mercoledì 24 agosto 2011
Samuele e Bersani
Samuele Siani ha scritto una lettera a Pierluigi Bersani nella quale gli esprime il suo sconcerto e la sua rabbia per la posizione ufficialmente assunta dal partito in merito ai privilegi di cui gode il Vaticano in Italia, che in pratica sarebbero intoccabili, almeno a detta dello stesso segretario nel corso della conferenza stampa nella quale è stata esposta la controfinanziaria del Pd. Bella lettera, senza dubbio, della quale sarà il caso di riportare la chiusa: “Se questa è la linea del partito, ha perso non solo un tesserato – che è inezia, comprendo – ma una vera opportunità di fare giustizia in un sistema marcio di privilegi, caste, parassiti, che sta sempre più dissanguando il nostro già esangue Paese”.
Non resta che attendere una risposta, se ci sarà. In ogni caso, a naso, direi sia più probabile un Pd con un iscritto in meno, a breve, che un Bersani disposto a farsi inculare a sangue dalla Cei, a lungo.
Soldi e potere nel nome del “fatto cristiano”
Se Dio c’è, se si è incarnato in Cristo, se la Chiesa è il Cristo vivente, se i preti ne sono i ministri e il laicato cattolico è il popolo di Dio, tutti i traffici della Compagnia delle Opere sono in regime di apostolato e la sua rete, già da tempo multinazionale, qualcosa in più di una lobby e poco meno di una mafia, non è altro che una falange della mano di Dio nel campo della politica e degli affari.
Voglio dire che non c’è alcuna rottura tra la predicazione di don Luigi Giussani e l’impero economico dai mille tentacoli al quale i suoi ragazzi hanno dato vita: la piovra potrà avere un brutto aspetto, ma è proprio quella pensata dal pretino di Desio ne All’origine della pretesa cristiana. Lì non si entrava nel dettaglio, ma c’era già tutto, anche l’incoraggiamento a non temere più di tanto la magistratura inquirente. Con un giro di affari di oltre 80 miliardi di euro, a Dio gli fai un baffo.
Affermare, dunque, che don Giussani si rivolterebbe nella tomba a sapere dei traffici di Comunione e liberazione è l’ennesima cazzata di Marco Pannella, che continua ad esser vittima, come lo è sempre stato, dell’idea che la sete di denaro e la fame di potere siano solo degenerazioni dell’attivismo sociale cristiano, che a occhi aperti non smette di sognare di poter conquistare alla sua eresia. Non è così, non lo è mai stato, e figurarsi un don Giussani candido e un Formigoni o un Vittadini lerci è un errore teologico prima che politico.
Assai più acuto lo sguardo di Marco Politi nel suo articolo su Il Fatto Quotidiano di martedì 23 agosto (Soldi e potere nel nome del “fatto cristiano”): a questo robusto esoscheletro finanziario e mediatico, a questa macchina che è metà holding e metà setta, “don Giussani dall’aldilà non può che guardare con orgoglio”.
martedì 23 agosto 2011
Spigolature
La manipolazione di una foto è oggi ormai alla portata di tutti, e con risultati anche eccellenti. Tuttavia, per quanto buona sia la manipolazione, della foto originale rimarranno sempre elementi che la faranno riconoscere come base di partenza. Bene, per quanto riguarda la foto che ritrarrebbe Gheddafi morto, tolti gli occhi e la bocca che sono stati pesantemente ritoccati, non c’è ruga del volto e del collo, né piega dell’acconciatura o stacco del colletto, che non corrisponda in piena sovrapposizione ad una posa scattata al dittatore in una delle sue visite a Roma. Che la foto di Gheddafi morto fosse un falso era molto probabile, ma trovarne una che lo raffigura vivo con tante e tali corrispondenze lo rende pressoché certo.
Quasi a bruciapelo
Ogni definizione di verità è una tautologia. Tautologia più o meno manifesta, ma tautologia. Si va dalla tautologia dichiarata tale col definirla “l’essere vero” (De Mauro) o “ciò che è vero” (Treccani), a quella che va in cortocircuito con un termine facente funzione di sinonimo, per più con realtà, e allora la verità diventa la “aderenza alla realtà” (Palazzi) o la “rispondenza piena e assoluta con la realtà effettiva” (Devoto-Oli) o, ancora, la “conformità a una realtà obiettiva” (Treccani), dove questa realtà rimanda inevitabilmente al vero, in quanto “qualità e condizione di ciò che è veramente” (Palazzi).
Quando dal tentare di definire la verità si passa ad analizzare le sue accezioni in ambito filosofico e scientifico, teologico e linguistico, logico e psicologico, le cose non vanno meglio, perché “non c’è una definizione univoca su cui la maggior parte dei filosofi di professione e gli studiosi concordino, e varie teorie e punti di vista della verità continuano ad essere discussi” (Wikipedia), e perché in ciascun ambito il termine va assumere un significato che risulta inservibile in un altro. Si prenda, per esempio, il significato di verità per un teologo come Tommaso, che la ritiene coincidente all’essere e in pratica assimilabile a Dio: sarà accezione praticamente inservibile per un epistemologo come Peirce, che la ritiene il risultato di un accordo di un determinato gruppo di soggetti, su un determinato assunto, in un determinato spazio, in un determinato lasso di tempo. Oppure si prenda il suo significato per un matematico come Gödel, per il quale non tutto ciò che è vero è anche dimostrabile: del tutto incompatibile con la definizione che di verità darà un logico come Frege, secondo il quale il vero è categoria illusoria.
Non va meglio neppure trasferendo interamente il vero al reale, per tenercelo, perché la realtà è maledettamente sfuggente ad una percezione che voglia dichiararsi qualitativamente e quantitativamente assoluta e tradursi in conoscenza oggettiva: offrirà in se stessa gli strumenti per valutare la congruenza tra un aspetto del reale e un suo corrispettivo, in ciò che dunque avrà efficacia di mera dimostrazione di una congruenza interna ad un sistema, del quale però la conoscenza soggettiva è parte inalienabile. E così la realtà sarà comprensibile, ma mai interamente, né sarà mai possibile ridurla a pura oggettività, perché ad essa è connaturata la frammentarietà della percezione e della comprensione relativa, che non può mai tradursi in conoscenza assoluta.
È in questo punto, che poi è quello dove ci si dovrebbe arrendere all’impossibilità dell’onniscienza, dell’impossibilità di rappresentarci il vero al di fuori di uno spazio soggettivo, che nasce la trascendenza. Con essa si fa strada in molti l’idea che l’assoluto sia una meta e che la verità sia un fine. Tutto è promesso all’uomo in una verità assoluta, tutto gli è chiesto in cambio di quella. Accade allora quasi sempre che il soggettivo, per questa sua vorace fame di assoluto, cerchi di imporsi come oggettivo, non di rado con mezzi assai opinabili, assai opinabilmente giustificati dalla bontà del fine, tutto illusorio.
