venerdì 16 settembre 2011

In gioco è il valore della vita umana


In Argentina, l’aborto è dichiarato “delito contra la vida” ed è punito con la “prisión de tres a diez años”, tranne che in due casi: se praticato “con el fin de evitar un peligro para la vida o la salud de la madre y si este peligro no puede ser evitado por otros medios” e se la gravidanza è frutto “de una violación o de un atentado al pudor cometido sobre una mujer idiota o demente” (Código Penal, art. 85).
Si capisce perché in Argentina vengano praticati ogni anno più di 500.000 aborti clandestini. Si capisce perché siano morte oltre 3.000 donne, quasi tutte appartenenti ai ceti meno abbienti, da quando è in vigore questa severissima normativa. Non si capisce, invece, perché l’Argentina sia il paese sudamericano col più basso indice di crescita demografica, pur avendo adottato il criterio legislativo che gli antiabortisti di casa nostra ritengono sia la più efficace ricetta per combattere la crisi di natalità che affliggerebbe il nostro paese, arrivando a chiedere l’abrogazione della legge 194/1978 come espediente anticrisi.

Avranno una legge stronza, gli argentini, ma non sono poi così cretini. Non tutti, almeno. E infatti il 27 settembre è convocata la Commissione della Legislazione Penale dei Deputati per affrontare la questione. All’ordine del giorno non è la liberalizzazione dell’aborto, ma solo la modifica dei parametri restrittivi all’autorizzazione di interrompere una gravidanza. Chi volete sia entrato subito in agitazione?
“Ribadiamo la nostra convinzione circa il valore della vita umana, dal momento del suo concepimento fino alla morte naturale. Quando una donna rimane incinta, non si parla più di una vita ma di due, quella della madre e quella di suo figlio o di sua figlia: devono essere preservate e rispettate entrambe” (Commissione Permanente della Conferenza Episcopale Argentina, 14.9.2011).
Tutto rimanga com’è: mezzo milioni di aborti ogni anno, con una media di 100 donne che muoiono per emorragia o sepsi che potrebbero ben essere evitate se l’interruzione di gravidanza fosse praticata in condizioni decenti. In gioco è il valore della vita umana, è questione non negoziabile. 

[...]


Le lodi che in queste ore piovono addosso a Manuela Arcuri sono francamente eccessive, quasi a voler sottolineare l’eccezionalità della sua retta condotta morale. Eccezionale perché a parità di condizioni il suo no sarebbe stato difficile per qualsiasi altra donna o perché da lei ci si sarebbe aspettato un sì? Tutte queste lodi, insomma, o sono il risarcimento per aver nutrito su di lei un pregiudizio, rivelatosi ingiusto, o sono l’implicito riconoscimento che al suo posto, per chiunque altra, sarebbe stato assai conveniente dire sì?

La “reale volontà” del legislatore


Chi in Italia è ostile al matrimonio tra persone dello stesso sesso si appella alla legge divina e/o a quella naturale e/o alla Costituzione. Il fatto è che la legge divina contempla il matrimonio come sacramento, sicché quello celebrato con rito civile sarebbe solo una blasfema parodia del matrimonio vero, che è quello celebrato con rito religioso: invocare la sola legge divina per negare a due persone dello stesso sesso il diritto di sposarsi porterebbe a doverlo negare anche a un maschio e a una femmina che si uniscano in matrimonio con rito civile.
Si tentò di farlo, almeno fino a metà degli anni Cinquanta, ma non ci si riuscì. E allora, ferma restando la norma che “tra i battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale che non sia per ciò stesso sacramento” (Catechismo, 1055) e che “sono validi soltanto i matrimoni che si contraggono alla presenza dell’Ordinario del luogo o del parroco o del sacerdote oppure diacono delegato da uno di essi che sono assistenti” (ibidem, 1108), si preferì chiudere un occhio, smettendo di chiamare “pubblici peccatori” i coniugi che non si fossero sposati in chiesa.
Per il matrimonio celebrato con rito civile non si usò più la definizione di “concubinaggio” e, per continuare ad avere il controllo su un istituto che si andava sempre più secolarizzando, si cominciò ad invocare la legge naturale, come estensione di quella divina. Anche quando un ministro di Dio non era chiamato a fare da notaio per la stipula del contratto, e dunque il matrimonio non aveva carattere sacramentale, qualcosa di sacro gli era conferito dalla legge naturale, che si riteneva dovesse (e ancora si ritiene debba) ispirare il legislatore.
 Tutto era destinato a reggere fino a quando la “natura” avesse mantenuto il suo statuto di dimensione pre-storica e pre-culturale, ma anche questo non durò a lungo. Si fece strada l’idea che per “naturale” si dovesse intendere il modello che storia e cultura ne avevano elaborato nel corso delle epoche e, così, molto di quanto si era pensato fosse “secondo natura” divenne intollerabile. Era già accaduto con la schiavitù, considerata per millenni “secondo natura”, e poi, quasi all’improvviso, presa ad essere considerata “contro natura”. Molto ancora doveva seguire la stessa sorte, e molto ancora dovrà seguirla, quasi a voler dimostrare, anche a chi non voglia accettarlo e si ostini a opporre resistenza, che nulla è più storico e culturale del concetto di “natura”.

