venerdì 29 aprile 2011
giovedì 28 aprile 2011
Peggio che a marzo
“April is the cruellest month…”
Thomas S. Eliot, The Waste Land
Un crollo dello share che solo in una occasione è stato inferiore al 5% (14.4.2011), ma che è arrivato anche a superare il 9% (27.4.2011): da un minimo di 625.000 a un massimo di 1.648.000 telespettatori in fuga ogni volta che la sigla di testa annuncia i suoi “messaggi speciali”. Sono le cifre del flop di Qui Radio Londra, che potrà pure sembrare meno drammatico di quanto è in realtà, ma solo in virtù dei grossi numeri del Tg1 e dei programmi che vanno in onda su Raiuno in prima serata. Non fosse che da anni l’azienda lavora contro i propri interessi, il programma andrebbe sospeso.
Bù
Che Karima El Mahroug abbia fretta di sposarsi con Luca Risso al solo fine di presentarsi dinanzi ai giudici di Milano ammantata di una rispettabilità che comunque non avrebbe effetto retroattivo nello smentire le numerose testimonianze circa un suo passato di prostituta – è quanto ha affermato un autorevole opinion leader – a me pare illazione orba e zoppa.
La ragazza è intelligente e conosce l’Italia meglio di un sociologo laureatosi alla Normale di Pisa: sa bene che le servirebbe a poco, a niente. Penso si faccia l’errore di proiettarle addosso un’immagine di squinzia coatta che puzza di pregiudizio, anche un po’ cretino. Tanto più cretino se lo si vuol fondare sulla convinzione che per una mai stata alla Bocconi il manto di rispettabilità di un matrimonio religioso abbia stoffa più pregiata di un matrimonio civile. Sì, perché pur non essendo (ancora) cattolica, Ruby Rubacuori vuole sposarsi in chiesa. E questo non farebbe ostacolo, perché i matrimoni misti (un coniuge cattolico e l’altro di altra confessione) possono essere celebrati in chiesa (ovviamente senza somministrare l’eucaristia al coniuge non cattolico): il freno posto dalla Diocesi di Genova alla fretta dei due promessi sposi è di altro genere, e attiene al contenuto delle linee guida del Direttorio Pastorale Familiare circa i corsi di preparazione prematrimoniale, vivamente raccomandati a chi si voglia accostare al sacramento.
Però è proprio qui che, a mio umile parere, sorgono i problemi, giacché al n. 63 si legge: “La partecipazione ai corsi o itinerari di preparazione al matrimonio deve essere considerata come moralmente obbligatoria, senza, per altro, che la sua eventuale omissione costituisca un impedimento per la celebrazione delle nozze”. E ancora: “Solo in casi estremi si dovrà proporre il rinvio della celebrazione del matrimonio”.
Eminenza, come la mettiamo? Lei può insistere, dire che quei corsi sono “moralmente obbligatori”, ma non può porli come condizione necessaria alle nozze. E può rinviarle un pochino, ma non troppo: se non riesce in due o tre settimane a rubricare questo caso fra i “casi estremi”, dovrà unire i due in matrimonio (pardon, ritirare il divieto posto ai parroci della sua Diocesi), voglia o non voglia.
Perché il Direttorio Pastorale Familiare non dà per indispensabili quei corsi prematrimoniali, ma il Codice di Diritto Canonico punisce severamente l’offesa al sacramento nella fattispecie dell’ostruzione.
Bù!
Bù!
Accetti?