A tal riguardo c’è chi ha fatto una proposta ragionevole: “Dato che non penseremo mai nello stesso modo e vedremo sempre la verità per frammenti e da diversi angoli di visuale, la regola della nostra condotta dovrebbe essere la tolleranza reciproca. La coscienza non è la stessa per tutti. Quindi, mentre essa rappresenta una buona guida per la condotta individuale, l’imposizione di questa condotta a tutti sarebbe un’insopportabile interferenza nella libertà di coscienza di ciascuno”. Un fanatico gli ha sparato in pieno petto, quasi a bruciapelo.
lunedì 22 agosto 2011
Sempre meglio perderla
“Per noi, lo Stato perfetto è lo Stato cattolico: non ci basta
che un popolo sia cristiano perché si compiano i precetti
di una morale di quest’ordine, ma sono necessarie leggi
che mantengano il principio e correggano l’abuso”
Francisco Franco
Nella stessa lingua, ma a poco meno di ottant’anni di distanza e a poco più di ottomila miglia dalla Spagna che stava per cadere nelle mani di Francisco Franco, nelle Filippine c’è chi esprime lo stesso concetto e prepara un’altra guerra civile contro un altro parlamento democraticamente eletto. Stessa lingua, stesso concetto, stessa tensione tra chi vuole uno Stato laico e chi ne vuole uno etico, ma stavolta, come sempre accade, la tragedia torna in farsa: il presidente Benigno Aquino è irremovibile nel sottoporre al parlamento un’iniziativa del governo in favore dell’educazione sessuale nelle scuole e dev’esserci qualche possibilità che la proposta raccolga la maggioranza perché la Chiesa cattolica locale, nella persona di monsignor Ruperto Santos, strenuamente si oppone già al fatto che la proposta di legge venga messa ai voti, perché spiegare certe cose ai ragazzini favorirebbe in essi una “mentalità contraccettiva” e “minaccerebbe il senso morale” della società filippina. Sulla solidità di questo “senso morale”, ora che l’educazione sessuale non è ancora materia d’insegnamento, parlano il preoccupante incremento delle malattie veneree, delle gravidanze indesiderate e degli aborti clandestini nella popolazione minorile delle Filippine, che è proprio ciò che ha mosso il governo all’iniziativa legislativa.
Siamo davanti al riproporsi del solito paradosso di ogni paese che abbia tradizione cattolica fortemente radicata: qui, per ciò stesso e per esplicito vanto dei cattolici, il “senso morale” dovrebbe essere assai superiore a quello di altri paesi, e tuttavia ciò viene smentito dai fatti. Paradosso nel paradosso è che i più strenui difensori di questa tradizione si oppongano ad ogni politica che miri a contenere i danni di questa pur evidente perdita del “senso morale”, purché sia conservato il principio che a contenere i danni si avrebbe un’ulteriore e maggiore perdita del “senso morale”. È evidente che una tradizione cattolica fortemente radicata non sia efficace nel mettere un freno a fenomeni sociali che sono unanimemente considerati indesiderabili, da chi è cattolico e da chi non lo è, e tuttavia in questi paesi non è possibile trovare una soluzione condivisa, neanche a fronte della patente inefficacia dei precetti della dottrina morale cattolica, per quanto conculcati in modo assai pervasivo: per chi è cattolico, l’unica soluzione possibile sta solo nel mantenere il principio che regge quei precetti, eventualmente immaginando “leggi che mantengano il principio e correggano l’abuso”, come sosteneva Francisco Franco. A chi non è cattolico, e dunque non può immaginare che “lo Stato perfetto è lo Stato cattolico”, non resta che rassegnarsi o farsi trascinare in una guerra civile. Date le premesse, sempre meglio perderla che non combatterla.
[...]
Sulla Domenica de Il Sole-24 Ore in edicola ieri c’era un articolo di Gilberto Corbellini dal quale vorrei trarre alcuni passaggi che a mio modesto avviso sono da incorniciare: “È andando contro il senso comune che l’ingegno umano ha svelato le leggi della natura […] [È il] saper guardare le cose in modo nuovo, costruendo ipotesi in prima istanza estranee all’esperienza – e per questo così spesso combattute nel nome delle percezioni immediate – che, messe a confronto con i fatti raccolti o provocati, ha consentito di capire che cosa c’è al di là dell’esperienza diretta […] È fuori discussione che si tratti di un modo di pensare che richiede di andare contro le euristiche spontanee”. Il più grande ostacolo alla conoscenza è quanto per senso comune ci sembra indubitabile “evidenza oggettiva”.
Chiusa
Domani è lunedì, inizia un’altra settimana e io vorrei lasciarmi alle spalle, per non tornarci più sopra, la polemicuzza che ho intrattenuto in questo week end con Francesco Maria Colombo, a partire da un lungo articolo a sua firma, che prendeva tutta la prima pagina de Il Foglio di mercoledì 17, e nel quale mi è sembrato di trovare, in mezzo a molte affermazioni malamente argomentate, un errore madornale (lo zigote come prodotto della meiosi). Rimanevo stupito, più ancora dell’errore, del fatto che il giornale non provvedesse a correggerlo, né giovedì 18, né venerdì 19. Sabato 20, nella rubrica della posta, Il Foglio pubblicava una mia segnalazione dell’errore, che però il direttore liquidava come futile pignoleria “grammaticale”. Conoscendolo un pochino, mi ritenevo soddisfatto: era l’ammissione della gravità dell’errore e del serio imbarazzo per averlo pubblicato, e questo mi veniva confermato dalla tempestiva scomparsa dal sito del giornale di quello che era stato definito, appena il giorno prima, “un formidabile manifesto anti aborto”. Un’intera prima pagina, mercoledì 17, per poi essere assente ne “La crème degli articoli apparsi nell’ultima settimana”, domenica 21, introvabile nella versione testuale (anche nella sezione a pagamento) e al momento reperibile solo nell’archivio pdf, dal quale ciò che imbarazza scompare solo dopo un certo lasso di tempo.
In qualche modo, non importa quale, Francesco Maria Colombo è stato in grado di mettersi in contatto con me e dopo aver ammesso l’errore madornale, dandomene una spiegazione che continuo a ritenere poco convincente, mi ha chiesto di discutere sulla questione da lui affrontata nell’articolo. Ho accettato a patto che la discussione fosse pubblica e così è stato (vedi Corrispondenze, commenti compresi). Nel discutere – assai amabilmente, devo dire – Francesco Maria Colombo ha ripetutamente respinto i miei argomenti, opponendo loro quelli che fin dall’articolo apparso su Il Foglio erano riconoscibili in quelli che Jeremy Bentham definisce “sofisma di autorità” e “sofisma delle leggi irrevocabili” (The Book of Fallacies, 1824), nella figura dell’“obbligazione della ragione” in Kant. In altri termini, l’autorità di Kant bastava a definire omicidio l’aborto, e irrevocabilmente. Poi scoprivamo che Kant era riuscito a produrre addirittura una giustificazione dell’infanticidio, almeno in caso di bambini nati fuori dal matrimonio (Metafisica dei costumi, 1797), e allora abbiamo chiuso la questione: quel suo “agisci in modo che la tua volontà possa istituire una legislazione universale” si è improvvisamente ammosciato in mano a Francesco Maria Colombo, come mai ci auguriamo accada alla sua bacchetta di direttore di orchestra.
domenica 21 agosto 2011
Morite in silenzio
D’un tratto corre voce che la Chiesa succhia sangue all’Italia e in ogni dove sbocciano stupori e sgomenti. È perché l’Italia è alla fame, sennò tutti avrebbero continuato a non accorgersene o a far finta di niente, anche un poco infastiditi, come peraltro è stato fino a ieri, da quei maniaci che lo hanno sempre detto. Lo dicevano già Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi, l’hanno ripetuto quattro generazioni di anticlericali, sempre gravati dal sospetto che le loro fossero denunce strumentali, in odio al cattolicesimo, in spregio al Dio che senza l’obolo avvizzisce.