Se la legge naturale è stato un espediente in fin dei conti inefficace a conservare la sostanza della legge divina, tanto più disperato appare il tentativo di conservare la sostanza pre-storica e pre-culturale della “natura” appellandosi alla nostra Costituzione, come d’altra parte vediamo fare da molti conservatori, almeno quando sono presi dal pudore di appellarsi a Dio o alla Natura (rigorosamente con la maiuscola) per negare a due persone dello stesso sesso il diritto di sposarsi.
Si argomenta che l’ostacolo sarebbe posto dalla sacralità dell’art. 29, che recita: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. In realtà non si capisce dove sarebbe posto l’ostacolo, ma i conservatori ritengono che non si faccia fatica a rintracciarlo nella “reale volontà del legislatore”. Visto che non fece espresso divieto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso, quale “reale volontà” dobbiamo pensare fosse, la sua? Non tracciò discrimine sessuale tra i coniugi perché si lasciasse ammissibile il matrimonio omosessuale o, più verosimilmente, perché in quel tempo nel nostro paese non si poneva neanche lontanamente un caso politico e civile di tal genere? Qualche giovanarduzzo afferma che non ci siano dubbi: “La seconda ipotesi è certamente la più probabile e, se così è (ed è così), allora basta: il matrimonio omosessuale è anticostituzionale”. In pratica, giacché in quel tempo nel nostro paese non si poneva neanche lontanamente un caso politico e civile di tal genere, il non averlo posto farebbe prova che, a porlo, il parere sarebbe stato negativo.
Qui, in buona sostanza, siamo alla degenerazione ultima del principio di conservazione: Dio non basta più a negare il diritto di sposarsi a due persone dello stesso sesso; la Natura fa sempre più fatica; rimarrebbe la Costituzione, che però non nega quel diritto troppo esplicitamente; e allora cosa opporre? La “reale volontà” del legislatore, desunta con questa geniale deduzione: se i Padri costituenti non si sono trovati davanti al problema, il problema non aveva ragione di essere posto, ergo non si pone; chi lo pone, se lo pone, lo fa contro la Costituzione. Più geniale dell’idea di un Dio che manda all’inferno i ricchioni, perché ricchioni.
 

Ritratto di artista con carrello

Ancora sulla «verità»


Di recente ho scritto che “ogni definizione di «verità» è una tautologia” e che dunque il termine rimanda a se stesso senza dimostrazione ultima di ciò che sarebbe «vero». Ho scritto anche che spesso la definizione di «verità» rimanda a quella di «realtà», che però a sua volta rimanda invariabilmente a ciò che è «vero», perché ciò che è «reale» pretenderebbe uno statuto di autonomia dal sensibile, sicché la tautologia prende forma di un cortocircuito, ma continua a restare vuota di un significato.
Rimarcando tale autonomia del «reale» dal sensibile, un lettore ha obiettato che “la «realtà» esiste indipendentemente dal soggetto che la conosce, e in questo caso quindi può dirsi sinonimo di «verità»”: in pratica, ha fatto cortocircuito. Però ha detto anche che per «realtà» può intendersi anche “la punta dell’iceberg della «verità», o il suo prodotto finale”, sicché “la «verità» [sarebbe] un processo che va conosciuto e compreso, mentre la «realtà» [sarebbe] un fatto che si manifesta nel presente”.
Avrei voluto far presente che la «manifestazione» di una cosa non è la cosa stessa, ma ho evitato di farlo, nel timore di essere frainteso usando l’espressione «la cosa stessa», che mi puzzava troppo di metafisico, ma senza avere lì per lì a disposizione un termine che non corresse il rischio di dare a «reale» la valenza di «vero», correndo perciò il rischio di fare cortocircuito anch’io. Bene, un’intervista a Leonard Susskind, sull’ultimo numero di Le Scienze (517/2011, pagg. 56-59), mi consente di chiarire perché ritengo che «la cosa stessa» sia cosa ben diversa dalla sua «manifestazione», senza con ciò doverle riconoscere lo statuto di cosa «vera», cioè di un possibile “prodotto finale” (definitivo) di un “processo” cognitivo. Con Rudolf Carnap ritengo che in questo ambito si possano fondare assunti solo su pseudoproposizioni metafisiche.
“La realtà ci rimarrà sempre incomprensibile”, sostiene Susskind, e aggiunge: “Siamo prigionieri della nostra architettura neurale”. Non è un atto di resa della ragione, anzi, Susskind ritiene che si può e si deve ancora spingerla fino i suoi limiti, ma che appunto questi limiti esistono e si possono oltrepassare solo creando modelli di «realtà» destinati sempre a rivelarsi inadeguati. Come affermavo riguardo alla «verità», ogni sua ricerca si risolve sempre in una fuga nel metafisico.
Susskind dice: “Continuiamo a inventare nuovi realismi [rappresentazioni della realtà], che non soppiantano del tutto le vecchie idee, ma le sostituiscono in gran parte con modelli che funzionano meglio, descrivono meglio la natura, e che sono spesso molto strani, spingendo le persone a chiedersi che cosa significhi la parola «realtà»”. Questo accade perché nulla come la «realtà» sembra indiscutibile al senso comune, ma “poi arriva il paradigma successivo che fa piazza pulita del precedente, e ogni volta ci stupiamo che i nostri vecchi modi di pensare, le teorie che usavamo, i modelli che avevamo creato, ora, sembrino sbagliati. […] Secondo me – conclude – dovremmo sbarazzarci della parola «realtà». Discutiamo senza impiegare la parola «realtà», è solo un ostacolo, trascina con sé cose che non servono a niente”. A maggior ragione dovremmo sbarazzarci della parola «verità».

