mercoledì 10 agosto 2011

Chessò, una proctite acuta

Benedetto XVI non viaggia a spese sue – abitudine da parassita, ma ormai tanto inveterata da sembrare un onore concesso al parassitato – e il viaggio che tra qualche giorno lo porterà in Spagna costerà 60 milioni di euro: a un paese che di certo non naviga in buone acque. Dopo aver faticosamente spiegato agli spagnoli che dalla crisi economica non si esce senza i consistenti tagli al welfare decisi dal governo su pressione dei partner europei, non sarà facile trovare una spiegazione decente a questo indecente sperpero di denaro pubblico. Quelle spagnole sono state le proteste più pacifiche finora viste in Europa a fronte di analoghi provvedimenti di “macelleria sociale”, e a tutt’oggi sembrano in gran parte sopite, per stanchezza o rassegnazione: il viaggio di Benedetto XVI potrebbe risvegliarle e stavolta renderle assai più agguerrite, condannabili, se vogliamo, ma comprensibili, perché dopo l’indignazione viene quasi sempre la rabbia.
Ecco, io mi permetterei di suggerire a Sua Santità di dare una prova di somma saggezza: trovi una scusa – chessò, una proctite acuta – e annulli il viaggio. Potrà comunque assicurare la sua presenza alla Giornata Mondiale della Gioventù, ma in videocollegamento: la vocina da proctite acuta ce l’ha già di suo, di bugie non sarebbe la prima e certo non arrossirebbe. Insomma, potrebbe funzionare, e comunque non sarebbe meno credibile del solito. Eviterebbe di prestarsi a pietra di un enorme scandalo e potrebbe addirittura conquistarsi la simpatia di qualche indignato.

martedì 9 agosto 2011

“Una multinazionale sicuramente onesta”.


“All’ammalato sembra amaro ciò che mangia, mentre per chi è sano
è ed appare il contrario. Non bisogna considerare nessuno dei due
più sapiente dell’altro, né si deve affermare che l’ammalato è ignorante
perché ha tale opinione, o che il sano è sapiente perché ne ha una diversa…
Ciò che il medico fa con i farmaci, il sofista fa con i discorsi”

Teeteto, 166E-167A  

Protagora, il sofista, avrebbe trovato assai ficcanti le meditazioni di Ivo Silvestro sull’omeopatia. Almeno a quanto Platone ci illustra nel Teeteto, infatti, sull’omeopatia Protagora sarebbe stato altrettanto indulgente. Prendendo le difese di un Boiron – i sofisti erano filosofi, ma anche un po’ avvocati, quasi sempre difensori di imbroglioni – Protagora avrebbe cominciato col minare il pilastro dell’accusa: “L’omeopatia è un imbroglio?”, avrebbe chiesto, e infatti così chiede Ivo Silvestro, aprendo il post.
Certo, l’omeopatia è un imbroglio – imbroglio è la teoria che tenta di conferirle dignità di terapia, imbroglio è la pratica che della terapia non ha niente – ma un bravo avvocato, filosofo per giunta, sofista nella fattispecie, non potrà e non dovrà capitolare dinanzi all’evidenza: cos’è, in fondo, un imbroglio? Meglio: siamo poi sicuri che – in fondo, in fondo, in fondo – il paziente non voglia proprio essere imbrogliato affidandosi all’omeopatia? Ma un imbroglio voluto da chi poi si fa effettivamente imbrogliare, che imbroglio è?
La regola che Protagora – pardon, Ivo Silvestro – ritiene sia alla base del rapporto omeopata-paziente starebbe proprio in questo voler essere imbrogliato del paziente e in questo imbrogliare dell’omeopata: né il primo deve sospettare sia un imbroglio, né il secondo deve rivelarlo tale, sennò la terapia non funziona. Si tratta di un genere di medicina che è tanto più efficace quanto più somiglia alla truffa che il truffato non riesce a riconoscer tale.
Per dire: pretendere che un flacone di pilloline omeopatiche rechi la scritta “truffa” sarebbe come pretendere la scritta “placebo” su una confezione di placebo. E il costo? Com’è che un preparato omeopatico costa in media 50 volte più di un placebo? Domanda alla quale un sofista vi risponde con un sorriso carico di pena: più è truffa, più funziona, e in fondo non c’è un sacco di gente disposta a credere e a spendere? Vorrete mica spezzare il mirabile equilibrio sul quale è costruito l’impero di Boiron, il benessere di chi sta da Dio a mandar giù costose pillole di niente, e il bell’argomentare del sofista? Sì? E in nome di cosa? Della trasparenza del prodotto alla quale sottoponete un qualsiasi altro farmaco? Ma leggete il Teeteto, stupidini, e senza dubbio capirete, e cambierete idea: ciò che Boiron fa con i suoi preparati omeopatici, Protagora fa coi suoi discorsi, e Ivo Silvestro col suo post. La smetterete di rompere il cazzo a “una multinazionale sicuramente onesta”.