Oggi, quasi all’improvviso, si scopre che la Chiesa, in vario modo e per molte vie, drena ogni anno 4 miliardi di euro dalle nostre vene al suo grasso ventre, e che la cosa va avanti da decenni e decenni, con incremento difforme ma costante: un’enorme montagna di denaro che non è servita solo a far prosperare il parassita, ma l’ha reso forte dei suoi investimenti agevolati, arrogante nell’arcigna difesa e nello spregiudicato sfruttamento dei suoi privilegi, avido e insaziabile com’è il parassita che non incontra resistenze. Sicché ora è troppo tardi, fatevelo dire da un maniaco che ve lo ripete dal 2004, quando già era difficile poter far qualcosa: se moriremo di fame, sarà un prete grasso a darci l’estrema unzione. Una funzioncina veloce veloce, perché intanto avrà messo gli occhi sull’orfanello e smanierà dalla voglia di consolarlo, come solo un prete sa fare con gli orfanelli. Lo avete permesso voi, morite in silenzio.
Corrispondenze
I.
Gentile dottor Castaldi,
Gentile dottor Castaldi,
se mi permette vorrei parlare con lei direttamente. Prima di tutto, una breve nota sul perché dell’affaire meiosi. L’articolo l’hanno letto due medici, all’inizio di esso si descrive l’unione dei gameti permessa dalla meiosi. Quando poi sono tornato a parlare dello zigote, il quale senza meiosi non si dà, non sono tornato a menzionare il passaggio decisivo descritto all’inizio, l’unione dei gameti: entrambi i medici mi hanno specificato che sarebbe stato più preciso farlo, ma io, pensando che fosse chiaro perché l’avevo posto in apertura, ho commesso la leggerezza di omettere tale menzione. Da qui la fondatezza della sua osservazione, che accolgo volentieri.
Io non ho accampato alcun titolo per “pontificare” su questo argomento. Né l’ho voluto fare: come ho scritto nell’articolo, sono un semplice musicista (musicologo tanti, tanti anni fa: ma potrei essere un idraulico o un giardiniere, non cambia nulla) che si pone delle domande come “uomo della strada”. Questa era l’attitudine, specificata nell’articolo, e questa rimane: anche ora, quando cerco di parlare con lei e di ascoltare le sue idee senza pregiudizi e senza aggressività.
Ho cercato, non da esperto di scienza (né, ahimè, di donne come vorrebbe una sua lettrice) ma da uomo comune, che cerca di capire e di imparare da chi, come scrivevo, “più ne sa”, di affrontare il tema dell’aborto dal semplice punto di vista dell’evidenza logica fondante la giurisprudenza universale come intesa da Kant, e dall’ottica di un ateo materialista. A un ateo materialista il termine “persona” non dice nulla. Non ci sarà mai accordo oggettivo su questo termine, perché il termine “persona” deriva da valutazioni che hanno un margine soggettivo. A un ateo materialista interessa il principio biologico, l’evidenza oggettiva, apprezzabile, misurabile, individuabile della formazione dello zigote. Dire che tutti noi siamo stati, in uno stadio del nostro sviluppo, uno zigote, non è altro che un fatto, non è un’opinione. Non è cosa né bella né brutta, né buona né cattiva, è un fatto.
I termini del giudizio sono sempre soggettivi. Io non ho mai usato termini di giudizio, come fa invece lei: non direi mai che la legge 194 sia rozza o superficiale o piena di luoghi [comuni?] e così via: né mi interessa. Dico solo che è contraddittoria dal punto di vista dell’evidenza logica, ed è su questo che sollecito una risposta argomentata con gli stessi strumenti.
Infatti: se l’embrione è una vita umana a un certo punto del suo sviluppo (“persona”, ripeto, è un termine che a un ateo materialista non dice nulla. Se, per lei, l’embrione non è una vita umana a un certo punto del suo sviluppo, per favore usi argomenti oggettivi per farlo capire anche a me); e se non c’è oggettiva evidenza dell’esistenza di gerarchie tra i diversi gradi di sviluppo della vita umana, ne consegue che una giurisprudenza la quale permette che talune vite umane vengano soppresse in seguito alla decisione di altri, non è una legge che garantisca l’eguaglianza dei diritti. Non mi parli di “luoghi comuni”. Mi dica in quale punto il sillogismo non tiene. E, per favore, mi dica su quale evidenza oggettiva la legge 194 garantisca l’eguaglianza tra la vita umana abortibile di 85 giorni dal concepimento, e quella non abortibile di 95 giorni dal concepimento. Mi dica che secondo lei c’è eguaglianza di diritto quando a 85 giorni dal concepimento si può venire soppressi e a 95 giorni no. Mi dica, in tutta onestà intellettuale, che per lei c’è differenza fra un essere umano concepito 85 giorni prima, e dunque sopprimibile, e un essere umano concepito da 95 giorni, e non più sopprimibile. Poiché questo contiene la legge 194. Me lo dica usando non giudizi (che sono sempre soggettivi) o termini come “persona” che sfuggono all’evidenza universale, ma strumenti di logica oggettiva, tali da aiutarmi a capire. Le sarò grato, lo dico senza la minima ironia.
Le ho fatto alcune domande precise. Se vorrà rispondermi ad esse, con la precisione che non le manca, le sarò grato. Le sarò grato anche se vorrà concordare con me sull’opportunità di parlare di queste cose senza essere offensivi l’uno verso l’altro. Il mio articolo sollecitava una riflessione, non usava epiteti contro nessuno, non aggrediva nessuno: vorrei proporle di conversare con me nello stesso tono. Io, da parte mia, continuerò a farlo.
Un saluto molto cordiale,
Francesco Maria Colombo
Gentile dottor Colombo,
non mi sembra di essere stato aggressivo nei suoi confronti, a meno che per aggressività lei non intenda quell’eccesso di colore che caratterizza la mia scrittura. Nella lettera spedita a Il Foglio ho detto che lei ha commesso un “errore”, cosa che ora anche lei riconosce, anche se me ne spiega la genesi in modo non convincente. Qui sul mio blog, invece, ho definito “stratosferica cazzata” ciò che lei, di là dalle intenzioni, ha letteralmente scritto e Il Foglio le ha pubblicato: sì, qui ho abusato di libertà lessicale, ma è quella che è propria del diario. Un diario pubblico, naturalmente, ma un diario. È in ciò che mi ha sentito aggressivo? Sono disposto a chiederle scusa, ma solo se lei si dichiara ipersensibile. A meno che per aggressività lei non si riferisca a niente di particolare ma solo quell’umore di fondo, tutt’al più sarcastico, che le assicuro, sul mio onore, era solo la sublimazione della aggressività. Il suo “manifesto”, come lo ha battezzato Giuliano Ferrara, mi ha procurato solo un po’ di fastidio, ma per il resto solo tenerezza. Ogni rilievo polemico da me usato – anche aspro, convengo – era rivolto solo al giornale che ha ospitato il suo intervento, anche se ospitare è un eufemismo: lei ha offerto il candore degli argomenti dell’“uomo della strada”, come dice, a un progetto culturale che è assai meno candido, creda, e del quale la battaglia antiabortista è solo un capitolo di un più ampio, sebbene velleitario, programma reazionario. Lei si è docilmente prestato ad essere subdolamente usato, a volerle riconoscere la buona fede. Non faccio fatica a concederle che da parte sua questo prestarsi sia stato del tutto involontario, ma in relazione a quanto ha scritto, e Il Foglio le ha pubblicato, la sostanza non cambia: lei ha prestato il candore dei suoi luoghi comuni a una macchina da guerra che, nella messa in discussione della legittimità di interrompere una gravidanza, anche se a certe condizioni ed entro certi limiti com’è nel caso della legge 194, investe dichiaratamente energie che, più in generale, mirano a restringere gli spazi della libertà dell’individuo, della sua autodeterminazione, della sua sovranità sul proprio corpo e della propria mente. Si tratta di un progetto culturale illiberale ed antidemocratico, anche se si serve di un armamentario propagandistico relativamente accattivante e delle indubbie doti di un discreto mestierante dell’eristica, qual è Giuliano Ferrara. E questa, ovviamente, voleva essere solo la premessa.