  

giovedì 15 settembre 2011

Per la precisione


Confesso che di shibari sapevo poco o niente, ma adesso qualcosina sì e, ferme restando le osservazioni che ho già espresso sul caso Mulè (qui), vorrei rilevare che la tecnica non prevede l’impiego di corde strette attorno al collo. Si trattava di bondage, dunque, e includente la tecnica del cosiddetto breath control, ma parlare di shibari mi pare improprio, almeno nel caso di specie.

mercoledì 14 settembre 2011

L’imputabilità c’è



È difficile che si arrivi a una condanna, impossibile che i condannati arrivino ad espiarla, e tuttavia è evidente che Joseph Ratzinger, William Levada, Angelo Sodano e Tarcisio Bertone siano imputabili del reato di crimine contro l’umanità, anche se quasi certamente il Tribunale Penale Internazionale non arriverà a formalizzare l’accusa, ma per ragioni di mera opportunità.

Prima di analizzare gli elementi che rendono imputabili i quattro, bisogna precisare che la loro responsabilità è posta all’attenzione dei giudici in relazione ai ruoli di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (Ratzinger e Levada) e di Segretario di Stato (Sodano e Bertone), e dunque non è corretto dire che si voglia processare il Papa: la condotta di Ratzinger è in questione solo in relazione alla carica rivestita fino all’elezione al Soglio Pontificio (1981-2005). In discussione, infatti, è l’impunità che i titolari della Congregazione per la Dottrina della Fede e della Segreteria di Stato hanno garantito a numerosissimi esponenti del clero cattolico che si erano resi responsabili di abusi sessuali a danno di minori loro affidati, dall’anno in cui ai vescovi fu imposto l’obbligo dell’assoluto silenzio su questi delitti (Instructio de modo procedendi in causis de crimine sollicitationis, 1962).
In tal senso, c’è un’unica ragione perché l’accusa non sia rivolta pure ad Alfredo Ottaviani e a Franjo Šeper (Prefetti della Congregazione per la Dottrina della Fede rispettivamente dal 1959 al 1968 e dal 1968 al 1981), né ai predecessori di Sodano alla Segreteria di Stato, e cioè ad Amleto Giovanni Cicognani (1961-1969), Jean-Marie Villot (1969-1979) e ad Agostino Casaroli (1979-1990): sono morti. C’è però da precisare, in sede storica, che le responsabilità coprono un arco di tempo assai maggiore, perché la Instructio del 1962 era solo una riedizione di analogo decreto licenziato nel 1929, sul quale però non è possibile dir nulla, giacché non è mai stato reso pubblico. Della stessa Instructio del 1962, peraltro, si è saputo solo quarant’anni dopo e lì se n’è compresa la ragione, perché s’è visto che recava in frontespizio la seguente raccomandazione: “Servanda diligentiter in archivio secreto curiae pro norma interna non pubblicanda nec ullius commentariis agenda”.
 Con la scoperta della Instructio del 1962 si è capito come i preti pedofili potessero godere della massima libertà d’azione, grazie alla copertura dei loro crimini assicurata da norme severissime: “Nel trattare queste cause la cosa che deve essere maggiormente curata e rispettata è che esse devono avere corso segretissimo e che siano sotto il vincolo del silenzio perpetuo una volta che si siano chiuse e mandate in esecuzione; inviolabilmente, tutti e ciascuno, a qualsiasi titolo si appartenga al tribunale o se a conoscenza dei fatti per incarichi relativi a queste cause, sono tenuti ad osservare quello strettissimo segreto che è comunemente definito segreto del Santo Uffizio, sotto pena di incorrere nella scomunica latae sententiae, immediatamente e senza altra dichiarazione”.
Appena la notizia di un abuso sessuale commesso da un prete ai danni di un minore arrivava al responsabile della diocesi, una coltre di omertà veniva stesa sui fatti perché non fosse in alcun modo intercettata dalla giustizia civile: si poteva contravvenire, certo, ma si usciva dalla grazia di Dio.

