lunedì 10 ottobre 2011

«Il termine blog è la contrazione di web-log...»

Al netto degli eccessi retorici, in qualche caso davvero insopportabili, la protesta che ha agitato la gran parte della nostra blogosfera ha preso di mira il punto del comma 29 del ddl intercettazioni in cui l’espressione «sito informatico» faceva aspecifica inclusione dei blog. Ricavo conferma di questa impressione dal corale sospiro di sollievo che si è levato alla notizia che il testo sarà quasi certamente emendato, mantenendo l’obbligo di rettifica per le sole testate giornalistiche on line.
Quanti volevano che fosse fatta questa distinzione contestavano il fatto che un blog fosse considerato «sito informatico»? Non penso, peraltro l’espressione è pacificamente accolta nella definizione di blog anche da Wikipedia: «In informatica, e più propriamente nel gergo di Internet, un blog è un sito web...». No, quasi sicuramente volevano che al blog fosse riconosciuto lo statuto di «particolare sito informatico». E quale particolarità volevano che fosse riconosciuta? [Qui, su Wikipedia, credo valga la pena di un breve inciso. È tra i «siti informatici» che hanno attivamente protestato, arrivando addirittura ad oscurare le sue pagine, ma non si capisce perché abbia sospeso la protesta, «tesa esclusivamente alla salvaguardia di un sapere libero e neutrale», visto che «le modifiche al ddl [che peraltro] verranno discusse solo a partire dal prossimo mercoledì 12 ottobre» risparmierebbero solo i blog.]
E, dunque, cos’è che fa di un blog un «sito informatico» diverso dagli altri, almeno per ciò che attiene all’obbligo di rettifica? In altri termini, perché non sarebbe giusto trattare un blog come un qualsiasi altro «sito informatico»? Anche qui converrà chiedere lumi a Wikipedia: «Il termine blog è la contrazione di web-log, ovvero “diario in rete”». E ancora: «L’autore (blogger) pubblica più o meno periodicamente, come in una sorta di diario online, i propri pensieri, opinioni, riflessioni, considerazioni ed altro».
Siamo ancora nel vago, ma ce n’è abbastanza per poter escludere dalla categoria dei blog tanti «siti informatici» che si dichiarano e generalmente vengono considerati tali, anche dalla pagina di Wikipedia, per quanto in più o meno palese contraddizione con la definizione data.  Un «nanopublishing» è un blog? Un «corporate blog», un «blogames» o un «M-blog» sono blog? Non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello il mettere in discussione la loro piena libertà di stare on line, ma sono blog? Le bacheche on line di personaggi pubblici (politici, uomini di spettacolo, giornalisti, ecc.) sono blog? A mio modesto avviso, no. Si tratta di «siti informatici» che fin troppo spesso non hanno neanche la buona grazia di fingersi “diario in rete”. Godranno dei benefici concessi ai blog, se vi saranno. E non mi pare affatto giusto.
Prendo i primi 250 nella classifica di BlogBabel. Se solo depenno le vetrinette di azienda, i civettini di trasmissione televisiva e i siti web di vario vippume, scendono a 89. Se depenno pure i blog collettivi, che non ho mai capito perché ci ostiniamo a considerare blog quando sono imprese redazionali, arrivo a 31. Gli altri 219 meritano una pari tutela giuridica? 
Il rischio di essere frainteso è altissimo e dunque voglio spiegarmi con due o tre esempi. Antonio Di Pietro non ha altro modo di essere attivo in rete se non con un blog? Ammesso e non concesso che a Gad Lerner non bastino L’Infedele, la Repubblica e Vanity Fair per dire tutto quello che ha da dire, e senta l’esigenza di far sentire la sua voce pure in rete, perché chiamare blog il suo «sito informatic? È Renato Brunetta che scrive i suoi post? Bah, sarà, ma io ci leggo lo stile di Vittorio Pezzuto, suo portavoce. Se fosse, il blog di Brunetta rimane un diario personale? Il Post è un blog o un webmagazine? Troppa confusione, troppi blogger che non riconosco come blogger.
Forse ha ragione Fabristol: «In rete non c’è più niente da leggere, in rete non c’è più niente da creare, in rete non c’è più niente da dire». È che la rete è diventata terra di saccheggio della tv e della carta stampata. Perfino Il Foglio, che sulla blogosfera sputa fin dal 2002, ha i suoi blog. La blogosfera è diventata sempre più simile al mondo dellinformazione del quale voleva farsi alternativa. Ha clonato le sue conventicole e le sue dinamiche, ne ha preso tutti i vizi, e anche qualche tic, per giunta fra i più ridicoli. La contaminazione tra web e tv, tra web e carta stampata, altrove è stata fertile. Qui, in Italia, no