Non deve offendersi quando parlo delle sue opinioni, ancorché espresse in forma di domande retoriche in appello alla “evidenza logica”, alla “evidenza oggettiva”, alla “logica oggettiva”, come di “luoghi comuni”: questi hanno sempre un fondo di verità, anche se bisogna sempre chiedersi a chi appartenga questa verità, e chi l’abbia costruita in quanto verità, e a chi faccia comodo che non sia offesa dal dubbio. Di fronte a ogni affermazione che ci sembra (come direbbe Giuliano Ferrara) “forte, realista, autoritativa e veritativa” dovremmo chiederci, insomma, come si è procurato questo apprezzamento, e in funzione di quale esigenza, entro quali limiti conoscitivi, in forza di quale visione dell’uomo e del mondo, cioè di quale ideologia. Non creda che voglia negare la possibilità di affermazioni autoevidenti, dico solo che anche l’autoevidenza ha bisogno di argomenti per reggersi e non esaurirsi in tautologia, sicché la invito a riflettere, se mi consente, sul fatto che la storia umana è mera articolazione di evidenze granitiche sbriciolate da sempre diversi modi di percepire sempre gli stessi fatti. Dirà che sono un “relativista” e, anche se non mi piace il termine, posso convenire, ma mi dica cosa regge veramente al vaglio intellettualmente onesto degli “assoluti”: sono sempre e solo ombre di volontà e di rappresentazione. Ora, se mi permette un esempio che mi eviterà di confonderla con paroloni, la inviterei a considerare che l’idea che abbiamo del mondo fisico (così come ci appare con l’uso di strumenti ingenui come la cosiddetta “evidenza oggettiva”) non regge – non regge già da più di mezzo secolo – a fronte di ciò che ci ha dimostrato la fisica delle particelle. Il tempo, per esempio, che pure è quanto pare offrirci di sé la più solida “evidenza oggettiva”, non è quello che pensavano Platone, Tommaso o Bergson. Allo stesso modo, l’“evidenza logica” del movimento di un grave nello spazio è fortemente messa in discussione per come ci è spiegata da Aristotele, da Galilei o da Newton. In realtà – mi scusi il bisticcio – la realtà non è così reale come sembra, sicché la solida materia è verosimilmente (più verosimilmente di quanto siamo abituati a saggiare con “evidenza oggettiva”) solo – mi consenta la licenza poetica – l’eco di una superstringa. Di fronte agli sconvolgimenti delle verità sul fondo delle quali sono andate a sedimentare i nostri cari vecchi luoghi comuni, abbiamo due sole scelte: farci prendere dal panico e aggrapparci cocciutamente alle convinzioni messe in pericolo, oppure cercare di capire, a costo di smuovere il sedimento sul fondo delle nostre certezze. In questo caso, dubiteremo di ciò che ci sembra “oggettivo”, per quanta fatica possa esserci richiesta; nell’altro, raccoglieremo l’invito a “Non dubitare” (Giuliano Ferrara, Edizioni Solfanelli 2005), e cioè a “sapere per credere e a credere per sapere”, nel cortocircuito di una tradizione.
Io le riconosco che è difficile concepire un embrione diversamente che come un bambino a venire, “vita umana” o “persona”. Già le sarebbe più facile facendo distinzione tra “cosa in potenza” e “cosa in atto”: è ciò che, per esempio, consente a Tommaso (ma non è l’unico tra i Dottori) di immaginare l’animazione del feto non già nel momento del concepimento, ma solo molto successivamente. Non era colpa sua: non aveva conoscenze embriologiche per retrodatare l’animazione all’insorgenza dello zigote, né per dover ammettere che non è possibile “persona” né “coscienza” (e allora che cos’è un essere umano o la vita umana?) prima di un dato stadio dello sviluppo del sistema nervoso centrale. Ma su “persona”, che lei opportunamente vuole evitare, e su “vita umana”, che – vedrà – non l’aiuta più di tanto nel togliersi d’imbarazzo, parleremo più avanti. Per il momento limitiamoci a leggere ciò che lei ha scritto e Il Foglio le ha pubblicato con un rilievo che avrebbe dovuto almeno insospettirla, visto che non è un ginecologo obiettore, né un prelato.
“Ogni volta che un gamete maschile incontra il gamete femminile, ed essi fondono i loro due nuclei, siamo in presenza di «qualcosa» individuata e differenziata dalla vita di chiunque altro: individuata perché riconoscibile, mensuralmente apprezzabile e dotata di un corredo genetico diverso da quello di ciascuno dei genitori. Con la fecondazione e l’unione dei corredi cromosomici dei nuclei dei gameti maschili e femminili si crea una cellula dotata di un corredo cromosomico completamente nuovo (duplicato nel caso dei gemelli monozigoti). Non è una parte o un’appendice del corpo della madre, la madre non può auto produrla. Quella cellula è un’altra cosa, geneticamente connotata in modo tale da non essere eguale a nessuna dei miliardi di miliardi di configurazioni genetiche verificatesi sino a quel momento, o da quel momento in poi. La si può riconoscere e individuare. È minuscola, è infinitesimamente piccola, ma è. Prima non c’era, dalla meiosi in poi c’è. Quella cellula c’è e si è formata per il concorso del padre e della madre, ma non è la madre né il padre. È se stessa, è lo zigote nel momento in cui la meiosi l’ha prodotto. In altri termini, quello è un essere umano in uno stadio del proprio sviluppo, uno stadio che non è cosa estranea al percorso di ogni esistenza, ma ne è parte imprescindibile e innegabile”.
Bene, consenta, oltre a quello della meiosi, lei qui fa un altro e ben più grave errore: riduce l’essere umano al suo patrimonio genetico, sovrapponendo l’unicità e l’irripetibilità del patrimonio genetico di uno zigote all’unicità e all’irripetibilità di un essere umano. Nemmeno si avvede che ha da poco affermato che nel caso dei gemelli omozigoti quel patrimonio è duplicato: in questo caso, allora, siamo di fronte ad uno o a due esseri umani? Io direi che sono due, ma con la sua “logica oggettiva”, che allega all’essere umano la necessaria e sufficiente unicità e irripetibilità del corredo cromosomico, i due gemelli omozigoti sono una sola persona, pardon, una sola vita umana. È questione che imbarazza anche chi, al contrario di lei, tira in ballo l’anima: giacché l’animazione avverrebbe nel momento della fusione dei due gameti, infatti, quando subentrerebbe l’anima del secondo embrione se l’ovocellula fecondata va incontro ai processi che daranno luogo a due gemelli? C’è sdoppiamento di anima come di polo embrionario? E nel caso di gravidanze anembrioniche (nelle quali si formano solo la placenta e gli annessi) o con degenerazione molare (come sopra, ma con abnorme sviluppo placentare, talvolta anche aggressivo fino alla trasformazione neoplastica) non siamo sempre di fronte ad un corredo cromosomico unico e irripetibile che è il risultato della fusione di due gameti? Dov’è, in casi come questi, l’“essere umano” o la “vita umana” o la “persona”? E tuttavia la precondizione c’era. Ma dell’essere umano (o come lo vuol chiamare) non c’è l’ombra. O dobbiamo riconoscere dignità di vita umana allo sviluppo di un corioncarcinoma? Forse sì, perché “non è una parte o un’appendice del corpo della madre, la madre non può autoprodurlo... si è formato per il concorso del padre e della madre, ma non è la madre né il padre”: in potenza era un neonato, in atto è un cancro.