Almeno a quanto è dato sapere dopo aver ricostruito la carriera di molti preti pedofili, la giustizia ecclesiastica era mitissima, limitando per lo più la condanna al trasferimento dei colpevoli in un’altra diocesi. In pratica, li si autorizzava a reiterare i loro crimini, protetti da una rete che assicurava loro, insieme all’impunità, un facile approvvigionamento di nuove vittime.
Si è sempre reputato saggio affidare la cura di casi tanto delicati alla Congregazione per la Dottrina della Fede, tradizionalmente assai meglio armata nell’opera di controllo delle coscienze. La motivazione è sempre stata di quelle che svelano la natura più profonda della Chiesa: nell’abusare sessualmente di un minore, il prete pecca innanzitutto contro un sacramento, quello dell’ordinazione, e nel rivelare pubblicamente i crimini commessi da un suo pari, com’è nel caso in cui si rivolga alla giustizia civile per segnalarli, pecca contro un altro sacramento, quello della confessione. La vittima? Sì, nessuno nega sia in questione, poverina, ma la priorità sta nella difesa dei sacramenti. All’ex Sant’Uffizio, dunque, la cura delle norme che ne assicurino la tutela, e alla Segreteria di Stato, per il tramite delle Conferenze episcopali locali, la sorveglianza sui casi critici che possano farla venir meno. Un meccanismo efficace, lungamente collaudato, destinato a funzionare per chissà quanto tempo, soprattutto perché ignoto alle vittime e ai loro genitori, quasi sempre fervidi credenti, prima e, nonostante tutto, perché no, anche dopo l’abuso. La consegna del silenzio dietro minaccia di scomunica, l’allontanamento del pedofilo in una diocesi lontana, due caritatevoli carezze al piccino, un pugno di soldi ai familiari, e i sacramenti sono al sicuro. Tutto può durare in eterno, basta saper tenere segreto il meccanismo.
E infatti tutto fila liscio fino a quando la De crimine sollicitationis del 1962 rimane chiusa a chiave nel cassetto del vescovo e nessuno ne sa niente. Poi, la rete comincia a sfilacciarsi. Le vittime degli abusi sessuali cominciano a parlare e una lettera inviata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede ai Vescovi di tutta la Chiesa Cattolica e agli altri ordinari e membri della gerarchia ecclesiastica, che reca la firma del cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto, e che è del maggio 2001, rivela l’esistenza dell’Instructio del 1962, che ritocca in qualche punto, ribadendo: “Ogniqualvolta  un ordinario o un membro della gerarchia ecclesiastica abbia una notizia almeno verosimile riguardo a un delitto riservato, dopo avere in precedenza compiuto una investigazione, segnali questa notizia  alla Congregazione per la Dottrina della Fede che, qualora non avochi a sé la causa per circostanze concomitanti particolari, ordina che l’ordinario o il membro o della gerarchia ecclesiastica vada avanti attraverso il proprio tribunale trasmettendo le opportune norme”, le solite. La più significativa: “Casi del genere sono soggetti al segreto pontificio”.
 È per questo riaffermare il principio che un prete cattolico debba essere sottratto alla giustizia civile che tra il 2004 e il 2005 la Corte Distrettuale del Texas dà avvio alla procedura di incriminazione del cardinal Ratzinger per obstruction of justice. L’elezione al Soglio Pontificio e l’acquisizione della carica di capo di stato estero gli procurano la suggestion of immunity e l’indagato non dovrà mai più rispondere del capo di imputazione che stava per essere formulato a suo carico: l’aver dato direttive generali al fine di coprire i responsabili di centinaia di abusi sessuali e, in particolare, di non aver dato seguito alle reiterate segnalazioni che gli giungevano da vescovi statutinensi (ma poi si è visto che era accaduto anche per casi analoghi in Germania), se non per ribadire, infastidito, la consegna al silenzio. 

[segue] 

martedì 13 settembre 2011

La schifezza


La piena unanimità di giudizio è cosa più unica che rara in campo artistico, ma sulla statua di Giovanni Paolo II alla Stazione Termini di Roma, pur nella varietà di accenti, si è raggiunta: anche se c’è chi ha eufemisticamente zufolato che peccasse di una “scarsa riconoscibilità” (Sandro Barbagallo, per L’Osservatore Romano), chi ha ellitticamente rilevato che “il bozzetto era molto diverso” (il cardinal Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura), e perfino chi all’ellissi ha preferito la spirale, limitandosi a dire che “le Autorità Vaticane e il Ministero dei Beni Culturali hanno seguito questa cosa passo passo e c’era un consenso obiettivo” (Gianni Alemanno, sindaco di Roma), tutti hanno espresso, più o meno esplicitamente, lo stesso parere: una schifezza.
Ora, a quattro mesi dall’inaugurazione, apprendiamo da Avvenire che proprio quanti sono a vario titolo responsabili della schifezza fanno fatica a prenderne atto:



Nessuno si aspettava che Oliviero Rainaldi si impiccasse per la vergogna, ma chi si aspettava che si offrisse per il rifacimento di un’opera già firmata ed esposta? Nessuno si aspettava che il Comune decidesse di rimuovere la statua sostituendola con un’altra, ma chi si aspettava che avesse tanta faccia tosta di annunciarne il rifacimento come “completamento? Nessuno si aspettava che le gerarchie ecclesiastiche facessero pubblica richiesta di una riparazione a quello sfregio, ma chi si aspettava che dopo averne avuto garanzia facessero sfoggio di sufficienza dichiarando che la schifezza è addirittura meta di pellegrinaggi? Manca solo il tocco finale. Una targa recante la parafrasi: “Se mi sbagliate, mi rifacerete”
  

“E noi il senso tradizionale lo dobbiamo rispettare”


Sabrina Ferilli vorrebbe tanto adottare un bimbo, ma le leggi italiane non glielo consentono perché non è sposata, e allora affida il suo amaro sfogo ad Alfonso Signorini: “Io mi domando se sia giusto non poter adottare come genitore singolo, visto poi che oggi un bambino che nasce all’interno di un matrimonio ha gli stessi diritti di un bambino che nasce fuori dal matrimonio” (Chi, 14.9.2011).
Occorre rammentare alla signora – anzi, signorina – che la legge che le vieta di coronare il suo sogno è stata scritta per garantire all’adottato di crescere in una famiglia così come intesa nel senso tradizionale, “e noi il senso tradizionale lo dobbiamo rispettare, perché invertire delle tendenze che sopratutto son cose giuste, quindi si appoggiano su fondamenti e principi giusti, non è mai positivo”. Il virgolettato è suo, da una puntata di Chiambretti Night del gennaio 2010, e dunque – col dovuto rispetto – non rompesse il cazzo.

Qui pro quo


C’è da promuovere il nuovo album, bisogna concedersi alla stampa, offrire a ciascuno la faccia che torni più simpatica. Ecco, è qui che dev’essersi creato il qui pro quo, perché Luca Carboni offre al giornale dei vescovi il mea culpa di un ribelle che s’era illuso di poter cambiare il mondo: “Ci sentivamo illuminati, pensavamo di aver capito tante cose, ma abbiamo portato avanti quegli stessi schemi che avevamo rifiutato” (Avvenire, 13.9.2011); e ai fascistoidi che comprano il giornale di Feltri e Belpietro offre il ritratto di uno che trova “certezze e speranze nella fede”, per il quale “i valori principali sono quelli del cristianesimo”, che però sente trascurati, lamentando addirittura una preoccupante “mancanza di preti” (Libero, 13.9.2011).
Si tratta di due interviste che probabilmente sono state concesse nella stessa giornata, a poca distanza l’una dall’altra, e l’artista deve aver fatto un po’ di confusione con le istruzioni avute dal suo agente. Insomma, il disgraziato scambio è evidente. D’altra parte – tutti sanno – “si piega tutto, tutto, dalle spalle alle antenne della tv” (Solarium, 1985).

lunedì 12 settembre 2011

Fatti in tempi certi

“Mi è venuta la curiosità – scrive nonunacosaseriadi sbirciare sul sito web della Lega Nord per vedere quante delle proposte programmatiche avanzate nel 2008 sono state poi messe in atto [e] ho scoperto – conclude – che le uniche richieste accolte dal governo Berlusconi sono la tassazione delle rimesse degli immigrati irregolari e l’apertura, in una villa brianzola, di qualche stanza travestita da ufficio ministeriale decentrato”. Vorrei aggiungere: non è tutto.
Sono passati tre mesi dal raduno di Pontida che pose a Berlusconi il terribile ultimatum riprodotto qui sotto. A tutt’ora, non uno dei “fatti in tempi certiha visto realizzazione e il fiero popolo padano fa finta di niente, tutt’al più mugugna.   

 
   

“Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale…”


Incidente nella centrale nucleare di Marcoule, che sta in Francia, ma a 257 km da Torino e a 342 km da Genova. Fortunati i francesi, perché non c’è stata fuga di materiale radiattivo. Per i torinesi e i genovesi, invece, comunque non sarebbe stato un problema: hanno per tempo votato contro il nucleare.

