmo solo una figura di merda.
Dev’esserci evidentemente un limite tra il credere nella democrazia, da un lato, e il dover temere che essa prenda il posto di una dittatura, dall’altro. Tra il ritenere che in alcuni paesi possa essere esportata, anche ammazzando i civili, e in altri no, e qui andare a partnership strategica con dittatori che ad ammazzare i civili ci pensano da soli. Dev’esserci un limite tra il duro e necessario rassegnarsi alla ragion di stato, da un lato, e il prenderci tanto gusto da smarrire ogni altra ragione, dall’altro. Nel caso dell’Italia questo limite è stato varcato, e neanche tanto inavvertitamente, facendo della politica estera una questione di amicizia personale tra capi di stato.
Abbiamo collezionato nei confronti di Gheddafi tante e tali manifestazioni di amicizia – e non solo, perché in molte occasioni si è arrivati a molto peggio – da non poterle ritirare troppo bruscamente: il danno che ce ne verrebbe non sarebbe solo l’imbarazzo di un veloce riposizionamento strategico, com’è ad esempio per gli Stati Uniti, ma la vergogna di aver tradito un amico. Sarebbe un danno materiale e di immagine, sarebbe dover rimangiarci tutta una filosofia, che peraltro abbiamo spacciato come una delle più genuine espressioni del nostro carattere nazionale. Appena ieri gli abbiamo baciamo la mano, come potremmo mordergliela oggi, anche sapendo che è la stessa che spara sulla propria gente?
Sì, è gente che chiede democrazia, e in apparenza è la stessa democrazia che saremmo stati disposti ad esportare in Libia se solo ci fosse stato possibile, ma anche bombardando Tripoli non è stato possibile, e ci siamo dovuti rassegnare alla ragion di stato. Da italiani non ci è stato difficile: quello era il petrolio più vicino e verso l’antica colonia avevamo un gran senso di colpa che Gheddafi non si è mai fatto scrupolo di tener vivo. Andreotti e Craxi hanno incarnato questa ragion di stato, ma poi abbiamo superato il limite.
Dev’esserci evidentemente un limite tra il credere nella democrazia, da un lato, e il dover temere che essa prenda il posto di una dittatura, dall’altro. Tra il ritenere che in alcuni paesi possa essere esportata, anche ammazzando i civili, e in altri no, e qui andare a partnership strategica con dittatori che ad ammazzare i civili ci pensano da soli. Dev’esserci un limite tra il duro e necessario rassegnarsi alla ragion di stato, da un lato, e il prenderci tanto gusto da smarrire ogni altra ragione, dall’altro. Nel caso dell’Italia questo limite è stato varcato, e neanche tanto inavvertitamente, facendo della politica estera una questione di amicizia personale tra capi di stato.
Abbiamo collezionato nei confronti di Gheddafi tante e tali manifestazioni di amicizia – e non solo, perché in molte occasioni si è arrivati a molto peggio – da non poterle ritirare troppo bruscamente: il danno che ce ne verrebbe non sarebbe solo l’imbarazzo di un veloce riposizionamento strategico, com’è ad esempio per gli Stati Uniti, ma la vergogna di aver tradito un amico. Sarebbe un danno materiale e di immagine, sarebbe dover rimangiarci tutta una filosofia, che peraltro abbiamo spacciato come una delle più genuine espressioni del nostro carattere nazionale. Appena ieri gli abbiamo baciamo la mano, come potremmo mordergliela oggi, anche sapendo che è la stessa che spara sulla propria gente?
Sì, è gente che chiede democrazia, e in apparenza è la stessa democrazia che saremmo stati disposti ad esportare in Libia se solo ci fosse stato possibile, ma anche bombardando Tripoli non è stato possibile, e ci siamo dovuti rassegnare alla ragion di stato. Da italiani non ci è stato difficile: quello era il petrolio più vicino e verso l’antica colonia avevamo un gran senso di colpa che Gheddafi non si è mai fatto scrupolo di tener vivo. Andreotti e Craxi hanno incarnato questa ragion di stato, ma poi abbiamo superato il limite.
A Il Tempo però sparano numeri a caso. La Libia non è il quarto produttore mondiale di petrolio (nel 2009 era il 17esimo) e non è neppure il primo produttore africano (sempre nel 2009 era il quarto dietro ad Nigeria, Algeria e Angola). http://www.eia.gov/countries/index.cfm?
RispondiEliminaview=production#countrylist
Che trascuratezza o che disonestà.
Vuoi dire che siamo così cretini da non saper curare bene neanche la ragion di stato?
RispondiEliminaNo, la Libia per l'Italia è in effetti molto importante. Se si vanno a vedere gli esportatori di petrolio, la Libia sale al 15° posto e quasi il 40% di quello che esporta va in Italia. Circa il 30% (2009) del petrolio importato in Italia viene dalla Libia, contro 15% Russia, 15% Azerbaigian, 10% Iraq, 7% Iran, 6% Arabia Saudita. Se si esclude il caso dell'Iraq (qualcosa in cambio dell'impegno militare l'hanno ottenuto), la maggior parte del petrolio del Golfo Persico ha altri canali privilegiati (Giappone, USA, Cina, India, Sud Corea). Quindi ci teniamo il dittatorello sanguinario.
RispondiEliminaSolo che dall'articolo sembra che si voglia esagerare l'importanza della Libia nel commercio mondiale del petrolio per giustificare l'atteggiamento scandalosamente prono di Berlusconi. Come a dire: "lo volevano in tanti, ma lo teniamo stretto noi", quando invece i pezzi grossi stanno altrove.
I dati del post precedente sono presi da ISTAT e factbook CIA
RispondiEliminaPerò basta con questa favoletta dell'esportazione della democrazia che ci raccontiamo per dormire più sereni! Non solo non abbiamo mai avuto intenzione, noi euroamericani, di esportarla, ma laddove c'era(Cile 1974, Iran 1953, ecc.) l'abbiamo sostituita con un dittatore. Tutt'al più tolleriamo quei paesi in cui la democrazia è fatta di una classe politica corrotta che fa gli interessi nostri invece che dei loro popoli.
RispondiEliminaLa democrazia è conquista popolare, non merce che si fabbrica. Noi interveniamo solo contro quei dittatori che ci si rivoltano contro, Hitler che invece di attaccare solo l'URSS pensa bene di dare una botta anche a ovest, Mussolini che, come aveva scoperto Matteotti e perciò venne ucciso, finanziato dagli inglesi prima rompe le scatole in Africa e poi attacca la Francia alle spalle, Saddam Hussein che, invece di continuare tranquillamente a massacrare il suo popolo e quello iraniano, vuol prendersi il petrolio americano in Kuwait. Siamo adulti, smettiamola di raccontarci le favole, per favore.
Ma che bella coppia...Il nano baciamano e il beduino ricattatore!
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