“Penso che se uno si rifiuta di assolvere un compito affidatogli dalla chiesa (cattolica), vuol dire che non ha fede in essa, nell’istituzione in sé. Nel film [Habemus Papam], al Papa in fuga viene chiesto se abbia perduto la fede, e lui risponde «no, assolutamente no». È una risposta funzionale al film e alle sue sottili polemiche, ma è assolutamente fuori luogo. Chi crede nella chiesa, sa che essa è fondata sul carisma, un carisma che le viene, secondo tradizione, direttamente da Cristo. E se Cristo l’ha affidata a un semplice pescatore, Pietro, come potrà abbandonare a se stesso, alle sue comprensibili angosce e ai suoi pur leciti dubbi, un suo eletto, l’eletto dai cardinali con l’assistenza dello Spirito Santo? «Domine, non sum dignus ut entres in domum meam…», ma il Signore entra. C’è, nella situazione raccontata da Moretti, qualcosa di incongruente” (Il Foglio, 28.4.2011).
Qualcosa di incongruente, allora, dev’esserci pure nella rituale domanda che il Cardinal Decano è tenuto a fare al neo eletto: “Accetti la tua elezione canonica a Sommo Pontefice?” (Romano pontifici eligendo, 87). Se la risposta non può essere che affermativa, è domanda superflua? Se la risposta è no, il neo eletto viene scomunicato per patente mancanza di fede?
Del “corpo glorioso” col quale si fa ritorno da un “viaggio dell’anima”
Sandro Magister ci invita a porre attenzione alle risposte che Benedetto XVI ha dato alle domande rivoltegli nel corso della puntata di A sua immagine andata in onda su Raiuno il 22 aprile, soprattutto quelle date alla quinta e alla sesta, che riguardano due punti salienti nella dottrina: la discesa di Cristo agli inferi dopo la sua morte e prima della sua resurrezione; la natura “gloriosa” del suo corpo dopo la resurrezione.
Accettiamo l’invito.
Sulla prima delle due questioni, Benedetto XVI dice: “Questa discesa dell’anima di Gesù non si deve immaginare come un viaggio geografico, locale, da un continente all’altro. È un viaggio dell’anima”.
Ora, col massimo rispetto per un soggetto anziano con due episodi di ischemia cerebrale in anamnesi remora, rileviamo che il Catechismo della Chiesa Cattolica dà agli inferi i connotati fisici di “dimora” (632) nella quale Cristo è “disceso” (633-635), che esprime moto a luogo. È quanto ricaviamo da At 3, 15 e senza dubbio può essere letta come allegoria, ma senza dimenticare che poco prima (At 2, 24) la meta di questo “viaggio” è indicata col termine Shéol, che nella tradizione ebraica indica senza dubbio un luogo (per quanto ultraterreno, anzi infraterreno), non uno “stato” dell’anima.
Sul secondo punto, quello relativo alla domanda n. 6, Sua Santità rammenta che “la materia [il corpo umano] ha anche la promessa dell’eternità”, non solo l’anima. È la nota promessa della resurrezione della carne, che però ci viene assicurato risorgerà incorruttibile: sotto forma di “corpo glorioso”, appunto.
Ora, la domanda è posta in questi termini: “Quando le donne giungono al sepolcro, la domenica dopo la morte di Gesù, non riconoscono il Maestro, lo confondono con un altro. Succede anche agli apostoli: Gesù deve mostrare le ferite, spezzare il pane per essere riconosciuto, appunto, dai gesti. È un corpo vero, di carne, ma anche un corpo glorioso. Il fatto che il suo corpo risorto non abbia le stesse fattezze di quello di prima, che cosa vuol dire?”. La risposta è che “non possiamo definire il corpo glorioso, perché sta oltre le nostre esperienze”, per subito aggiungere che “nell’eucaristia il Signore ci dona il suo corpo glorioso”. E dunque questo corpo non sta “oltre le nostre esperienze”, perché il Catechismo della Chiesa Cattolica recita che “il sacrificio di Cristo e il sacrificio dell’eucaristia sono un unico sacrificio” (1367).