Non era neanche giapponese


La vicenda di cui è protagonista l’ingegner Soter Mulè ci dà conferma di quanto già sapevamo: abbiamo magistrati e giornalisti tra i più cretini al mondo.
Accusato in un primo momento di omicidio volontario, come se l’intenzione di uccidere sia implicita nella pratica del bondage su un soggetto pure non consenziente, sul Mulè ora pesa l’ipotesi di omicidio preterintenzionale, perché la vittima – si è accertato – era consenziente. Saremmo dinanzi a una morte, dunque, avvenuta in conseguenza di percosse o lesioni personali? Niente affatto. Isolato da altre pratiche che qui paiono essere di fatto escluse dalla dinamica degli eventi che hanno portato alla morte di Paola Caputo, il bondage non provoca lesioni, né danni equivalenti a quelli riportati da percosse, che invece, nell’ipotesi di omicidio preterintenzionale, dovrebbero costituire il necessario fine doloso dell’“azione minore”, la quale, superando l’intenzione del reo, verrebbe così a produrre l’evento fatale. Ma qui, in tutta evidenza, quest’“azione minore” non era affatto contemplata dal “programma” concordato dal Mulè e dalla Caputo, né è stata posta in essere in violazione del patto.
È evidente che siamo di fronte a un mero incidente, ma è pure evidente che l’ipotesi di omicidio colposo dev’essere sembrata troppo mite, comunque inefficace a sanzionare sul piano morale una pratica che il magistrato fa fatica a ritenere legittima tra soggetti adulti e consenzienti. Delle due, una: saldo nel senso comune che è padre di ogni pregiudizio, il magistrato ritiene intrinsecamente violenta e dunque potenzialmente pericolosa la pratica del bondage, a dispetto di ogni piana evidenza; sennò – e allora sarebbe ancora peggio, perché non si tratterebbe solo di ignoranza – egli si sente in dovere, attraverso l’azione della pubblica accusa, di farsi latore di un pregiudizio espresso dal senso comune, che peraltro non è riuscito neanche a informare a sufficienza la lettera della legge affinché il Mulè sia poi effettivamente imputabile di lesioni o percosse.
C’è da aspettarsi che l’accusa di omicidio preterintenzionale venga formulata in ogni caso in cui un soggetto muoia di infarto miocardico o di ictus cerebrale durante un rapporto sessuale, anche di quelli che il senso comune non sottoporrebbe ad alcuna censura morale per le modalità con le quali viene espletato: si tratta di attività potenzialmente a rischio, sempre, anche da slegati. Se non dolo, ci sarebbe sempre da ipotizzare una colpa di là dalla più mite finalità di scoparsi – eventualmente – a sangue. 

Analoghe considerazioni sono inevitabili per la gran parte dei giornalisti che si sono fiondati sulla vicenda con la morbosa voracità che i benpensanti si sentono autorizzati a esercitare sul privato di coloro che ritengono devianti. Il peggio ce lo ha offerto il Corriere della Sera. Così, Ester Palma pensa di poter ricavare un profilo “tutt’altro che rassicurante” dal più banale e anodino dei manifesti parafiliaci postato dal Mulè sulla sua pagina di Facebook, come se l’atmosfera che avvolge una parafilia sia penetrabile da altri che chi voglia condividerla.
Non da meno Fabrizio Peronaci, che in un’intervista via chat con una cultrice di Shibari si esibisce in domande del tipo: “A tua figlia trasmetteresti le stesse idee?”. È evidente che per il nostro la questione sia ideologica, non di gusto, e allora chissà quale ideologia ci sarà mai dietro il suo voyerismo, e chissà chi gliel’ha inculcata: mamma o papà?
Il peggio del peggio, invece, ce lo offre Paolo di Stefano: “Neanche la dignità di un luogo dotato di un minimo alone evocativo: non dico un castello, un palazzo nobiliare, un covento, un boudoir o un carcere, come se ne trovano nelle pagine del Marchese de Sade, ma almeno un appartamento, una villetta di periferia… No, no, un vano caldaia in via Settebagni, tra tubature, manopole, idrometri, idranti e cavi…”. E qui il Mulè non ha scampo: passi per il bondage, ma almeno praticarlo in un ambiente che soddisfacesse limmaginario del giornalista. E poi, diciamocelo, la Caputo non era neanche giapponese...



Aggiornamento “Il gip ha derubricato l’ipotesi di reato da omicidio preterintenzionale a omicidio colposo” (la Repubblica, 12.9.2011). Ritiro le osservazioni sui magistrati.