Le tasse sono impopolari




Siamo con l’acqua alla gola, saprete, e c’è bisogno di misure straordinarie: nuove tasse o altri tagli? Il giornale di Giuliano Ferrara non ha dubbi: Elettoralmente, così come economicamente, le tasse sono impopolari: i tagli, invece, sono bellissimi”. Cominciamo da quei 3.745.345,44 euro di finanziamento pubblico che Il Foglio si pappa ogni anno? No? E allora ficcarsi la proboscide in culo e star zitto?



domenica 7 agosto 2011

“Siamo alla vigilia di una grande svolta”



“Io non credo alla depressione di Vasco... Quello cui stiamo assistendo
è il brontolio di un vulcano che sta per eruttare... Certo è che il ruolo
di rockstar ora gli va stretto... Siamo alla vigilia di una grande svolta,
impensabile per chiunque... Io credo di sapere cosa ha in mente, ma taccio”

Gaetano Curreri, Corriere della Sera, 7.8.2011


Lo sfogo che Vasco Rossi ha affidato ieri sera alla sua pagina di Facebook ha gettato i suoi fan nell’angoscia. Reazioni esagerate, almeno a detta di chi lo conosce bene. In realtà, lo stato di prostrazione lamentato dal Genio di Zocca non sarebbe altro che il sofferto processo che precede una “grande svolta”. Quale? Non ci è dato indizio, tranne il fatto che si tratterebbe di qualcosa oggi “impensabile”. Sembra niente, ma è abbastanza per fare alcune ipotesi.

Conversione Quello che a molti parve un manifesto nichilista (“voglio trovare un senso a questa vita / anche se questa vita un senso non ce l’ha”) era in realtà una drammatica richiesta di aiuto, che non rimase inascoltata. Dal 2005 – già dal 2004, secondo alcuni – il cantante intratterrebbe un fittissimo carteggio con monsignor Rino Fisichella, e gli psicofarmaci avrebbero facilitato il suo riaccostarsi alla fede. La sua vita artistica non potrà che risentirne positivamente e pare che nel cassetto abbia già una dozzina di inediti, distanti anni-luce dalle atmosfere grevi che caratterizzano la sua produzione antecedente, che peraltro il Blasco avrebbe intenzione di rieditare cambiando i testi, raccogliendola in un megacofanetto di 16 cd dal titolo C’è chi dice sì. L’annuncio ufficiale della conversione dovrebbe essere dato con la sua partecipazione a sorpresa alla prossima Giornata Mondiale della Gioventù. Si mormora che canterà la sua nuova versione di Siamo solo noi (“… che andiamo a letto dopo il rosario / e siamo consci del peccato originario / siamo solo noi / che abbiamo vita regolare / e ci sappiamo limitare /siamo solo noi…”).

Discesa in campo Negli ultimi tour, davanti alle folle sterminate dei suoi fedelissimi, Vasco Rossi ha sentito che il ruolo di rockstar gli stava stretto e ha cominciato a meditare sull’eventualità di darsi alla politica. Col Partito Radicale al quale è scritto da anni e anni? Con l’intenzione di candidarsi a leader del centrosinistra? Non sarebbe del tutto “impensabile”. La “grande svolta” potrebbe consistere in una discesa in campo a sorpresa, con l’idea, neanche tanto balzana, di sfidare i politici del centrodestra sul loro terreno: ragazze, cocaina e farfugliamenti sconnessi. Pare che la voce stia seminando il panico nel Pdl, ma non mancano i favorevoli, anche autorevoli, e perfino qualche entusiasta, fra i quali Giuliano Ferrara, che stava annoiandosi a morte dietro un Cav. sempre più moscio, e in Vasco Rossi vede una straordinaria “icona pop”.

Transgender Il malessere del Blasco sarebbe dovuto esclusivamente al disagio di impersonare un ruolo che ormai gli pesa. Nei panni del maschio perennemente a caccia di sbarbine non si sente più a suo agio e da tempo sta meditando la “grande svolta” che ai più oggi pare “impensabile”. Costole fratturate? Macché, si è fatto impiantare delle protesi mammarie. Psicofarmaci? Si fa per dire, in realtà si tratta di estrogeni. Non sappiamo ancora quanto ci vorrà per il definitivo taglio con un passato di macho fascinosamente cipiglioso, al momento è uno stillicidio d’ansia che a goccia a goccia cade in quella che prima o poi sarà una piena Vasca.