Nell’esperienza dell’eucaristia, insomma, facciamo esperienza piena del “corpo glorioso”, sennò verrebbe meno il presupposto in virtù del quale possiamo (dovremmo) ritenere che “coloro che partecipano all’eucaristia siano un solo corpo e un solo spirito” (1353).
mercoledì 27 aprile 2011
Come una tunica giocata a dadi sotto una croce
Del salasso fatto a Wojtyla poche ore prima che morisse, perché il sangue fosse conservato in un’ampolla a futura reliquia, ho già parlato in gennaio (qui), sollevando alcune questioni:
(1) di ordine clinico (dove si è visto mai che si salassi un poveraccio che versi in quelle condizioni? e quale medico può aver agito – scientemente, c’è da presumere – contro ogni buonsenso, prim’ancora che contro l’interesse del paziente?);
(2) di ordine teologico (destinare all’adorazione dei fedeli la reliquia di un santo che ancora non è stato proclamato tale – e siamo prossimi all’idolatria – è moralmente legittimo? da quale tradizione pesca, a quale simbolo si ispira, che cazzo mi significa, questa procedura?);
(3) di ordine legale (certamente il salasso fu idea del segretario personale di Wojtyla, Dziwisz, ma non sappiamo se col consenso informato del paziente; certamente in territorio italiano, al Policlinico Gemelli; e abbiamo detto che sul piano clinico – col paziente consenziente o meno – è come dare una spintarella a chi sta sull’orlo di uno sprofondo: se non v’è stata colpa, se non v’è stato dolo, com’è potuto capitare che non si sia potuto mettere in primo piano – proprio col papa, proprio col vicario di Cristo – l’interesse del paziente, e la dignità della sua persona?).
Lasciavo decantare la faccenda, fino a ritrovarmela dinanzi, oggi.
Era su L’Osservatore Romano, piccina picciò, a pag. 6, infrattata tra una foto e un calendario liturgico. Ben altro rilievo si dà all’ostensione di reliquie di santi semisconosciuti, qui invece la notizia è quasi sussurrata. Non c’è paesino che non abbia una chiesetta nella quale stia gelosamente custodita una Rotula di Santa Putipilla o una Uallera di Santo Scorfano, che quando va in processione muove soldi dalle casse del Comune o della Regione, pigliandosi il suo bravo paginone su Avvenire. Qui, al contrario, si dà notizia dell’ostensione di un tessuto nobile come il sangue, pure bello fresco, e sangue di un santo con i controcoglioni, addirittura un Magno – e si spiccia la cosa in un quarto di colonnino?
Viene il sospetto che la reliquia poco stagionata meriti una adeguata affumicatura prima di essere esposta all’adorazione di più comuni salami. E che del santo non si butti mai niente. Anzi, che il trattamento del santo vada ottimizzato. Quattro ampolle, mica una. Però equamente distribuite, come una tunica giocata a dadi sotto una croce.
Prosaicamente: al moribondo era stato prelevato del sangue mica per spacchettarselo da vivo, ma per metterne da parte, “in vista di un’eventuale trasfusione”. Ma si può essere così stronzi?
martedì 26 aprile 2011
Bollori
Capita spesso che al neofita faccia difetto il senso della misura e che il suo zelo, tanto più ardente quanto più la nuova fede ha in lui l’urgenza di non lasciare alcuna traccia della vecchia, sia motivo di imbarazzo per la comunità della quale entra a far parte, in primo luogo di chi la guida, costretto non di rado a mettere subito da parte il vanto di esibire il neoconvertito e porre un freno ai suoi pericolosi entusiasmi. Con Magdi Allam è capitato.
Fresco di battesimo, cominciò subito ad ardere di un cattolicesimo assai imbarazzante per la Santa Sede, che fu costretta a dissociarsi in fretta dalle sue smanie da lepantista: “Il cattolicesimo non nutre alcuna intenzione ostile nei confronti di una grande religione come quella islamica” (L’Osservatore Romano, 26.3.2008); “Accogliere un nuovo credente non è sposarne tutte le posizioni” (Corriere della Sera, 28.3.2008); “Sull’islam idee sue, non del Papa” (il Giornale, 28.3.2008).