[si consiglia: La posizione del liberale (senza corda) di Luca Massaro] 
 

“Nulla sarà più come prima”



Ok, dietro l’attentato alle Twin Towers non c’è stato alcun complotto, solo chi ha il cervello bacato dal verme paranoico può azzardarsi a congetturarne uno. E tuttavia, dieci anni dopo, possiamo dirlo: le colpe dell’amministrazione Bush nel sottovalutare i segni che annunciavano l’attentato hanno ingolosito il verme, gli errori commessi nel dare una risposta a quell’attacco lo hanno ingrassato.
C’era bisogno di due guerre da 3.000 miliardi di dollari per sconfiggere al Qaida? Non abbiamo il beneficio della controprova, sappiamo solo che anche questo ha dato avvio alla fine del primato politico ed economico degli Stati Uniti d’America: se Osama bin Laden aveva questo fine, ha trovato in Bush un eccezionale aiuto. Solo un ex alcolizzato rinato in Cristo poteva raccogliere la sfida di un ubriaco di Allah sul campo dello scontro di civiltà, e così è stato: per combattere la barbarie ci siamo imbarbariti un po’ anche noi, per far fronte al delirio di un califfato teocratico abbiamo messo in discussione le nostre liberaldemocrazie, alla disperazione di frustrati che si erano emarginati dalle sorti di progresso e di emancipazione che il mondo faticosamente cercava fra le sue perenni contraddizioni abbiamo opposto la disperazione delle nostre più logore isterie.
Quando dicevamo: “Nulla sarà più come prima”, più o meno consapevolmente facevamo professione di impotenza. Ora, dieci anni dopo, ci resta solo la consolazione di questa smisurata macchina retorica che mette mano a scrivere la storia dell’11 settembre, e guai a chi osa dire che quei morti sono stati traditi, vendicati in malo modo, svendendo libertà in cambio di una sicurezza che comunque non abbiamo trovato.
 

sabato 10 settembre 2011

Persona


Appunti per una storia del berlusconismo come malattia sociale / 1



Dopo i fasti mietuti grazie a Erminio Macario, Carlo Dapporto, Gino Bramieri e Walter Chiari, la barzelletta divenne di colpo impresentabile sul grande palcoscenico, e allora scese in platea. Accadde intorno ai primi anni ’70, quando il tema che meglio si adattava ai suoi schemi – la differenza tra maschio e femmina, tra ricco e povero, tra bianco e nero, e per ogni altra antinomia fin lì accettata come “naturale” – divenne questione “politicamente” sensibile. Fu per questo che, scesa dal palcoscenico, la barzelletta andò a prosperare negli ambienti culturalmente più retrivi, funzionando quasi sempre da valvola di sfogo delle più incoercibili pulsioni reazionarie, pubblicamente biasimate.
Quando queste ebbero modo di potersi rappresentare come liberatoria risposta alla “dittatura” del “politicamente corretto”, la barzelletta risalì sul palcoscenico (La sai l’ultima? – Canale 5, 1992), ma ormai non era più la stessa. Aveva perso ogni leggerezza, era diventata grassa e aggressiva, ostentamente provocatoria, come se non mirasse più soltanto a far ridere, ma anche a mettere in discussione ciò che l’aveva emarginata. Non è un caso che sia riapparsa in tv, e una tv commerciale, quando si ritenne, e a ragione, che i telespettatori fossero pronti a riaccoglierla così com’era diventata.
 

venerdì 9 settembre 2011

Te credo!


 


Una vignetta di Altan sull’ultimo numero de l’Espresso (37/LVII, pag. 15) mi sollecita ad una riflessione che vorrei sottrarre ad ogni pregiudizio. Provvidenzialmente mi soccorre Maranatha, rinomata ditta di arredi liturgici, della quale il giornale dei vescovi pubblica oggi una réclame a pag. 16 (Avvenire, 9.9.2011). So di contravvenire alla regola di non ospitare pubblicità su questo blog, ma si tratta di una eccezione che non ha alcun fine di lucro, e da subito, per evitare che il rifiuto possa sembrare scostumatezza, faccio presente che non accetterò neanche un euro dal titolare della Maranatha, neanche se insistesse.
Ma veniamo alla questione sollevata da Altan. Davvero il guardaroba di un pastore è poi così costoso? A quanto può ammontare il costo dello stretto necessario per non degradare la figura di un apostolo di Cristo a un poveraccio? Calcolando camici, casule, stole, pianete e tutto il resto, e in numero adeguato a coprire le esigenze imposte dal calendario liturgico, a quanto può arrivare la spesa perché i simboli siano soddisfatti?
Inutile dire che dipende da una innumerevole serie di fattori, sicché la spesa complessiva potrà essere assai variabile. Non a caso sarà bene prendere nota del listino prezzi della pregiata ditta del signor Rosario Sollazzo, che mi pare offrire ottima merce a prezzi relativamente bassi, comunque assai onesti.



Delizioso camice in lino ricamato a mano...... € 1.650
Elegante dalmatica con ricami di fattura superiore....... € 1.926
Piviale dalla linea sobria e nel contempo assai raffinata..... € 2.250


Casule: da sinistra a destra, un modello dal drop morbido (€ 740),
uno per occasioni speciali, ma ottimo anche per party e cocktail (€ 1.850),
e uno dalla linea più severa, particolarmente consigliato per le messe indoor (€ 1.390) 


Stole: a sinistra, modello dal disegno semplice, concepito per
benedizioni a portatori di handicap, disoccupati e affini (€ 345);
a destra, prezioso capo ricamato a mano, ottimo per la celebrazione
di sponsali di consiglieri regionali, capomandamenti, ecc. (contattare per il prezzo)


Pianete: a sinistra, modello consigliato per offici in stadi e spianate (€ 2.346);
a destra, capo indispensabile per le messe in latino (€ 7.461)

All’essenziale, ovviamente, manca ancora qualcosina, sennò il pastore è come fosse nudo, e non sia mai.