sabato 6 agosto 2011

Parliamo di islamofobia

Giovanni Fontana scrive che islamofobia è una parola fasulla perché cerca di accostare al razzismo il rifiuto di una religione” (Distanti saluti, 6.8.2011). Non sono d’accordo e penso che nell’esprimere tale opinione egli commetta un grave errore. Il suffisso -fobia, infatti, non esprime necessariamente un sentimento razzista, ma piuttosto – sia nel linguaggi clinico che in quello comune – quel combinato di paura, avversione e ripugnanza, quasi sempre istintive, immotivate e dunque patologiche, che il -fobico non indirizza necessariamente su un individuo di razza diversa dalla sua (perfino nella xenofobia la differenza di razza può non essere affatto l’elemento che scatena e sostiene la fobia), né necessariamente su un individuo, ma anche – e, anzi, più spesso – su animali, oggetti o situazioni.
D’altra parte, ho come l’impressione che questo errore sia voluto, quasi cercato da Giovanni Fontana, e sostenuto da una vera e propria fobia del termine islamofobia e/o di chi lo usa. Sarà il caso di fare chiarezza, dunque, e a tal fine possiamo cominciare proprio dal raccogliere il suo invito a “riflettere sul portato semantico e ideologico di quella parola”. Sul piano semantico, data la premessa, direi che per islamofobia si possa intendere il complesso variamente combinato di paura, avversione e ripugnanza, quasi sempre istintive, immotivate e dunque patologiche, che l’islamofobico indirizza sull’islam. È chiaro che, però, l’islam potrà suscitare paura, avversione e ripugnanza anche in chi non sia islamofobico: la differenza sarà nel fatto che tali sentimenti saranno motivabili sul piano razionale con argomenti in grado di supportare la critica e il rifiuto di ciò che l’islam rappresenta sul piano religioso, culturale, ecc. Differenza che non sarà affatto irrilevante nel caratterizzare il portato ideologico della critica e del rifiuto, a cominciare dalle modalità che questi assumeranno sul piano culturale e politico, sicché difficilmente l’islamofobico riuscirà ad esprimere una critica ben argomentata di ciò che rifiuta dell’islam, e in lui il rifiuto assumerà una configurazione di tipo coattivo, contrassegnata sul piano culturale da assunti raramente dimostrabili, quasi sempre pregiudiziali, ma senza che il pregiudizio sia necessariamente razziale, mentre sul piano politico si esprimerà in istanze di difesa identitaria, segnate non di rado da un’urgenza dal sapore paranoico. E tuttavia il razzismo potrà non essere in questione, e spesso infatti non lo è.
D’altronde, dando spazio alla contraddizione, è lo stesso Giovanni Fontana che concede: “Il razzismo contro l’islam non esiste, né esiste quello contro il cristianesimo, perché islam e cristianesimo non sono razze: sono sistemi di pensiero con cui ognuno di noi può decidere di essere d’accordo, oppure no”. Benissimo, ma non abbiamo cominciato a parlare di razzismo perché abbiamo voluto intravvederlo a tutti i costi in una parola che – come si è fin qui cercato di dimostrare – non lo implica? E allora, di che parliamo?
Possiamo concordare sul fatto che “essere contro l’islam non vuol dire essere «contro i musulmani», per la semplice ragione che – per fortuna – le persone sono molto più che una sola cosa: possiamo non essere d’accordo con le convinzioni politiche dei nostri amici, senza per questo rifiutarli del tutto. Tanto più che l’Islam è composto di almeno tre cose: la Sunna, quindi il Corano e gli Hadith; la tradizione della legge islamica, la Shari’a; e le persone che ci vivono dentro. Si possono considerare infondate, sessiste, violente, le idee espresse nelle prime due senza estendere questa valutazione a coloro che queste idee decidono di ignorarle”. Perfetto, perfettissimo. Proprio perciò il termine islamofobia può essere validamente usato: indica l’errore culturale e politico, indotto dal cedimento al pregiudizio (non necessariamente razzistico) che l’individuo si esaurisca nel complesso identitario di storia-religione-cultura che caratterizzano la comunità nella quale gli è capitato di nascere.
L’islamofobia esiste, ed è una malata reazione all’islam, che può essere criticato e rifiutato – in parte o in toto – senza alcun ricorso a procedure di natura fobica. Esiste anche la cristianofobia? Certo, ma non è quella di chi critica e rifiuta il cristianesimo con argomenti. In tal senso, l’uso che alcuni cristiani fanno del termine è specioso e strumentale nel tentativo di eludere gli argomenti di critica e le ragioni del rifiuto. I satanisti, per esempio, sono cristianofobi e, come gli islamofobi con l’islam, non hanno argomento contro il cristianesimo che la loro patologica e irrazionale avversione. E anche in questo caso il razzismo c’entra poco o niente.  

venerdì 5 agosto 2011

“Che galantuomo!”