Questo non è bastato a temperare i suoi bollori. Non gli è bastato farsi battezzare dal Papa e in mondovisione per sentirsi a pieno titolo cattolico e romano, non gli è bastato appiccicarsi il sovrannome di Cristiano per dimenticare d’essere nato musulmano, non gli è bastato assumere postura da leghista della Val Brembana per dimenticare d’essere un immigrato egiziano naturalizzato italiano: rieccolo a smaniare d’un “dover rompere l’assedio islamico” (il Giornale, 26.4.2011), che anche uno studente al primo anno di Psicologia non avrebbe difficoltà a riconoscere come assedio tutto interno.
È accaduto che a Milano, dove i musulmani sono più di 100.000 e hanno luoghi di culto per una capienza complessiva non superiore ai 3.000 posti, perché le autorità locali negano la costruzione di nuove moschee, un muezzin abbia invitato alla preghiera di strada. Magdi Cristiano Allam ha vissuto l’accaduto con l’angoscia di un viennese sotto l’assedio turco nel 1529. “È il momento di dire basta – scrive – e di chiedere quantomeno che i musulmani si attengano alle nostre leggi così come fanno gli ebrei, i cristiani o i buddhisti”.
Siamo dinanzi a un evidente infortunio: anche se in Italia non mancano chiese, spesso pure mezze vuote, non vediamo tutti i giorni delle processioni pubbliche con a capo un prete che canta Noi vogliam Dio ch’è nostro Re? Non vediamo buddhisti per strada cantare Hare Krishna, Krishna Krishna, Hare Hare? A chi non è capitato di vedere una banda dell’Esercito della Salvezza suonare Regna, regna il Signor all’angolo di una piazza?
Magdi Cristiano Allam scrive che è venuto il momento di “esigere che le moschee operino con le stesse norme a cui sono sottoposte le sinagoghe, le chiese o qualsiasi tempio di culto eretto sul suolo italiano… Significa che le moschee devono essere delle case di vetro dove, al pari delle sinagoghe e delle chiese, si parla in italiano e si diffondono valori che ispirano alla vita, all’amore e alla pace, e dove chiunque possa entrare, sedersi, ascoltare e condividere una spiritualità comune al di là della fede diversa”.
Dovremo mettere al bando la messa in latino e i salmi che il rabbino recita in lingua ebraica? Lo Stato dovrebbe sorvegliare sui contenuti che i capi delle confessioni religiose presenti in Italia diffondono ai rispettivi greggi? Visto che dal 1984, con un Concordato sottoscritto anche dalla Santa Sede, in Italia non esiste più una “religione di Stato” e tutte le confessioni religiose hanno almeno sulla carta pari diritti dinanzi alla legge, sulla base di quali criteri dovrebbe essere effettuata questa sorveglianza? Dobbiamo sottoporre i contenuti di ogni credo religioso al controllo attivo, eventualmente censorio, dello Stato? Personalmente sarei d’accordo, ma la Chiesa cattolica accetterebbe?
Lo zelo di Magdi Cristiano Allam riesce a trovare una via di fuga: “L’articolo 8 della Costituzione [recita] che «le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti», ma a condizione che «non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano »… Rileviamo che l’islam come religione, non avendo finora stipulato un’intesa con lo Stato per il profondo contrasto che persiste tra le associazioni islamiche, opera in un contesto di arbitrio giuridico non essendo stati definiti i rapporti con lo Stato”. L’assedio è rotto col vecchio caro cuius regio eius religio, principio che degrada la conversione di Allam alla presunzione di aver acquisito una cittadinanza di serie A.
“Un certo nostro modo di essere che si esemplifica nella Pasquetta”
Paesi nei quali si festeggia la Pasquetta [http://it.wikipedia.org/wiki/Luned%C3%AC_dell'Angelo#Nel_mondo] |
Se non dice puttanate, sta male. Deve dirne almeno una al giorno, sennò va in crisi di identità. Ieri sera, per esempio: “La Pasquetta è una cosa molto nostra” (Qui Radio Londra - Raiuno, 25.4.2011).