 

A sinistra, pastorale per vescovi estroversi (€ 1.050);
a destra, modello sfiziosissimo, in argento lavorato a mano
 (contattare in privato per il prezzo) 


Mitrie: da sinistra a destra, modello per vescovi pre-conciliaristi (€ 533),
per vescovi post-conciliaristi (€ 556), per vescovi un po e un po (€ 880)


Pettorali: siamo su un terreno delicatissimo
(tutti pezzi senza indicazione di prezzo)


A sinistra: parasole che è un vero amore, per processioni estive;
a destra: sfarzoso anello raffigurante tre allegri suonatori di putipù
(come sopra, contattare per sapere il prezzo, ché metterlo on line farebbe scandalo)

Possiamo considerare al completo il guardaroba base, calcolando per ciascun capo almeno una mezza dozzina di esemplari di foggia diversa? Non proprio, perché fin qui abbiamo preso in considerazione solo quelli indossati in sede liturgica: sono quelli abitualmente inclusi alla voce “sostentamento del clero”.
Possiamo riandare alla vignetta di Altan e chiederci quanto pregiudizio dobbiamo sottrarle. 

«Non rianimatemi»



Farsi tatuare in petto «Non rianimatemi» è un modo di fare testamento biologico che di fatto scavalca ogni comitato bioetico: anche se muto, il paziente parla al medico con la sua viva voce, attraverso un gesto ponderato, preordinato, irrevocato.
Naturalmente il medico potrà ignorare la volontà del paziente. Potrà accadere in forza di una legge che lo obblighi a ignorarla, e quasi sempre si tratterà di una legge scritta dal suo Dio, che certamente non è il Dio di quel paziente, sennò si tratterà di una legge scritta da uomini che negano un diritto dell’individuo, quello della sovranità sul proprio corpo e sulla propria mente, che certamente il paziente dichiara inalienabile. Superfluo dire che il medico agirà contro la sua volontà, che però qui è scritta nella sua carne: sarà come imporre un trattamento terapeutico che viene rifiutato nel mentre viene imposto. Una violenza che si autocertifica come violenza nel suo compiersi.
   

giovedì 8 settembre 2011

Analogie



L’andamento della pressione fiscale che dobbiamo attenderci da questa manovra finanziaria (da lavoce.info, via phastidio.net - partic.) è curiosamente analogo alla curva di un orgasmo di Vincenzo Visco.
 

mercoledì 7 settembre 2011

L’orgoglio radicale


Stamane, chiudendo la sua consueta rassegna stampa su Radio Radicale, Massimo Bordin ha detto: “Infine, sulla pagina delle lettere de Il Foglio, c’è un’appuntita critica ad un articolo di Angiolo Bandinelli da parte di un lettore a proposito di alcuni giudizi di Bandinelli sull’arte, che è questione opinabile per eccellenza. Ma tutto questo deve riempire di orgoglio i radicali perché la replica di Giuliano Ferrara è: «Da un maestro indiscusso, accettiamo ogni cosa». E quindi non solo difende Bandinelli, ma lo definisce pure un maestro indiscusso”.
Duole deludere lui e i radicali, ma il maestro indiscusso al quale faceva riferimento Ferrara non è Bandinelli, ma l’autore dell’appuntita critica, Giulio Paolini, pittore e scultore di fama internazionale. In quanto all’appuntita critica, si trattava della correzione di ben 5 errori, tutti gravi, commessi da Bandinelli nella sua sciatta pagina sull’Arte Povera, pubblicata su Il Foglio di sabato 3 settembre: non si trattava di giudizi personali, che sull’arte sono sempre opinabili perché attinenti al gusto, ma di solari cazzate, palesi errori di documentazione storica e tecnica. Ferrara non poteva che prenderne atto, ma, non potendo dare pubblicamente del coglione a Bandinelli, ha preferito dare dell’indiscusso maestro a Paolini, in ossequio al principio di autorità che così gli consentiva di svicolare dalle questioni di merito sollevate in quella asciutta letterina.
Qui potremmo fermarci,  ma l’errore nel quale è incorso Bordin rivela un altro dato degno di interesse: l’orgoglio radicale, quel sentirsi sale della terra che promuove anche un cretino a superiore intelletto per il solo avere in tasca la tessera di un partito politico, che però sarebbe meglio definire setta. Non è il caso di intrattenerci troppo su questo, basterà solo rammentare a Bordin, se dovesse passare da queste parti, la differenza che cè tra un Paolini


e un Bandinelli
  


Così l’orgoglio radicale si dà una calmata.