Giulio Tremonti si è recato in Procura per chiarire il significato di quanto aveva dichiarato nel corso di un’intervista: “Ho accettato l’offerta di Milanese, perché in caserma non mi sentivo più tranquillo: ero spiato, controllato, pedinato” (la Repubblica, 28.7.2011). Ha detto che si trattava di una sensazione personale che non basava su alcun dato oggettivo, che quelle affermazioni riferivano di uno stato d’animo, e che il clamore da esse sollevato è stato frutto solo di una “forzatura giornalistica”.
Possiamo archiviare il caso, e con un bel sospiro di sollievo, perché l’idea di un Ministro dell’Economia spiato dalla Guardia di Finanza ci avrebbe tenuti a lungo in sospeso tra ansia e spasso. Resta solo da spiegarci perché “il ministro avrebbe donato al magistrato una copia del suo libro Lo stato criminogeno, edito nel 1997” (ansa.it, 4.8.2011), invece che una copia di una delle sue fatiche più recenti (Meno tasse più sviluppo, 1999; Guerre stellari, 2000; Rischi fatali, 2005) o, come sarebbe stato più naturale, dell’ultima (La paura e la speranza, 2008), che peraltro supera le posizioni de Lo stato criminogeno, correggendole. La risposta è semplice: in quel libro, che è l’unico nel quale Tremonti affronta il tema della giustizia, si offrono garanzie alla magistratura.
Si parla di Tangentopoli e di Mani pulite, e senza dubbio, come si legge fin dalla quarta di copertina, vi è contenuto un atto di accusa allo stato giacobino”, ma riconoscendo alla magistratura il merito di aver messo fine alla cleptocrazia politica” (pag. 127) con una rivoluzione legale” (pag. 128) resa ineluttabile da una classe politica responsabile di un deficit di democrazia che si era tradotto in una “democrazia del deficit(pag. 129). Può darsi che la funzione penale abbia mostrato aspetti poco garantisti, certo, ma la repressione è stata largamente inferiore rispetto alla enorme estensione dei crimini commessi” (pag. 129), sicché molti dei principali fattori criminogeni (la democrazia bloccata, la partitocrazia strutturata) sono scomparsi, ma non basta ancora” (pag. 131).
Non basta l’azione della magistratura, perché la giustizia da sola non è un potere sufficiente” (pag. 132), sicché Tremonti fa proprie le opinioni di Pier Camillo Davigo (Tempo per un nuovo inizio - Economia & Management, 2/1993): per ridurre ulteriormente la portata dei fattori criminogeni [è necessario] stabil[ire] un rapporto nuovo e più equilibrato tra stato e società” (pag. 157), e questo è possibile solo grazie ad una filosofia politica radicalmente diversa da quella finora dominante [...] filosofia che è sintetizzata nel manifesto posto a chiusura di questo libro” (pag. 131), dove Tremonti si mette in posa da homo novus, agli antipodi del politico che vive di mazzette. Un biglietto da visita che a un magistrato non può che far esclamare: Che galantuomo!”.
Possiamo esser certi che Tremonti non sia stato tanto sfacciato da offrire al Procuratore capo di Roma una copia corredata da sottolineature dei passi ai quali intendeva dare evidenza, ma non è difficile immaginare quali fossero.


[...]

Il direttore di Pontifex arrestato per stalking



giovedì 4 agosto 2011

In questo punto critico

Se questo governo non arriva a fine legislatura, la pur lontana possibilità che Silvio Berlusconi rivinca le prossime elezioni politiche è irrimediabilmente persa, e con essa, per lui e i suoi alleati, per i sodali che hanno goduto della sua protezione, per i ruffiani che hanno affollato la sua corte, per chiunque abbia vissuto delle briciole che cadevano dalla sua tavola, tutto è perso. È comprensibile, dunque, che egli sia disperatamente aggrappato alla Presidenza del Consiglio e che a lui siano disperatamente aggrappati complici e famigli, dipendenti e clienti, troie e quaquaraquà. Per costoro, ovviamente, la questione non si pone.
La questione che riguarda tutti gli altri, anche chi ha votato Silvio Berlusconi nel 2008, è che questo governo è del tutto inadeguato a fronteggiare una crisi che volge alla catastrofe, prima di tutto perché non è capace di prenderne atto con l’indispensabile autocritica che sarebbe la premessa minima alla ricerca di una qualsivoglia soluzione. La negazione dell’evidenza e la distorsione della realtà sono tratti della personalità di Silvio Berlusconi che improntano la sua azione di governo, con una sottovalutazione dei problemi che ha intento ed efficacia di esorcismo e una sopravvalutazione delle proprie energie che arriva ad assumere forme deliranti, fino alla folle convinzione che i problemi si risolvano con l’ottimismo ad oltranza, spudoratamente esibita come filosofia politica e anima del programma.
Nessuno, a tutt’oggi, è stato capace di guarire Silvio Berlusconi da questa sua grave patologia o, in ogni caso, di dissuaderlo dal guardare alle prestazioni economiche del paese con la stessa indulgenza, la stessa esaltata soddisfazione, con la quale prende per credibili le lodi che gli vengono da lacchè e puttane. È un caso clinico senza speranza, un affetto da narcisismo maligno dalle straordinarie doti di impostore e manipolatore, con straordinari mezzi a disposizione per fare dell’impostura e della manipolazione le regole del mondo che è in grado di costruire attorno a lui.
Quando un mondo di questo tipo subisce crepe e le inevitabili infiltrazioni di realtà, il malato reagisce come aggredito dalla più letale delle minacce, e le sue reazioni diventano pericolosissime, per più ritorsive, sempre nel segno della proiezione, assumendo i caratteri allucinatori della legittima difesa. Attorno a un malato del genere, allora, tutto è a rischio, a cominciare da quanto, pur non appartenendogli, sia per tempo andato incontro a quel processo di assimilazione  che è una nota distintiva dei deliri di onnipotenza. In questo caso, parliamo della cosa pubblica, che in numerose occasioni Silvio Berlusconi non ha dato prova di saper più distinguere da quella privata, e che in tali situazioni diventa ciò che un pazzo del suo genere si sente autorizzato a sacrificare pur di difendersi.
Passando dalla psichiatria alla politica, siamo al punto in cui il paese ha in Silvio Berlusconi un pericolo mortale. Quando ancora non eravamo in questo punto critico, erano in molti ad augurarsi la sua morte come una delle possibili soluzioni per sbloccare il quadro politico. È davvero strano che, assai meno che prima, oggi nessuno la consideri come l’ultima rimasta. Forse siamo a tal punto irretiti dalla sua pazzia al punto da considerare anche noi sacrificabile la cosa pubblica alla sopravvivenza di uno, lui. 