venerdì 7 ottobre 2011

mercoledì 5 ottobre 2011

La Cassazione del Tg3

“Nel nostro ordinamento vige il principio del libero convincimento del giudice. Noi abbiamo ritenuto che tutte quelle prove – pur molto significative, importanti, ecc. – non ci convincessero”. Così dice Claudio Pratillo Hellmann, presidente della Corte d’Appello di Perugia, al microfono di Alvaro Fiorucci (Tg3, 5.10.2011). È il modo migliore per aprire il servizio, che per qualche istante – solo qualche istante – sembra prendere la piega giusta. Infatti Flavia Paone – è lei che firma il pezzo – chiosa: “Oltre ogni ragionevole dubbio: solo in questo caso si può condannare qualcuno nel nostro sistema giudiziario. E di dubbi, nel processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito, ne erano rimasti troppi. Lo spiega oggi il Presidente della Corte d’Appello di Perugia, che in quella camera di consiglio c’è stato per ore”. D’altra parte, a chi tocca stabilire se le prove che l’accusa porta a carico di un imputato di omicidio siano davvero convincenti? Ai parenti della vittima? A Bruno Vespa? A quanti si sono appassionati al caso? Decidiamo con un referendum? Potrà dar fastidio quando la sentenza non incontra il nostro pieno gradimento, ma forse sarà il caso di lasciare la decisione ai giudici.
Sembra che anche Flavia Paone convenga, ma subito si capisce che lo fa a malincuore. Poi il malincuore diventa franco malumore, incazzatura acida, e allora il suo servizio prende una brutta piega. Di insinuazione in insinuazione cerca di condurci alla convinzione che la sentenza di assoluzione sia stata ingiusta, anzi, sommamente ingiusta. E comincia col parlarci del povero Rudy Guede, “condannato per concorso in omicidio, ma in concorso con chi, a questo punto, non si capisce più”.
Se vogliamo assecondare Flavia Paone, dobbiamo chiederci perché Guede stia in galera e quei due no. Se vogliamo assecondarla, dobbiamo convenire che il concorso non possa esserci stato che con quei due, impossibile pensare ad altri complici, sarebbe una inutile perdita di tempo visto che ne abbiamo già due a disposizione, che per giunta hanno tutte le carte in regola per stare sul cazzo a Flavia Paone: se Guede è colpevole, dunque, devono esserlo anche Knox e Sollecito. E qui, volendo assecondarla, viene il sospetto che il processo d’appello ai due sia stato del tutto superfluo, visto che Guede era già stato condannato in secondo grado.
A Flavia Paone sfugge – o vuol farselo sfuggire o vuole che sfugga a chi le presta attenzione – che sulla presenza di Guede sulla scena del delitto non ci sono dubbi (egli stesso non l’ha mai smentita), mentre per Knox e Sollecito sono stati tanto seri da non consentire una condanna “oltre ogni ragionevole dubbio”. In pratica, il fatto che Guede stia in galera e che quei due siano liberi non è affatto un controsenso, né logico, né giudiziario. E tuttavia Flavia Paone ci invita a cercare un senso in quello che ci invita a considerare un controsenso: Rudy è povero, è nero, non è particolarmente carino, non aveva avvocati famosi a difenderlo, non aveva dalla sua la simpatia dei media, nessun potente perorava la sua causa; per Amanda e Raffaele, tutto il contrario.
Flavia Paone non può esserne sicura, ma pare esserne proprio convinta: “Forse sarebbe andata diversamente se anche lui [Rudy Guede] avesse goduto dei mezzi economici e del potere comunicativo degli altri due: facce telegeniche per accattivarsi il pubblico, lobbies innocentiste a far pressione mediatica e, soprattutto, avvocati di grido con parcelle da svariati zero, principi e principesse del foro capaci di far riscrivere la verità giudiziaria e far passare due fidanzatini per le vittime del nostro sistema”. Quasi certamente colpevoli, insomma, e allora ingiustamente assolti.
“Oltre ogni ragionevole dubbio”, si diceva, e si diceva del “principio del libero convincimento del giudice”. Cazzate, in quella camera di consiglio non deve aver avuto alcun peso il fatto che le prove a carico dei due fossero tutt’altro che certe, comunque non convincenti al punto da azzardarsi alla condanna di due innocenti. Quand’anche lo siano, sono colpevoli per aver usato tutti i mezzi a loro disposizione per non essere condannati. Il signore che era intervistato in apertura del servizio li assolti perché si è fatto infinocchiare (chi lo avrebbe mai detto, sembrava una persona così seria), ma per fortuna abbiamo il Tg3 che rimette le cose in ordine sotto il cielo: assolti dalla giustizia in forza dei loro mezzi economici? Proprio per quelli condannati da Flavia Paone, tiè! Certo, “nessuno può dire con certezza quanto questa calcolata e costosa riabilitazione dell’immagine di Amanda abbia influenzato la Corte d’Appello”, ma che importa? La Cassazione del Tg3 ha emesso la sua inappellabile sentenza. 