Ieri sera, però, si poteva chiudere un occhio: ammetteva che “i giornalisti italiani lavorano forse troppo e non sempre troppo bene”.
“Deboli, viziosi, inetti e ribelli”
Dalle prime esperienze, che sono necessariamente di tipo parentale, discende l’atteggiamento che successivamente avremo verso l’altro. Potremo con la ragione temperare questo imprinting, perfino arrivando a invertirne il segno, e così potremo passare dall’inclinare a credere che l’altro sia fondamentalmente buono al pensare che sia intrinsecamente cattivo, o viceversa, ma di solito la ragione servirà solo a trovare argomenti a supporto dell’imprinting. Arriveremo così ad avere argomenti in favore della tesi che l’uomo nasca buono o di quella opposta (nasca cattivo), e in realtà, ridotta all’osso, ogni discussione sull’uomo, e sugli uomini, non sarà altro che saggiare questi argomenti sul prototipo degli esiti delle prime esperienze.
Suppongo non sia difficile immaginare perché, dacché mondo è mondo, prevalga la tesi che gli uomini siano “deboli, viziosi, inetti e ribelli” (giudizio che Ivan Karamazov fa esprimere al Grande Inquisitore), insomma cattivi e pericolosi: una società costruita su questo giudizio dovrà rinunciare alla libertà in cambio della sicurezza, e in cambio di pane e speranza affiderà la propria paura ad un’autorità, e giacché ogni autorità tende a perpetuarsi, lo farà riproducendosi nella relazione parentale, che a sua volta si farà modello di relazione sociale. Il bambino deve essere preparato a diventare un uomo che sia incline ad una conveniente diffidenza verso il suo simile: non potendosi mai del tutto fidare di un patto tra simili, deve sentire il bisogno di un potere che lo domini “fino ad aver paura di esser libero” (ibidem).
Mentre scrivo siamo a meno di due o tre secoli dall’aver intuito che della ragione può esser fatto miglior uso: per esempio, rimettere in discussione il senso di “buono” e di “cattivo”; per esempio, smettere di pensare alla libertà come a un assoluto e imparare a coniugarla con la responsabilità; per esempio, rinunciare a credere che una società non regga senza essere impalata su un principio trascendente. Tre esempi che ci fanno capire che non avremo un altro bambino, fino a quando non avremo un’altra famiglia, fino a quando non avremo un’altra società: non resta che immaginare possibile un progresso umano sulla capacità che la ragione avrà di decostruire l’imprinting.
Con una ellissi: quanto più capiremo la società che ha prodotto i genitori di Dostoevskij, tanto più potremo fare a meno del Grande Inquisitore.
lunedì 25 aprile 2011
asca.it, 21.4.2011
Daniele Capezzone si precipitava a dichiarare: “Esprimo vicinanza e solidarietà a Paola Concia e alla sua compagna per il grave e spiacevole episodio di cui sono state vittime” (asca.it, 21.4.2011). Non si esprimeva a titolo personale, ma in qualità di “portavoce del Pdl”. In tale veste affermava: “Ogni persona, qualunque sia il suo orientamento, la sua scelta, la sua preferenza sessuale e di relazione, ha diritto a vivere nella libertà e nel rispetto di tutti gli altri”. Il portavoce del partito che finora si è sempre opposto ad ogni proposta di legge che sanzioni l’omofobia affermava che “sta alla politica, a tutta la politica senza distinzioni di schieramento, lavorare perché lo spazio della discriminazione sia sempre più ridotto, e possibilmente annullato al più presto”.