Incorreggibile


 
Tra le tante figuracce rimediate da monsignor Rino Fisichella in questi ultimi anni, quale l’avrà maggiormente amareggiato? Il non riuscire a mettere insieme due verbi e due aggettivi che avessero senso compiuto, quando ad Anno Zero si discuteva degli abusi sessuali ai danni di minori da parte del clero cattolico irlandese? La valanga di sghignazzi piovutagli addosso per la sua arrampicata sugli specchi nel tentativo di giustificare il fatto che a un divorziato risposato come Silvio Berlusconi fosse stata somministrata l’eucaristia o il disprezzo che lo sommerse, quando assolse il ben contestualizzato “porcodio” del barzellettiere di Palazzo Chigi? Niente di tutto questo: conoscendolo il tanto che basta, fu quando si beccò il tremendo cazziatone della Congregazione per la Dottrina della Fede per aver pubblicamente ripreso, su L’Osservatore Romano del 15 marzo 2009, monsignor José Cardoso Sobrinho.
Ricorderete il caso della bambina brasiliana di undici anni che, lungamente stuprata e infine ingravidata dal patrigno (gravidanza gemellare), si era pigliata la scomunica insieme alla madre e ai medici che l’avevano fatta abortire. Bene, ricorderete pure, allora, che Fisichella aveva assunto posizione dottrinariamente scorretta, affermando che “non c’era bisogno di tanta urgenza e pubblicità nel dichiarare un fatto [la scomunica latae sententiae] che si attua in maniera automatica” e che, “a causa della giovanissima età e delle condizioni di salute precarie, la vita della bambina era in serio pericolo per la gravidanza in atto”, lasciando intendere, vai capire quanto intenzionalmente, e con quale implicita inferenza, che l’aborto fosse stato un male minore.
Apriti cielo, la Conferenza episcopale brasiliana pretese che Fisichella fosse smerdato coram populo, e l’ottenne: “La Congregazione per la Dottrina della Fede ribadisce che la dottrina della Chiesa sull’aborto provocato non è cambiata né può cambiare…”, insomma, Sobrinho si era comportato a dovere, e Fisichella a cazzo di cane. Il primo aveva difeso la dottrina, e al diavolo la bambina, il secondo aveva mostrato cedimento alle logiche mondane.
Quando è il mondo che ti fa bersaglio di fumanti palle di letame, puoi sempre atteggiarti a martire, ma quando a dirti che sei deboluccio sui fondamentali, chiamato a pronunciarsi con urgenza, è il Sant’Uffizio, che puoi fare? Tutt’al più puoi arrossire e balbettare che sei stato frainteso, ma ormai il guaio è fatto, ti serva da lezione.
Sua Eccellenza, però, è una testa di cazzo: quando un giornalista gli telefona per chiedergli un parere su un caso che le cronache portano alla ribalta, parla e, senza pensare troppo, cede al piano buonsenso, cercando approvazione. Anche stavolta, sul caso delle gemelle siamesi nate qualche settimana fa al «Sant’Orsola» di Bologna, sull’enorme complessità dei problemi che il caso pone sul piano medico e su quello bioetico, Sua Eccellenza si è lasciato andare: “Se vi fosse una reale possibilità di morte, salvare una delle due sarebbe un atto d’amore e quindi lecito” (Corriere della Sera, 3.8.2011).
In sé, l’affermazione sembrerebbe ragionevole, ma vi risulta che lo sia pure la dottrina morale cattolica? Chi può mai stabilire con certezza una reale possibilità di morte”? E come può essere considerato “atto d’amore” un intervento scientemente finalizzato all’omicidio di un neonato per salvarne un altro? Quante volte dovranno rammentare ancora a Sua Eccellenza che, quando di mezzo c’è un ammazzamento, la logica del male minore non va mai bene? Può darsi che stavolta gliela facciano passare, facendo finta di non aver sentito, ma - ancora una volta - non ci siamo, non ci siamo proprio: quell’affermazione sta bene in bocca ai genitori e ai medici, se non cattolici, ma non in bocca a un vescovo, tanto meno a un vescovo al quale è stato affidato il compito di rievangelizzare l’occidente.

mercoledì 3 agosto 2011

In un punto

Cos’ha detto di nuovo, Silvio Berlusconi? Niente. Il momento è difficile – ha detto – ma la crisi è internazionale, viene da fuori, e comunque noi non stiamo messi così male, basta un pizzico di ottimismo e un po’ più di fiducia in lui, ma da parte di tutti, anche delle opposizioni, così si dà al mondo l’impressione di essere forti, uniti e determinati. Basta col disfattismo – ha detto – sennò ci si tira addosso la sfiga. Qualcosa si farà – ha detto – ma molto è già stato fatto, da lui. Cose già dette cento volte, mentre il debito pubblico non accennava a diminuire e di crescita non si vedeva un accenno.
Ha letto il solito discorso ormai logoro, ambiguo qui, vago lì, sostanzialmente vuoto. Ma in un punto, almeno in un punto – nell’unico in cui ha parlato a braccio, per rispondere a una provocazione che gli giungeva dai banchi delle opposizioni – ci è apparso nudo: è stato quando ha ricordato che ha tre aziende quotate in Borsa e che quindi è avvinto alle sorti del Paese, le sente, le soffre. Spogliandosi dei vestiti inesistenti che servi e ruffiani gli hanno cucito addosso, ci ha mostrato il suo enorme conflitto d’interessi, ormai fatto simbiotico alla crisi di sistema.  