Una cover

Trovando piene di buon senso le sue ragioni, avevo promesso a un mio affezionato lettore di non interessarmi più di Mario Adinolfi: “Mi pare un personaggio sin troppo privo di autorevolezza, fascino, seguito e spessore per meritare attenzione – mi diceva Rocco Maggi – specie da parte sua”. Ho mantenuto la promessa e ho evitato di intrattenermi sulle sue trivialità omofobe su Facebook, sulla sua uscita da un partito in cui non ha mai contato più del sei di picche, sulla grama fine di The Week, ecc. Mio malgrado, però, devo tornare sul personaggio, anche stavolta per accontentare un mio lettore, altrettanto affezionato. Nicola Bergonzi, infatti, mi informa del “lieto fine” al quale è giunta l’ultima avventura del personaggio sulla quale mi sono intrattenuto, quella dell’aggressione da lui subita lo scorso 8 gennaio.
Occorre rammentare che Adinolfi aveva cercato di spacciare una banale lite per motivi di viabilità (cinque o sei ragazzini in motorino gli avevano dato del “ciccione” provocandogli lesioni guaribili in un quarto d’ora) come un vile agguato dai molto nascosti risvolti politici, per lui evidentissimi: “Sabato sera – aveva detto – Blob ha rimandato in onda la scena, tratta da Agorà su Raitre, in cui il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, si augura platealmente che io venga picchiato. Tre ore dopo è stato accontentato. […] Tutto questo credo ci costringa una riflessione sul punto a cui è arrivata la conflittualità nel paese, la tensione tra noi, rompendo gli argini della civile convivenza. Non siamo agli Stati Uniti, dove sui siti di destra si indicano gli obiettivi, poi arriva il ragazzino pazzo che spara in testa alla deputata. Ma siamo in un clima simile e se non ce ne rendiamo conto in tempo, poi sarà troppo tardi. È un impegno che prendo io per primo, con i segni in faccia di un’aggressione incomprensibile. O, forse, comprensibilissima”. Due o tre settimane prima, insomma, aveva avuto uno scazzo in tv con Alessandro Sallusti e ora insinuava che l’aggressione fosse maturata in seguito a quell’episodio: una vittima della violenza fascista, una specie di Matteotti, una roba che, a volerci credere, sarebbe stata degna della unanime commozione.
Di oggi è la nuova – naturalmente resa pubblica dallo stesso Adinolfi – che la querela è ritirata: “Quando è stato il momento di firmare alcune scartoffie, il ragazzo che con il suo branco di bulletti mi ha preso a cascate in faccia, ha impiegato due minuti buoni per ogni firma, vergata con la grafia di un bimbo della seconda elementare... E allora ho capito molto, mi si è stretto il cuore e ho rimesso la mia denuncia nei suoi confronti”. Che carino, che gran cuore. Una cover di Vasco Rossi, più o meno.