Rinunciamo, dunque, a questo primo luogo comune: due gameti che si fondono in uno zigote non sono necessariamente una “vita umana”, perché possono esserne due o nessuna. Qui dovremmo trovarci di fronte a una vertigine, perché lei capirà bene, anche da musicologo o musicista, anche da idraulico o giardiniere, che tra 0 e 1, o tra 1 e 2, cambia tutto.
Ora lei prosegue dicendo: “Tutti noi abbiamo attraversato quello stadio (detto blastemico), e in quello stadio non eravamo qualcos’altro rispetto alla nostra identità: eravamo noi stessi, unici, individuati, attrezzati di un corredo genetico tale da portarci ad altri, successivi stadi di sviluppo. E anzi, tutti noi abbiamo preso a essere noi stessi (noi stessi e nessun altro) nel momento in cui la cellula diploide si è formata. Io, tu, tutti siamo stati uno zigote, così come siamo stati un feto, un neonato, un bimbo, un adolescente e così via. Prima di allora io, tu, tutti non esistevamo. Da quel momento, da quel processo biologico in poi è principiata la vita individuale”. Come vede, lei dà al suo errore uno sviluppo che solo apparentemente è logico, giacché “tutti noi” che siamo giunti a poter dire “tutti noi” abbiamo attraversato “quello stadio” e tuttavia in “quello stadio” non eravamo altro che un “noi in potenza”: diventati “noi in atto” ci è permesso guardare indietro e retroproiettare il nostro “essere umano” in quella blastocisti, ma non è possibile compiere l’operazione inversa, tranne che nella negativa della retroproiezione che è il processo poetico (dar voce agli Ungeborene, che è voce nostra). Qui si tratta, in buona evidenza, della riproduzione di un processo riproduttivo: ricreazione, trasfigurazione, evocazione fantasmatica. Ma noi vogliamo parlare degli esseri umani, nevvero?
Se sì, bisogna segnalare un altro errore, stessa scaturigine: “Il fatto che ci siano esseri umani che possano scegliere che la vita individuale di altri, in qualsiasi momento del proprio sviluppo dal primo all’ultimo, venga soppressa, contraddice la pretesa di universalità cui aspira l’imperativo categorico kantiano”. Non c’è – non ci può essere – equipollenza (né biologica, né giuridica) tra due entità che sono su diversi piani (biologico e giuridico). Lei cita Kant: “Agisci in modo che tu possa volere che la massima della tua azione divenga universale”, e chiede: “Come può divenire universale la massima di un’azione quale il decidere, in luogo di altri, se la vita degli altri sia da sopprimere o da conservare?”. Le sembrerà una domanda gravida di cogenza, ma solo per l’ambiguità del termine “altri”: nel caso dell’embrione parliamo di un “altro” che ancora non è, se mai sarà, e dunque è sì un “altro”, ma “altro che soggetto”.
Qui lei, però, pone una questione seria, anche se mi pare che la sprechi. Lei chiede: “Perché mai dovrebbe esistere una gerarchia negli stadi di sviluppo della vita individuale?”, e si intrattiene sul limite (che le sembra arbitrario, e dunque irragionevole alla luce della “logica oggettiva”) tra 90° e 91° giorno dal concepimento. Anche qui, consenta, lei si lascia sviare da un luogo comune: che il continuum dello sviluppo embrionario e fetale non consenta di stabilire confini tra un prima e un dopo (per esempio, un prima e un dopo la migrazione delle cellule dalle creste neurali o un prima e un dopo l’ossificazione della clavicola): non sarà un limite puntuale, ma solo col paradosso della tartaruga e di Achille si può considerarlo inesistente. E dunque dovremo riconoscere un prima e un dopo – una gerarchia – negli stadi di sviluppo della vita individuale, anche per ciò che attiene agli organi e apparati che consentono la funzione, ancorché larvale, della coscienza: avremo, cioè, prima, uno stadio nel quale non possiamo neppure ipotizzare qualcosa di simile alla coscienza e, dopo, sì. Tutto questo, naturalmente, se si esclude che “anima”, “coscienza” e similari non siano entità di natura trascendente ma espressioni epifenomeniche di processi biologici, resi possibili solo da un sistema nervoso oltre un certo stadio di sviluppo.
“Se l’embrione può essere soppresso e il neonato no – lei dice – è perché, temo, interviene l’affettività, l’elemento soggettivo”. Non solo, dico io. Quell’elemento soggettivo può essere presente anche in relazione all’embrione ed è ciò che lo renderà un neonato voluto, ma diventa oggettivo – affettività o meno – con lo sviluppo degli strumenti neuronali che lo portano allo stadio, ancorché larvale, della coscienza. Ma qui forse dovrò chiarire il senso del termine “larvale”, e mi servirò del suo etimo: c’è uno stadio in cui l’insetto è per lo meno larva, e ce n’è uno antecedente in cui non lo è. Anche nel suo sviluppo c’è un continuum e tuttavia ci sono elementi che consentono di definire stadi di sviluppo. Anche quando impercettibili, la natura procede a salti. Oppure c’è continuità pure tra meiosi ed essere umano, e allora lei non ha commesso alcun errore: se non c’è salto nella fecondazione, noi siamo già – divisi, ma che importa? – nell’ovaio di nostra madre e nel testicolo di nostro padre. Anzi, lo siamo addirittura prima della meiosi, quando insieme a due emigemelli siamo nello spermatogonio e dell’ovogonio, cellule che non hanno 23, ma 46 cromosomi. In fondo, non c’è evidenza “forte, realista, autoritativa e veritativa” che senza quelle gonadi io non sarei qui? Prima ancora della copula, dunque. Insomma, voglio dire che, a portare alle estreme conseguenze logiche le sue candide affermazioni piene di buon senso, si può arrivare all’assurdo. Al contrario, rinunciandoci...
II.
Gentile dottor Castaldi,
replico brevemente per non tediare lei e i suoi lettori. Nella sua risposta, come già nei precedenti interventi, lei fa ricorso a quanto io cerco di evitare: il giudizio soggettivo. Lei qualifica di “candore”, “temino”, “luoghi comuni”, “occasione sprecata” e così via il mio pensiero. Ne ha tutto il diritto, ma così facendo sposta la discussione su un altro terreno. A mia volta io potrei qualificare con altrettanti giudizi soggettivi la sua prosa e il suo pensiero: non lo faccio non solo per un punto di stile (letterario e non), ma perché la forza delle argomentazioni razionali viene così inficiata da elementi estranei.
Quanto alle argomentazioni razionali: lei non tocca il mio sillogismo ma sposta il sistema di riferimento e non accetta la premessa. Il sistema di riferimento era da me indicato chiaramente nell’etica e nella giurisprudenza kantiana; la premessa era la discontinuità biologica tra lo zigote e quel che lo precede. Il salto contenuto nella fecondazione, come dice lei. Il salto da zero a uno, come dice lei. Io, da un punto di vista materialistico, mi ancoro al fatto biologico che quel salto produce un essere apprezzabile e misurabile, che prima non c’era (lo zigote). Lei no: lei dice che questo è un “luogo comune” e introduce categorie come la formazione successiva degli stati di coscienza, parla di “un certo stadio di sviluppo” senza fissarne uno che sia valido per tutti (la legge 194 lo fa, misurando le cose col cronometro: ma arrivo anche a questo). È chiaro che se lei parte da una premessa diversa non attaccherà mai il sillogismo: né risponderà alle mie domande così come le ho formulate. Ma soprattutto lei introduce elementi di relativismo culturale quando io le ho chiesto di smentirmi partendo da un punto di riferimento preciso: l’etica kantiana. Per capirci, dobbiamo scegliere l’idioma in cui esprimerci. Io le ho chiesto “do you speak Kant?” e lei ha scosso il capo.