Il Sole-24 Ore, 31.7.2011



Sui test che nel 1988 datarono il telo della Sacra Sindone tra il 1260 e il 1390 vengono posti dubbi da parte di chi è convinto che quello sia proprio il sudario in cui fu avvolto Gesù di Nazareth (Gv 19, 14), e forse il Mandylion di Edessa di cui Evagrio Scolastico parlò per primo nel 594, la Sydonie che Robert de Clary afferma di aver visto a Costantinopoli nel 1204. Hanno dalla loro il no che la Chiesa oppone ad ulteriori prelievi dal lenzuolo, ma non solo, perché per retrodatare quello che è senza dubbio un falso posso tornare utili anche “documenti medievali usati scorrettamente”, come ha fatto Barbara Frale, firma di Avvenire e de L’Osservatore Romano. Puntuale, fino ad essere spietata, la contestazione di Andrea Nicolotti.

[si ringrazia R.P. per la segnalazione]

Oscurami questo


(1)
Premessa maggiore L’omeopatia non ha basi scientifiche e gli effetti dei preparati omeopatici sono equivalenti a quelli di un placebo.
Premessa minore Boiron è leader mondiale nel settore dell’omeopatia.
Conclusione Boiron vende prodotti che non hanno altro effetto che quello placebo.


(2)
Premessa maggiore Samuele (blogzero.it) ha scritto quanto alla Conclusione in (1) e Boiron gli ha fatto oscurare il blog.
Premessa minore Questa è cosa ingiusta e odiosa.
Conclusione Passa parola e fai sapere in giro chi è Samuele e chi è Boiron.


(3)
Premessa maggiore Può darsi che per la Conclusione in (2), e soprattutto per la Conclusione in (1), Boiron faccia oscurare anche questo blog.
Premessa minore Quanti cazzi di blog potrà fare oscurare, ’sto Boiron?
Conclusione Fanculo a Boiron e all’omeopatia, fanculo anche al bloggare se bisogna rinunciare alla logica più elementare.

Emendare la Legge Ossicini

Non c’è bisogno di avere una laurea in medicina per esercitare la professione di psicoanalista, almeno così sosteneva Sigmund Freud, che fin dall’inizio pose la psicoanalisi di là dalle comuni pratiche neuropsichiatriche e demarcò un distinguo tra approccio psicologico e psicoanalitico. Dettò le severe regole per l’esercizio della professione di psicoanalista, questo sì, ma non lo precluse affatto a chi venisse da una formazione di tipo umanistico: non riteneva indispensabili gli studi e i titoli del frenologo, si poteva diventare un buon psicoanalista anche avendo una laurea in Lettere.
Ora, l’art. 35 della legge n. 56 del 18.2.1989 (Legge Ossicini) recita che l’esercizio dell’attività psicoterapeutica è consentito a coloro i quali, o iscritti all’ordine degli psicologi o medici iscritti all’ordine dei medici e degli odontoiatri, laureati da almeno cinque anni, dichiarino sotto la propria responsabilità di aver acquisita una specifica formazione professionale in psicoterapia, documentandone il curriculum formativo con l’indicazione delle sedi, dei tempi e della durata, nonché il curriculum scientifico e professionale, documentando la preminenza e la continuità dell’esercizio della professione psicoterapeutica”. È abbastanza per vietare l’esercizio della professione di psicoanalista a chi non corrisponda a questo identikit? Solo se sovrapponiamo la figura dello psicoanalista a quella dello psicoterapeuta. Ma questa sovrapposizione è corretta? Secondo Freud – ancora – non lo è.
Basta leggere ciò che scrive, nel 1926, in Die Frage der Laienanalyse (in italiano, a pagg. 345-423 del X volume delle sue Opere, per Boringhieri Bollati [1967, 1989]), e soprattutto nel Proscritto, che è dell’anno successivo, dove rivela che “l’occasione per scrivere questo libretto e il punto di partenza della discussione ivi contenuta fu una denunzia di ciarlataneria a carico del dottor Theodor Reik (un nostro collega non medico) fatta pervenire alle superiori autorità viennesi”.
Presumibilmente a Vienna vigeva qualche legge analoga a quella che in Italia reca come prima firma quella di Adriano Ossicini, grazie alla quale nasceva, 22 anni fa, l’ennesimo Ordine professionale, quello degli psicologi. Freud ci informa che l’accusa al dottor Reik “è caduta, dopo che sono state prese tutte le necessarie informazioni preliminari, e sono stati raccolti i pareri qualificati di vari esperti”. Il problema è che gli effetti terapeutici, quando possibili, sono solo secondari alla pratica psicoanalitica, che la psicoanalisi rimane attività di ricerca, ben al di qua, dunque, di quanto è posto nei fini della psicoterapia: nella psicoanalisi, insomma, non vi è dichiarata finalità “clinica”e allora non si capisce perché lo psicoanalista dovrebbe possedere i requisiti richiesti alla Legge Ossicini.
È da recepire e da appoggiare, dunque, la richiesta di quanti la vorrebbero emendare, escludendo gli psicoanalisti e le loro associazioni e scuole dall’ambito di applicazione della norma che li vorrebbe iscritti ad un apposito albo. I promotori dell’iniziativa tengono a sottolineare che la psicoanalisi ha per oggetto la descrizione generale dell’apparato psichico, non soltanto delle sue manifestazioni patologiche, e che mira, in tutti i suoi successivi e molteplici sviluppi, a svelare l’importanza dell’inconscio nel comportamento umano, avendo come finalità la conoscenza di sé: la psicoanalisi non è una psicoterapia, anche se l’attività psicoanalitica può avere effetti terapeutici.
E basta prendere atto dello statuto che Freud ha dato alla psicoanalisi per non poter respingere questa istanza.