Nella peggiore delle ipotesi

Qui rispondo a quanti mi hanno scritto in questi ultimi giorni per chiedermi cosa farei nel caso in cui il decreto cosiddetto ammazzablog passasse senza emendamenti correttivi costringendomi a rettifiche su rettifiche. Credo di aver trovato una soluzione.
Pare che il responsabile del blog non sarebbe comunque tenuto a render conto di quanto i suoi lettori lasciano a commento dei suoi post. Bene, io sposterei il testo del post nella pagina dei commenti, limitandomi a mettere in pagina solo il titolo e una foto. Posterei il commento in forma anonima, sarebbe il primo della lista. Leggermi costerebbe al mio lettore due clic invece di uno.
Chiunque ritenga di essere stato diffamato da quanto è scritto in quel primo commento non avrà che da rivolgersi alla polizia postale, che avrà comunque modo di risalire a me. Se non fossi capace di dimostrare che quanto ho scritto non corrisponda al vero, ne risponderei ai sensi dell’art. 595 c.p., come ritengo giusto. Non mi sono mai sottratto al dovere di rendere conto di ciò che scrivo, ma finora non ho mai dovuto affrontare contenziosi giudiziari. Non escludo possa accadere, e in quel caso sono disposto a battermi. Ma pubblicare una rettifica che non ritengo legittima, mai. Meglio smettere di bloggare. 

Postilla Pare che non sia necessario.

martedì 4 ottobre 2011

Chiedete a Ovidio Marras

La sua vittoria stupisce chi non ha fiducia nella giustizia, non lui, che probabilmente non ha mai dubitato: “Se avevo ragione, per forza dovevo vincere, anche se quelli hanno tanti soldi” (Tg3, 4.10.2011). “Quelli” sono i padroni della Sitas (Gaetano Caltagirone, Luciano Benetton, Claudio Toti, il Monte dei Paschi di Siena), “lui” è Ovidio Marras, un agricoltore sardo di 82 anni: gli avevano costruito un mega albergo sulla stradina che porta a casa sua, e il giudice ne ha ordinato l’abbattimento.
Hanno usato la metafora di Davide e Golia, ma si sa che i giornalisti hanno scrittura necessariamente svelta, inevitabilmente poco meditata: tra Davide e Golia era la forza fisica a pesare sul pronostico, e usarla come metafora del peso del denaro in un contenzioso giudiziario equivale a dare per scontato che la sentenza sia il risultato di un duello tra avvocati, tutto muscolare. Ovidio Marras non ha voluto darlo per scontato, probabilmente avrà pensato che quello era un luogo comune che si conferma nell’accettarlo come verità.
“Avevo ragione, per forza dovevo vincere”: una fiducia nella giustizia che non ci dà risposte ma ci interroga. Chinare il capo dinanzi al più forte? Fidare nel Giudizio Universale? Soluzioni che hanno il fascino della tradizione, che è il luogo in cui l’individuo è debole e piccino: può solo consegnarsi mani e piedi a una Natura spietata coi deboli o a un Dio la cui giustizia non è di questo mondo. È vita? Dipende da chi la vive.
E, dunque, che resta a chi non tollera di aver ragione e di doversi rassegnare a perdere? Chiedete a Ovidio Marras.