Come ho esplicitamente scritto sul Foglio, e come lei, fra tante altre cose, non ha riportato, a me interessava non tanto di schierarmi pro o contro l’aborto (questo è un altro discorso), ma di illustrare che se accettiamo la Critica della ragion pratica come punto di riferimento di un’etica e di una giurisprudenza universale, dobbiamo riconoscere che la legge 194 collide contro tale etica e tale giurisprudenza. Tutto qua. E infatti torno a chiederle: in tutta onestà intellettuale, lei pensa che una legge per la quale lo stesso essere umano può essere abortito il mercoledì, e non più abortito il sabato successivo, sia una legge che garantisce l’eguaglianza dei diritti? Sì o no? E ancora: lei pensa che il mercoledì quello non fosse un essere umano (e dunque lo si potesse sopprimere) e invece il sabato successivo sì)? Sì o no? Mi fermo qui, per non tediare lei e i suoi lettori. Questo blog è casa sua, ed è giusto che lei abbia l’ultima parola: ho fin troppo abusato della sua ospitalità.
Aggiungo una sola cosa: lasci perdere il discorso sull’essere subdolamente usato, sul candore e sull’ingenuità, sul venire docilmente prestato e così via. Non solo perché questo è un modo di sorridere e dare la pacca sulla spalla che mi ricorda, come stile, quello del presidente del consiglio: ma soprattutto perché la realtà non è mai così semplice, così univoca, così addomesticabile. Può essere, a propria volta, ingenuo, pensare che la scelta del dove e del come sia ingenua. A me basta una cosa: di aver offerto una sollecitazione sul tema dell’aborto a partire da un punto di vista non religioso, ma razionale. “Cercare di capire, a costo di smuovere il sedimento sul fondo delle nostre certezze”: su questo ci troviamo perfettamente d’accordo, e questo vale per me, ma anche per lei.
Francesco Maria Colombo
Gentile dottor Colombo,
evito ogni considerazione soggettiva, così evito di inficiare. Tuttavia mi pare di aver argomentato a sufficienza sul perché il suo intervento su Il Foglio sia un album di luoghi comuni, cominciando col chiarire cosa sia un luogo comune. Lo ripeto: è una verità – solo una delle possibili verità – che si dichiara oggettiva e autoevidente, definitiva e indiscutibile, in forza di argomenti che l’hanno resa tale per un certo lasso di tempo, ma che possono essere sbriciolati dalla ragione che non esita a saggiarne la consistenza. Di tale fragile consistenza è la sua verità, quella che proclama l’insorgenza di un individuo nel momento del concepimento, trovandolo già tutto dell’unicità e nella irripetibilità del suo corredo cromosomico. Le ho già spiegato per quali motivi non è logico immaginare in tale entità un soggetto, né il salto da 0 a 1 serve a dimostrare che quell’1 sia soggetto. In quanto a Kant e a ciò che lei ne prende per costruire la premessa della provocatoria domanda che di fatto contesta la legittimità di aborto dal concepimento in poi, la mia risposta è semplice e onestamente pensavo di averla già data, ma gliela ripeto qui senza troppa cura nello stile: del quando e del come in un embrione della specie umana vengono a strutturarsi gli elementi organici che consentono la funzione della coscienza, senza la quale è eticamente e giuridicamente impossibile parlare di persona, individuo o quello che lei desidera, Kant – poverino – non poteva saperne un cazzo. Come Democrito non poteva sapere che l’atomo è tomizzabilissimo, e tuttavia – per luogo comune – continuiamo a chiamarlo “a-tomo”. Kant e Democrito ci rimangono utili, ma sono inservibili se pretendiamo di prenderli – letteralmente – alla lettera. Così per il primo e il secondo imperativo categorico nella Critica della ragion pratica, dove Kant peraltro non si lascia andare a superficiali equazioni del tipo “embrione d’uomo = uomo”. E dunque sì, “I speak Kant”, mi limito a scuotere la testa sull’uso che lei fa di quella lingua.
In quanto alla questione che le sta tanto a cuore – quella dei limiti temporali posti dalle legislazioni che autorizzano la donna all’interruzione della gravidanza – mi sembrava di averle dato una risposta, ma Giovanni Fontana, in uno dei commenti a questo post, gliene dà una ancora più esplicita della mia, che sottoscrivo, ringraziandolo per la puntualità e la grazia dell’argomento.
Per finire: la mia accusa di essersi prestato alla propaganda clericofascista de Il Foglio, pur affrontando la questione dell’aborto “da un punto di vista non religioso, ma razionale”. Le ripeto qui, pubblicamente, ciò che le ho già detto nel carteggio privato che ha fatto da corrimano a queste Corrispondenze, e non penso con ciò di violare alcuna intimità se non la mia. Dico che non fa alcuna differenza che lei sia credente o no, che lei usi Kant o il Catechismo: per sottrarre alla donna il potere di una gravidanza libera e responsabile, tutto e tutti tornano utili a Il Foglio, e lei vi si è prestato. Le ripeto: non mi importa con quanta consapevolezza, ma ai più ostinati nemici della legge 194 lei ha offerto i suoi luoghi comuni, anche abbastanza appassionatamente. Questo non merita certo che un gruppetto di femministe arrabbiate le rovini tutte le prossime direzioni d’orchestra, ma due righe di biasimo – ho ritenuto e non mi pento – sì.
III.
Sehr geehrte Herr Castaldi,
ho seguito con l’attenzione che meritava il suo scambio con il Colombo. Vorrei aggiungere, alla dovizia di ottimi argomenti da lei prodotta, un rilievo sul merito dei riferimenti kantiani addotti dal suo antagonista: per dirla in maniera spiccia, il nostro di Kant ne capisce assai meno che di meiosi. I principi della ragion pratica non hanno, per Kant, alcun valore conoscitivo: in altre parole, tutto il daffare che il Regiomontano si è dato per dimostrare la possibilità delle sintesi a priori nella prima Critica, e dunque per dare una fondazione solida alla scienza, nella seconda conta poco, e solo in via negativa. L’idea di Kant è che per trovare una misura all’agire non ci si possa affidare all’esperienza, dato che le urgenze morali non possono trovare appagamento né giustificazione nell’ambito dell’empiria.
Tutto ciò conduce alle famose idee regolative della ragione, e di lì ai principi trascendentali della ragion pratica, che non dicono nulla sul mondo così come è, né sulle relazioni che vi hanno luogo, ma che silimitano a stabilire delle regole formali a priori. Il famoso primo principio, o imperativo categorico, pertanto non dice nulla su come sia composta l’universalità di soggetti da cui si auspica che la propria massima venga adottata, proprio perché non è compito della ragion pratica arrivare a questi risultati. In altre parole, quello di agire come se la mia massima dovesse avere validità universale è un criterio formale con cui analizzare la validità delle singole massime, ossia delle proposizioni generali a cui ricondurre le mie scelte pratiche. Non si tratta, insomma, di un principio euristico che permette di individuare ciò che è giusto o sbagliato né, tanto meno, di una bozza di dichiarazione dei diritti umani: significa solo dire, in modo elegante e con il massimo rigore logico, che le azioni per essere dette giuste devono poterlo esserlo per tutti e in ogni momento, ossia che ogni soggetto morale, seguendo la stessa massima, è posto su un piano di totale uguaglianza con tuttigli altri.