Gesto nobile, e irragionevole

Sono stati ritirati dai punti vendita della Norvegia i due videogiochi citati da Anders Breivik nel suo 2083 - A European Declation of Independence, e cioè World of Warcraft e Call of Duty - Modern Warfare. L’iniziativa non è delle autorità locali, ma dei responsabili della distribuzione dei due prodotti sul territorio norvegese, in segno di rispetto per le famiglie delle vittime della strage del 22 luglio. In tutta evidenza si tratta di un gesto simbolico, perché chi in Norvegia è già in possesso dei due videogiochi potrà continuare ad usarli e chi volesse acquistarli potrà comunque farlo, via internet.
Il problema è un altro: non è affatto vero – come si continua a dire – che Breivik si sia ispirato a quei due videogiochi. Per quanto riguarda World of Warcraft, al “templare” che voglia imitarlo suggerisce di addurlo a scusa per dare spiegazione a parenti, amici e conoscenti dell’isolamento necessario alla preparazione di un attentato terroristico (pagg. 841-842); confessa di averlo usato come svago nelle pause del lavoro di scrittura, per stare lontano dal web, nel timore di lasciarsi inavvertitamente scappare qualcosa circa i suoi propositi (pag. 1.380); dice di voler provare l’ultima edizione del videogioco (World of Warcraft - Cataclysm), uscita lo scorso dicembre (pagg. 1.424-1.425). In quanto a Call of Duty - Modern Warfare, viene citato tra i suoi passatempi (pag. 1.398 e pag. 1.408) e ipotizza di usare un fan club del videogioco come copertura di una cellula terroristica (pagg. 1.282-1.283).
In nessun punto delle 1.518 pagine, insomma, i due videogiochi sono dichiarati fonte di ispirazione dell’azione terroristica: la decisione di chi li ha fin qui distribuiti in Norvegia potrà pure sembrare nobile, ma non è ragionevole e, per tener fede alla volontà che i norvegesi hanno espresso dopo l’attentato terroristico, sarebbe stato meglio non porre alcuna misura restrittiva sulla distribuzione dei due videogiochi. D’altra parte, sembrerebbero nobili analoghe iniziative in relazione ad altri interessi dichiarati da Breivik, come la musica classica e l’araldica?




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martedì 2 agosto 2011

Turiddu Ambrogio


Mi sono limitato a segnalare solo un passaggio dell’articolo di Magdi Allam apparso su il Giornale domenica 24 luglio (La strage in Norvegia – Il razzismo è l’altra faccia del multiculturalismo), e senza alcun commento. Pare, invece, che abbia ricevuto una valanga di accese criti­che e anche qualche violenta mi­naccia”, sicché “ho dovuto de­nunciare alle competenti autori­tà – informa chi lo firmava – i messaggi che incitavano apertamente ad odiarmi, a di­sprezzarmi, a radiarmi dalla so­cietà civile, qualificandomi co­me talebano, razzista, fascista, nazista, sentenziando la mia condanna all’ergastolo sbatten­domi in galera e lanciando la chiave nell’oceano, perché sa­rei il peggior nemico dell’Italia e dell’Europa, il sommo tradito­re di tutto, degli arabi e dei mu­sulmani, ma anche degli italia­ni e dei cristiani, un rinnegato che immeritatamente è riuscito a spac­ciarsi per giornali­sta e poi per politi­co, ma che in re­altà è so­lo un ignoran­te e un fa­natico” (il Giornale, 1.8.2011). Stupisco nell’apprenderlo, perché l’articolo era semplicemente cretino. Davvero in così tanti l’hanno ritenuto razzista? Cretini pure loro.
Quell’articolo andava letto in controluce, senza badare troppo alla sconclusionata tesi che tentava di dimostrare (“multiculturalismo e razzismo sono di fatto due facce della stessa medaglia”), considerando solo il vizio psicologico di fondo: era l’apologo del siciliano andato a vivere a Milano che, dopo essersi liberato a gran fatica del suo pesante accento palermitano, si lamenta in perfetto dialetto milanese dei troppi siciliani in giro, senza dubbio tutti mafiosi.
Così va letto pure l’articolo di ieri: sempre in perfetto milanese, il tizio tiene a precisare che rispetta i siciliani, ma ha tutto il diritto di muovere rilievi critici alla sicilianità. E poi: la mafia non è cosa siciliana?
Sì, ma lui? Non è la prova vivente che non tutti i siciliani sono mafiosi e che l’integrazione passa attraverso la tolleranza e il rispetto delle differenze? Non si chiamava Turiddu, forse, e adesso si chiama Turiddu Ambrogio?