Non chiedete a quelli di Nonciclopedia: erano sicuri che il loro fosse “umorismo di qualità”, ma hanno rinunciato a dimostrarlo a un giudice, e all’annuncio della querela dei legali di Vasco Rossi hanno perso la sicurezza, conservarla costava sacrificio, una roba seccante. Forse era meglio sottoporre a riflessione i concetti di “umorismo” e di “qualità”, ma prima della querela, meglio ancora se prima della pubblicazione di quella pagina. Ma questo implicava responsabilità, una roba ancora più seccante.
Non chiedetelo neppure a Vasco Rossi, del quale potremmo dire tutto ciò che era scritto su quella pagina, per poi scusarcene in caso di querela, certi che la ritirerebbe. No? E perché no? Sfoggeremmo tutto il nostro vittimismo, grideremmo che vogliono metterci il bavaglio, troveremmo senza dubbio il caldo e solidale abbraccio della rete, quel “drogato che a volte spaccia e a volte canta, utilizzando sempre le solite tre parole e le solite tre note” si cagherebbe addosso per lo tsunami e ci perdonerebbe, senza dubbio. Anzi, non perdiamo tempo: mi pento del virgolettato qui sopra, lo cancello, chiedo scusa se può essere sembrato diffamatorio e dichiaro solennemente che non avevo intenzione di offendere il cantante. (Tu, Gilioli, tieniti pronto a darmi una mano nel caso che questa rettifica non basti. Vorrai mica consegnarmi a Golia? Ti sto sul cazzo? Via, sii buono. Capriccioli, per piacere, raccomandami a Gilioli, diglielo tu quanto sono buono.)

Non chiedetelo neppure alle merde che ieri, alla sentenza della Corte d’Appello che ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito, hanno inscenato quella lugubre parodia di Cassazione: non chiedete a loro cosa resti a chi ha ragione e confida nel diritto per poter aver giustizia. La forza del denaro, la forza del numero, la legge del luogo comune che pretende di essere accettato in forza della verità che impone senza avere alcun bisogno di ragioni, tanto meno dimostrate: non sapranno consigliarvi di fidare in altro. Non perdete tempo, chiedete a Ovidio Marras.

Assolti per non aver commesso il fatto

Come bruciava il culo, ieri sera, a Bruno Vespa.

lunedì 3 ottobre 2011

S’io fossi il rabbino capo di Roma…

… prenderei un foglio di carta e scriverei:
 
“Grazie mille, Santità. Solo una domanda: quando scrive di «un mondo che ha tanto bisogno di autentici testimoni di verità», si riferisce alla «verità» di chi ritiene che Gesù sia Figlio di Dio, come dite voi cattolici, o a quella di chi ritiene che questa è una bestemmia, come diciamo noi ebrei?”

Poi, sì, vabbe’, ci si tornerebbe a guardare in cagnesco per due secoli o tre. Ma vuoi mettere il lodevole sforzo per fare chiarezza? 