Sarà possibile ridurre questo spazio della discriminazione affermando che è meglio andare a puttane piuttosto che essere gay? Sarà possibile ridurlo, come fa Carlo Giovanardi, chiamando la Corte Costituzionale a censurare una réclame di Ikea? O si potrà ridurlo, contando sull’autorità del proprio ruolo politico e istituzionale, dichiarandosi “lesbico al 25%”?
Art. 289 c.p.
“Cosa aspettiamo a tirare fuori l’articolo 289 del codice penale, «attentato a organi costituzionali», che punisce con dieci anni di galera chi cospira contro lo Stato?”
il Giornale, 24.4.2011
In galera, secondo Giuliano Ferrara, dovrebbe finirci Antonio Ingroia. Urge fargli presente che il suddetto articolo vorrebbe ci finisse “chiunque commette un fatto diretto ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente, (1) al Presidente della Repubblica o al Governo l’esercizio delle attribuzioni o prerogative conferite dalla legge; (2) alle assemblee legislative o ad una di queste, o alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali l’esercizio delle loro funzioni”.
Ma questo non è l’identikit di chi gli mette la pappa nella ciotola? Quante volte Silvio Berlusconi ha paralizzato il Parlamento e il Consiglio dei Ministri, quante volte ha minacciato la Suprema Corte e il Capo dello Stato, quanto volte ha interferito pesantemente a discapito delle legittime prerogative di molte assemblee regionali?
Ritira l’idea dell’articolo 289, smetti di abbaiare, sennò ti mettono dentro il padrone e fai la fame.
domenica 24 aprile 2011
L’ultima su Fermat
“Una ricerca di Socialseeker che ha coinvolto 270 ricercatori volontari ha stilato la prima classifica dei 35 top opinion leader italiani che usano efficacemente i social network e in particolare Facebook sapendosi trasformare così in social influencers…” (primaonline.it, 21.4.2011), e in vetta trovo Nichi Vendola, Luca Sofri e Mario Adinolfi. Dispongo di una meravigliosa dimostrazione del perché, ma non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina.
Chissà come si dice in giapponese
“Anche a me vengono le stesse domande… E non abbiamo le risposte… E rimane la tristezza… E un giorno capiremo…”. E questo sarebbe un finissimo teologo? Ma fatemi il piacere.
Meglio, meglio, mille volte meglio il professor Roberto De Mattei, che dinanzi alla stessa domanda ha – tutto sommato – dimostrato di sapersela cavicchiare decentemente con la dottrina. Perché – carte alla mano – la risposta cattolica alla domanda posta dalla piccola Elena è proprio quella: il peccato originale ci fa tutti colpevoli, in partenza, senza differenza; e scontiamo con la morte la colpa di esser carne; e le catastrofi naturali hanno un loro ben preciso ruolo nell’economia della salvezza dell’anima; e sono mezzo di espiazione; sicché la morte di un bambino innocente sta nel progetto di un Sommo Bene che include pure lui.
E il vecchio Ratzinger? Poteva almeno pigliare da I fratelli Karamazov quella storiella del bambino che tira pietre ai cani – e i cani lo sbranano, e la madre si dispera: un giorno, spiega Alëša, madre e figlio saranno in Dio e lì comprenderanno che quanto è accaduto era cosa buona e giusta – poteva almeno rifugiarsi nella letteratura, il vecchio Ratzinger. Niente. Farfuglia quattro puttanate consolatorie, come un pretonzolo di quelli dolciastri.
Immagino l’obiezione, direte che era la risposta a una bambina? Ma è una bambina in età da Catechismo: su un punto così importante, la più alta cattedra se la sbriga con un “non abbiamo risposte”? Ma va’ a cagare, allora. (Chissà come si dice in giapponese.)
venerdì 22 aprile 2011
Girard for dummies
Jack Godell (Jack Lemmon):
“Che ti fa pensare che cerchino un capro espiatorio?”.
Ted Spindler (Wilford Brimley):
“Tradizione”.
The China Syndrome
(James Bridges, 1979)
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