Kant, che non era scemo, si rendeva perfettamente conto del fatto che la prima formulazione dell’imperativo categorico, quello che tutti si ricordano perché era una risposta facile alle interrogazioni a scuola (“Agisci inmodo che tu possa volere che la massima della tua azione divenga universale”, per citarla correttamente), era troppo generica per avere delle implicazioni pratiche. Di conseguenza, aveva riformulato l’imperativo in altri due modi, attraverso una serie di deduzioni: “Agisci in modo da trattare l'uomo, così in te come negli altri, sempre anche come fine e non mai solo come mezzo” e “Agisci in modo che la tua volontà possa istituire una legislazione universale”. Se la terza formulazione è importante perché definisce un criterio di razionalizzazione della volontà, qui ci dovrebbe interessare soprattutto la seconda, dato che è l’unica dotata di un contenuto positivo, riferito al concetto morale di uomo. Trattandosi per l’appunto di concetto morale, esso non si contiene asserzioni sulla realtà, ma si rifà, guarda caso, proprio alla nozione di persona, che si definisce come imputabilità, ossia riferita a una causalità della volontà e dunque non solo a quella naturale.
Francamente, non vedo proprio come si possa arrivare da qui allo zigote. L’errore di Colombo, oltre a quello di assolutizzare la posizione di Kant senza porsi il problema di analizzarla, è pertanto quello di mescolare i piani: si inventa, chissà come, che dall’imperativo categorico dovrebbe derivare un qualche asserzione sulla realtà, che deve invece seguire, sempre secondo Kant, i criteri della ragione pura teoretica. In altre parole, Colombo commette il solito svarione della metafisica, che consiste nel tenere su un unico piano tutte le possibili istanze della razionalità, dall’ontologia ai problemi della conoscenza, dalla logica all’etica: una catena ininterrotta e coerente, il cui primo anello è sempre l’essere come sostanza e la sua coincidenza con la verità. Si tratta di una tradizione estremamente ricca, che in parte continua ancora oggi: a mio parere, gran parte dell’epistemologia contemporanea è ancora intrisa di metafisica, così come lo è la convinzione delle scienze fisiche di occuparsi della realtà tout court, ma questo discorso ci porterebbe fin troppo lontani. Il punto è che il buon Colombo avrebbe dovuto fare un po’ più di attenzione, perché anche sui banchi di scuola si dovrebbe imparare che la principale direttrice del pensiero di Kant passa proprio per la messa in crisi di questo modello, e che i suoi strologamenti sullo zigote sono messi fuori circuito, una volta per tutte, proprio dai suoi sesquipedali riferimenti kantiani.
Nane Cantatore
sabato 20 agosto 2011
L’estremo rifugio nel mistero
La sacrosanta protesta degli indignados, il bacio collettivo dei chicos, i cartelli di denuncia delle vittime degli abusi sessuali commessi da preti cattolici ai danni di minori nelle diocesi di Valencia e di Segovia-Castellón, le presenze anche stavolta assai inferiori a quelle registrate dalle GMG ai tempi Giovanni Paolo II – tutta roba che si può far finta di non vedere. Poi arriva un bambino su una sedia a rotelle, malato di cancro, e in apparenza sembra voglia solo vedere Benedetto XVI da vicino, toccarlo, farsi fare una carezza. E invece gli mette in mano un bigliettino sul quale ha scritto: “Santo Padre, se Dio è buono e onnipotente, perché permette che malattie come la mia colpiscano persone innocenti? Se non mi risponde, mi darà una grande delusione perché sono anni che mi pongo questa domanda”. Ed ecco che ci sarebbe davvero da sprofondare sotto terra, improvvisamente nudo della grande menzogna di cui si è sommo sacerdote. Anche qui, però, si può far finta di non vedere, di non sentire, si può eludere la questione riponendola nel mistero, l’estremo rifugio di una faccia di culo vecchia di due millenni.
Sappiamo già cosa risponderà Zia Pina, dirà più o meno ciò che disse alla bambina giapponese che in aprile gli chiese del perché Dio avesse permesso la morte di tanti bambini come lei sotto un’onda alta dieci metri: “Anche a me vengono le stesse domande… E non abbiamo le risposte… E rimane la tristezza… E un giorno capiremo…”. E per dare una risposta del genere, che poi, al netto degli orpelli teologici, è proprio quella cristiana e cattolica al perché del male – per rispondere “non so, però un bel dì ci sembrerà tutto bello, buono e giusto” – c’è bisogno di essere visitati dallo Spirito Santo? Sulle sofferenze degli innocenti costruire la mostruosità di un Dio che se ne nutre? Ma tienitelo per te un Dio così, non puoi essere meno mostruoso di lui. Se pure esistesse – ma non esiste – varrebbe la pena di sputargli in faccia e andarsene contenti all’inferno. D’intanto porgi la guancia e prendi questo sputo per lui.
Si consoli con la musica
Cominciamo col dire che “oogenesi” era corretto e cambiarlo in “ovogenesi” non era necessario. Poi diciamo che la risposta elude il problema da me posto, riducendolo a questione “grammaticale”. E questo è disonesto, perché io chiedevo, in ordine: (a) ma ’sto cazzo di musicologo che si diletta di embriologia sa di cosa parla se confonde la meiosi con la fecondazione? (b) suppongo che leggiate quello che mandate in pagina: devo dedurre che un errore ripetuto tre volte vi sia scappato tre volte o che anche voi ignoravate il significato di meiosi? (c) la mia lettera è stata spedita alle 7,47 di giovedì 18 e su Il Foglio di venerdì 19 non c’era ancora alcuna rettifica dell’errore, né da parte vostra, né da parte di qualche lettore, anzi, la rubrica delle lettere aveva come titolo “Note sul formidabile manifesto anti aborto di F. M. Colombo”: a me pare formidabile soltanto il fatto che nessuno tra i 7-8 redattori e i 7-8.000 lettori de Il Foglio abbiano notato lo strafalcione. (Qui ho una mezza idea: quando Il Foglio e i foglianti si danno alla liturgia antiabortista, perdono il lumicino dell’intelletto. Come ai patiti della messa in latino si può tranquillamente rifilare un brano di Cicerone, così a chi vorrebbe abrogare la legge 194 si può tranquillamente rifilare uno “zigote nel momento in cui la meiosi l’ha prodotto”.)
Poi ci sarebbe da parlare del “manifesto”, che in realtà, come ho già scritto sul mio blog (glielo consiglio: senza godere di finanziamento pubblico, ha più lettori del suo giornale), è il solito temino scritto col sentimento, zeppo dei luoghi comuni cari ai nemici della legge 194, nel quale lo strafalcione sulla meiosi si incastona a meraviglia. Lei ne spreme il succo scrivendo che, “quando un maschio e una femmina si accoppiano, il risultato è un bambino, anzi, quel bambino”, e che “l’insorgere della persona è il frutto di una copula”. Bene, questo le sembrerà espressione di “un pensiero forte, realista, autoritativo e veritativo”, ma in realtà si tratta di affermazioni rozze e superficiali, che non fondano alcuna verità. Infatti, quando un maschio e una femmina si accoppiano non sempre il risultato è un bambino: anche quando avviene la fecondazione, il risultato è assai spesso un aborto spontaneo. Dire, quindi, “quel bambino” è una retroproiezione. Tutto questo, ovviamente, se parliamo del maschio e della femmina della specie umana, sennò, “quando un maschio e una femmina si accoppiano”, il risultato può essere anche un bacarozzo.