Libertà di espressione e istinto di branco

Ho potuto leggerne solo la pagina dedicata a Vasco Rossi che in queste ore gira per il web in copia cache ma aggiornata solo fino a due anni fa, perché fino a ieri – non so quanto sia grave – ignoravo addirittura l’esistenza di Nonciclopedia, che ora dalla sua homepage annuncia la “sospensione del servizio” per uno “sciopero a tempo indeterminato”.
Era di quel genere, il “servizio”? L’ho chiesto ai due o tre amici che di solito consulto per tappare i buchi della mia grande ignoranza su quanto attiene al web, e la risposta è stata affermativa. Satira? Può darsi. A mio modesto avviso, tuttavia, la pagina dedicata a Vasco Rossi mi pare più insultante che sarcastica. Ma questo è un giudizio personale, il mio, e vale poco più di niente. Quello che i legali di Vasco Rossi hanno chiesto alla magistratura, invece, mi pare possa dirsi qualificato, soprattutto se si tiene conto del fatto che i tribunali sparsi lungo lo Stivale hanno mandato assolta la satira in tante occasioni, anche quando era particolarmente aggressiva.
In questo caso un magistrato ha sentenziato che sentenzierà se si trattava di diffamazione, e pare che sia stata proprio questa sentenza a convincere i responsabili di Nonciclopedia allo “sciopero a tempo indeterminato”. Vasco Rossi, infatti, precisa (non smentito): “Ho querelato Nonciclopedia, ma non ho chiesto la sua chiusura”. A torto o a ragione, si è sentito insultato e diffamato, e un giudice gli ha dato potrebbe dar ragione.  Può darsi che mi sfugga qualche dettaglio decisivo, e in tal caso chiedo scusa a chi mi sta leggendo, ma dove sarebbe l’“attacco alla libertà di espressione” che sta nel lamento di quanti un magistrato ha definito diffamatori, e che subito è stato rilanciato dalla créme della nostra blogosfera col grido d’allarme tanto abusato da essere diventato pressoché inutile?
Secondo il “migliore blog d’opinione” (fonte: Macchianera Blog Awards 2011), “la piccola case history di Nonciclopedia è una perfetta anticipazione di quello che accadrà molto più diffusamente e facilmente se il nuovo regolamento Agcom e il comma 29 del primo articolo del disegno di legge sulle intercettazioni (il cosiddetto Ammazzablog [cosiddetto da chi?]) diventeranno realtà: vip e potenti armati di grandi avvocati che faranno azioni legali, piccoli blog e non professionisti della comunicazione on line che pur di non avere rotture di scatole giudiziarie rinunceranno ai propri spazi di libertà e parodia”. Pressoché simile il commento del “miglior blog politico” (stessa fonte), per il quale è in atto il tentativo di “silenziare tutta l’informazione e la critica indipendente, vale a dire quella che non possono controllare, intimidendo a suon di sanzioni chi se ne occupa, indipendentemente dal fatto che sia accuratamente documentata o completamente campata in aria”.
Pareri autorevolissimi, di fronte ai quali conviene inchinarsi, ma che mi lasciano assai perplesso su alcuni punti. La libertà di espressione include l’insulto e la diffamazione? Chi a torto o a ragione si senta insultato o diffamato ha diritto di chiedere il parere qualificato di un magistrato? Se un magistrato dice che quella di Nonciclopedia non è satira ma diffamazione, questo giudizio può essere assunto come dirimente al fine di stabilire un limite tra la libertà di espressione e l’offesa, tra il legittimo diritto di critica e la molestia? E allora, nel caso di specie, dov’è la censura? Dov’è l’intimidazione che Nonciclopedia avrebbe subito da Vasco Rossi? 
Non vorrei aver frainteso qualcosa, ma a me pare che l’intimidazione si stia esercitando proprio nei confronti di Vasco Rossi, da subito fatto oggetto delle reazioni isteriche di chi ha risposto con l’arco riflesso della solidarietà, che ormai parte in automatico, come è per l’istinto di branco. Sarà stata ipersensibilità da “minaccia del bavaglio”? Può darsi, anzi, voglio sperare sia proprio sia questo. Perché ritengo che non c’è libertà senza responsabilità: puoi scrivere tutto quello che ti pare, ma devi essere disposto a renderne conto. Se ti sembra di essere nel giusto, non cedere e affidati senza timore al giudizio di un magistrato.
Non è quello che chiedi al potente quando cerca di sottrarsi al dovere di difendersi nel processo, preferendo difendersi dal processo, atteggiandosi per giunta a vittima? A chi vogliamo affidare il compito di discriminare tra libertà e arbitrio? Facciamo decidere a un giudice o ci affidiamo alla sentenza di condanna o assoluzione decisa per acclamazione?