Tornano comodi ad ogni 2 agosto

Il 2 agosto del 1980 avevo compiuto da poco 23 anni. Di lì a un mese mi sarei iscritto all’ultimo anno di Medicina e Chirurgia e, intenzionato a laurearmi entro il luglio successivo, preparavo già la tesi, in attesa di dare gli ultimi quattro esami. Avevo lasciato la mia stanza di fuorisede a Napoli ed ero tornato a casa, a Ischia, dai miei. Mi svegliavo presto, studiavo fino a mezzogiorno e poi mi concedevo una pausa, salivo sulla mia scassatissima Vespa e andavo in spiaggia. Quel 2 agosto lo ricordo bene.
Ero appena arrivato allo stabilimento balneare de La Cava dell’Isola, a Forio, che al bar vidi un capannello di bagnanti piuttosto agitati. Era da poco arrivata la notizia della strage di Bologna e Berti (non ne ricordo il nome), un romagnolo sulla settantina, habitué di quella spiaggia, patetica macchietta di fascista, aveva rivendicato il “botto”, anche con una certa fierezza: si discuteva concitatamente e di lì a poco Berti si sarebbe preso qualche meritato ceffone.
Era da escludere, ovviamente, che avesse a che fare anche lontanamente con la strage e la rivendicazione dei Nar (poi smentita) sarebbe arrivata solo nel tardo pomeriggio: perché non aveva esitato dichiararla “bomba fascista”? Semplice: a quei tempi un attentato dinamitardo era fascista, per definizione. Com’era, per definizione, anarchico alla fine dell’Ottocento, e islamista oggi. Berti era l’altra faccia del luogo comune: di qua, l’orrore, lo sdegno, la rabbia e il dolore per una carneficina che non poteva non essere opera dei fascisti e, di là, Berti, altrettanto sicuro, col petto in fuori, “onore ai camerati che hanno fatto piangere Bologna, la rossa”.
Avremmo dovuto aspettare un quarto di secolo perché il luogo comune rivelasse qualche incongruenza, lasciando spazio a un’ipotesi, che è ancora troppo presto per poter considerare men che un depistaggio tardivo, ma che con sempre più forza va a erodere la verità di una sentenza che fa acqua da più di un buco. Il 19 dicembre del 2003, sul Corriere della Sera, il senatore Giovanni Pellegrino, già presidente della commissione stragi, affermava: “Rimane non verosimile, non credibile, la ricostruzione del fine politico della strage di Bologna che è sempre stato accostato, quasi fosse un remake, a quello della bomba di Piazza Fontana. Ovvero: la destra radicale, in un ambiguo rapporto con gli apparati di sicurezza, semina il terrore affinché questo generi smarrimento e una richiesta d’ordine che poi porti a uno spostamento a destra dell’asse politico del Paese piuttosto che a un vero e proprio golpe. Questo movente non ha alcun senso nel 1980”.
Ha senso, invece, ma solo oggi, l’ipotesi che l’esplosivo fosse solo in transito sul territorio italiano, e che il corriere fosse palestinese: il carico sarebbe stato fatto esplodere da agenti della Cia o del Mossad, al fine di sabotare il patto da lungo tempo stretto tra i palestinesi e l’Italia dopo la strage di Fiumicino (libertà d’azione su tutta la penisola in cambio di nessun attentato). Numerosi elementi sono venuti a rendere attendibile questa ipotesi, che però è difficile da far digerire a filopalestinesi e filoisraeliani, cioè praticamente a tutti.
Morto Berti, che non può continuare a rivendicarla come strage fascista, il luogo comune regge sull’ormai consolidata idea che quella bomba fu messa dai Nar. D’altronde, le figure di Mambro e Fioravanti hanno tutti i requisiti per soddisfare un tal genere di trama. In assenza di un’altra verità, tornano comodi ad ogni 2 agosto.

domenica 31 luglio 2011

In verità



Troppo preso dai lavori di un interessantissimo congresso internazionale di microchirurgia vascolare (vedi foto), non posso intrattenermi troppo sulle tante inesattezze scritte da Giuliano Ferrara nell’editoriale che oggi apre il Giornale, sicché mi limito a segnalarne una sola, la prima in ordine di apparizione: agli atti dei procedimenti istruiti da Giancarlo Capaldo – scrive il nostro – vi sono “le dubbie inchieste sulla ricostruzione dell’Aquila” (il Giornale, 31.7.2011). Sarebbe più corretto dire: “le inchieste sulla dubbia ricostruzione dell’Aquila”. Mai ricostruita, in verità.