Altrettanto rozzo e superficiale, dunque, è affermare che “l’insorgere della persona è il frutto di una copula”: tra copula e persona ci sono di mezzo molti passaggi, né sufficienti, né necessari. Qualunque definizione si possa dare di “persona”, infatti, non si dà nel frutto di una copula che generi un essere inadeguato ad assumerla, come è nel caso di un feto anencefalo o di una mola vescicolare, che pure hanno una identità nuova e distintada qualunque altra. In realtà (questa sì vera realtà, di là da interpretazioni retroproiettive), si ha persona solo se (e quando) il prodotto della fecondazione arriva a raggiungere un grado di sviluppo tale da renderla possibile. Prima di tale grado non si ha bambino, se non nelle aspettative, ma un feto. E fuori da tali aspettative un feto è un feto, non è ancora persona. Potrebbe non diventarlo mai. Può dispiacere, ma è così. Si consoli con la musica.
La presente replica non le sarà inviata, perché anche in questa occasione lei dimostra palesemente di non essere in grado di sostenere uno scambio di opinioni: elude le questioni sollevate e si rifugia in sciatti luoghi comuni che pretende siano considerati tabernacoli di verità. E in fondo questo spiega perché sul suo giornale vadano in pagina stratosferiche cazzate come quelle di Francesco Maria Colombo sulla meiosi, se solo soddisfino il requisito di foderare i luoghi comuni contro l’aborto di soffici sentimentalismi.
La presente replica non le sarà inviata, perché anche in questa occasione lei dimostra palesemente di non essere in grado di sostenere uno scambio di opinioni: elude le questioni sollevate e si rifugia in sciatti luoghi comuni che pretende siano considerati tabernacoli di verità. E in fondo questo spiega perché sul suo giornale vadano in pagina stratosferiche cazzate come quelle di Francesco Maria Colombo sulla meiosi, se solo soddisfino il requisito di foderare i luoghi comuni contro l’aborto di soffici sentimentalismi.
venerdì 19 agosto 2011
giovedì 18 agosto 2011
La domanda malvagia
Come fare cassa? Tagliare gli sperperi, innanzitutto. Il 15 luglio scrivevo: “Una voce mai neppure presa in considerazione è quella che fa dell’Italia il maggiore finanziatore di una confessione religiosa: tra contributi diretti e sgravi fiscali, il Vaticano costa ogni anno all’Italia circa 4 miliardi di euro”. Ma subito aggiungevo: “Questo onere è da considerare un salasso inevitabile, visto che la Casta ecclesiastica è ancor più intoccabile di quella della classe politica” (“Il paese è grato al parlamento” - Malvino, 15.7.2011).
Un mese dopo, mostrando un’ingenuità che non ci si aspetterebbe da commentatori tanto acuti, Massimo Gramellini, Beppe Severgnini e Filippo Facci hanno fatto l’errore di sollevare il problema. O forse l’avranno fatto solo per saggiare l’intoccabilità della Casta ecclesiastica. Se è così, la prova ha dato esito positivo, perché la loro voce è caduta nel vuoto, come se rivedere i privilegi di cui gode la Chiesa in Italia fosse un’idea indecente, tutt’al più provocatoria, buona solo a costruire un brillante corsivo. A destra, al centro e a sinistra non s’è sentita voce di un solo uomo politico che ritenesse degna d’attenzione la questione sollevata dai tre, e le stesse gerarchie ecclesiastiche hanno pensato bene di non darvi troppo peso, per lasciar scivolare la cosa nella generale indifferenza. Quando scrivevo di un “salasso inevitabile”, mi riferivo proprio a questo: alla impossibilità del metterlo in discussione.
A onor del vero, tuttavia, bisogna segnalare un cenno di fastidio, pigro e strafottente, da parte del giornale della Cei, che con un editoriale di Umberto Folena liquida l’idea di un taglio dei mostruosi privilegi dei quali godono le gerarchie ecclesiastiche nel nostro paese come “lo schizzo cattivo di un laicismo che intende eliminare ogni presenza sociale e pubblica della Chiesa” (Avvenire, 18.8.2011).
Siamo alle solite. A trattare la Chiesa come una qualsiasi realtà sociale, la si uccide, o almeno così la si sente lamentare. In quanto al merito: “Fa caldo, non vogliamo dare ai nostri lettori ulteriori motivi per sbuffare. L’abbiamo scritto e riscritto fin troppe volte, dati alla mano contrapposti a vaghe stime senza fonte” . I dati alla mano sarebbero quelli offerti dallo stesso Umberto Folena in un libercolo di 80 pagine (La vera questua), scritto in risposta a La questua di Curzio Maltese, nel quale, come oggi e come sempre, non si dà vera risposta alla domanda: perché la Chiesa non deve pagare le tasse che pagano tutti gli altri? Semplicemente si elude la domanda, liquidandola come malvagia.
mercoledì 17 agosto 2011
“È contro i nostri principi”
Quando lo stato vuole ficcare un sondino in gola a chi non vuole, piazzare un prete a sentinella di uteri ed ovaie, schierare motovedette in mare a difesa della razza, Marcello Pera non si sente o, se si sente, è per spiegarci che la vita è indisponibile, che l’ovocellula fecondata è persona e che il meticciato insidia l’occidente. Quando però “lo stato vuole mettere le mani nelle nostre tasche”, ecco che si sveglia il liberale e grida al tradimento: “È contro i nostri principi”, sottinteso: “principi liberali” (Libero, 17.8.2011). Sarà che arriva alla Facoltà di Filosofia dall’Istituto di Ragioneria, via banca e camera di commercio, sicché il liberalismo gli è venuto guercio.
Francesco Maria Colombo, musicologo
“Con la fecondazione e l’unione dei corredi cromosomici dei nuclei dei gameti maschili e femminili – scrive Francesco Maria Colombo, musicologo – si crea una cellula dotata di un corredo cromosomico completamente nuovo”, e questo è giusto. Poi aggiunge: “Prima non c’era, dalla meiosi in poi c’è”, e questa è una cazzata stratosferica, perché la meiosi non è il processo che porta alla formazione dello zigote, ma a quella dei gameti, cioè di ovocellule e spermatozoi. Non è una svista, perché si insiste: “Con la meiosi avviene un reset del corredo genetico e si genera un’identità nuova, distinta da qualunque altra”. E a fugare ogni dubbio sul fatto che il musicologo abbia le idee confuse sull’argomento, si arriva al punto in cui troviamo “lo zigote nel momento in cui la meiosi l’ha prodotto”. È come se un biologo affermasse che una semibiscroma ha un valore pari a 64 semibrevi.
Siamo sulla prima pagina de Il Foglio, che sull’embrione, dopo aver dato voce ai preti, adesso la dà ai critici musicali, poi probabilmente sarà la volta dei patiti di filatelia, degli arrotini o dei maestri di ikebana. Quello di Francesco Maria Colombo è presentato come un manifesto, ma in realtà è il solito temino scritto col sentimento, zeppo dei luoghi comuni cari ai nemici della legge 194, nel quale lo strafalcione sulla meiosi si incastona a meraviglia.
“Io, tu, tutti siamo stati uno zigote… Tutti noi abbiamo attraversato lo stadio blastemico… Tutti noi siamo stati, a un certo punto della nostra storia, un essere umano che poteva impunemente essere ucciso…”. E se non bastasse il repertorio delle strazianti suggestioni letterarie del narcisismo squisitamente retroproiettivo, che fonda la persona dove non ce ne sono i requisiti, ecco l’immancabile foto dei simpatici freak che “io, tu, tutti” potevamo essere, eugenetica permettendo: “due donne palesemente minorate e malformate”, by Diane Arbus.
Cose così, alla Ferrara. Quando vuole distrarci dai suoi imbarazzi, ci parla di aborto.
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