Postilla Mi informano - cito il lettore che lo scrive nella pagina dei commenti a questo post - che  in realtà non cè stata ancora alcuna sentenza, gli amministratori di Nonciclopedia sono stati chiamati dalla polizia postale questestate, quindi siamo ancora ben lontano a che la querela giunga alla sua fase giudiziaria” . Ne prendo atto, devo aver frainteso il contenuto del comunicato rilasciato dallufficio stampa di Vasco Rossi, ma non penso che la sostanza della mia obiezione venga meno, e, dopo aver corretto il post sul punto, chiedo: cosa impedisce a Nonciclopedia di attendere quella sentenza? In altri termini: perché chiudere il sito e non difendere con le unghie e con i denti un diritto che si lamenta odiosamente minacciato? Perché non chiedere al web la solidarietà nella forma di un aiuto economico per sostenere la spese legali, come per esempio fece qualche tempo fa Mirko Morini per affrontare il contenzioso (poi vinto) con Gigi Moncalvo? Perché Nonciclopedia preferisce mettersi in posa da vittima e sollecitare il branco a prendere le sue difese attaccando Vasco Rossi, al fine (neanche tanto celato) di fargli ritirare la querela? Non dovrebbe essere interesse di tutti sapere se quella di Nonciclopedia sia satira o diffamazione?

Consiglia Gesù



Il gesto compiuto dal signor Aldo Bianchini, che ieri mattina è entrato in chiesa e davanti ai fedeli lì riuniti per seguire messa s’è cavato gli occhi con le proprie mani, suscita orrore. Non da meno, a mio modesto avviso, il commento di don Lorenzo Tanganelli, il prete che stava officiando la sacra funzione: “Ho pensato che fosse posseduto da Satana” (Corriere della Sera, 3.10.2011). E il precetto in Matteo 18, 9? “Se il tuo occhio ti fa cadere in peccato – consiglia Gesù – cavalo e gettalo via da te”. Non è affatto detto, dunque, che Satana c’entri qualcosa. Senza dubbio, invece, siamo davanti a un altro prete che dimostra di essere deboluccio sui fondamentali.
A quanto è dato sapere, il signor Bianchini era assai ligio al dettato evangelico: sarà caduto in peccato due volte, questo è tutto.

Tra A e B

Uno dei modi per raccogliere il consenso di un uditorio su una opzione (A), tra due opposte (A e B) che sono in discussione, sta nell’offrirla come soluzione equilibrata tra due estremi, perché è comunemente accettato che “in medio stat virtus”, e allora diventa necessaria la creazione di una terza opzione (C), che fin lì non era affatto in discussione, ma che torni utile a rappresentare A in posizione virtuosamente equidistante tra B e C.
Se la rappresentazione grafica non è chiara, possiamo ricorrere all’esempio che troviamo nel discorso che Benedetto XVI ha tenuto al Bundestag lo scorso 22 settembre, dove le due opzioni in discussione erano (A) il diritto naturale, inteso come “ragione oggettiva che si manifesta nella natura” e che “presuppone un Creator Spiritus”, e (B) il diritto positivo,  “che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la riconoscono”. Bene, Sua Santità mette (A) il diritto naturale tra (B) il diritto positivo e (C) il “diritto rivelato”, inteso come “ordinamento giuridico derivante da una rivelazione”. Ma il concetto di natura che in sé abbia una ratio che per Benedetto XVI è una Ragione creativa non rimanda a una legge in ogni caso divina? Il “diritto rivelato”, insomma, non è ancora diritto naturale, se la natura è intesa come creatura di un Dio rivelato? Perché il trucco sortisca l’effetto voluto, allora, allontana C e B da A, facendo diventare C il “diritto rivelato” comè per “altre grandi religioni” (non la cita, ma evoca la sharia) e B quanto può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia”. E così A, il diritto naturale che “rimanda all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio, si ritrova nel bel mezzo virtuoso che sta tra la teocrazia coranica (C) e il nazismo (B'). Per Sua Santità, infatti, il diritto positivo (B) ha in sé l’intrinseco rischio di portare a una separazione del potere dal diritto, al porsi del potere contro il diritto, al suo calpestare il diritto, così che lo Stato diventa lo strumento per la distruzione del diritto (B'). 
Neanche così è chiaro? Non ci resta che ricorrere a un esempio grossolano ma efficace. Mettiamo che la questione si ponga tra il prenderlo in culo o no, e che il prenderlo sia A e il non prenderlo sia B. Mettiamo che saresti incline a non prenderlo. Chi ti vuole convincere a prenderlo non fa altro che  descrivere la sua opzione come soluzione equilibrata tra il prenderlo in modo brutale (C) e l’illusione di poterlo evitarlo per poi finire col prenderlo in modo altrettanto brutale o peggio (B'). L’opzione di non prenderlo in culo (B) è scomparsa o comunque non è più alternativa al prenderlo (A), che rimane, lì nel mezzo, come la migliore scelta possibile tra due inculate terribili. 

domenica 2 ottobre 2011

giovedì 29 settembre 2011

[...]

In chat con un ciellino

“Però Bagnasco non ha fatto il nome di Berlusconi!”
“Sì, caro, ma nemmeno Pio XII ha mai fatto il nome di Hitler, no?”

Non allo stesso tempo, ma prima o poi

Si è trattato di un pesante atto di ingerenza clericale, senza dubbio il più pesante negli ultimi anni, e quasi nessuno se n’è lamentato come sarebbe stato necessario, neppure chi ne ha subito il danno più serio. Come avrebbe potuto? Aveva preso un impegno: “Non possiamo non compiacere la Chiesa”, aveva detto, e non c’è riuscito. Ha fatto tutto il possibile, non ha mai detto un no a quanto gli veniva chiesto, ma è diventato in fretta un alleato scomodo, tanto più imbarazzante quanto più si indeboliva.
Dopo il suo trionfo elettorale del 2008, Benedetto XVI aveva detto: “Avvertiamo con particolare gioia i segnali di un clima nuovo in Italia”. Grande teologo, dicono. Come profeta, senza dubbio, una mezza sega. Nemmeno un anno e Sua Santità era costretto a lamentare “un inquinamento morale” che “mortifica e avvelena l’esistenza spirituale” degli italiani, arrivando addirittura ad augurarsi un “vento impetuoso” che ci purificasse tutti. Un uragano, probabilmente. Ma intanto Silvio Berlusconi rimaneva forte, poteva ancora tornare utile, e infatti lo è stato. Insomma, si poteva provare a chiudere un occhio, a distinguere tra peccato e peccatore. Poi non è stato più possibile, il peccatore è diventato prova vivente del cinico opportunismo di chi gli vendeva indulgenze. Se prima non aveva troppa importanza che non fosse esattamente un santo, e bastava che favorisse gli interessi della Chiesa in Italia, adesso che ha già dato tutto è inservibile, anzi, è meglio sbarazzarsene. Peraltro è finito, almeno così pensa chi di queste cose se ne intende, avendone viste tante.
Peraltro i suoi avversari già si offrono mansueti a fare altri favori alla Chiesa, domani. Già un anno fa, Massimo D’Alema implorava: “Lasciate che io dica esattamente il contrario di quello che ci si potrebbe aspettare di ascoltare da me. Altro che chiedere alla Chiesa e al mondo cattolico di non ingerirsi. Io direi: ingeritevi. Se non ora, quando?”. Troppo presto, Silvio Berlusconi era ancora forte, o comunque non era debole come adesso. Più fortunata la preghiera laica di Barbara Spinelli, in fondo una richiesta di estrema unzione a un morto vivente che ormai puzza troppo.

Sarebbero meglio che i preti parlassero solo in chiesa, ma a chiederlo in Italia si passa per satanisti. E allora ingeritevi con coerenza, verrebbe da dire, ma è chiedere troppo, perché l’ingerenza deve avere un tornaconto per la Chiesa: se non ce l’ha, si sa, “la Chiesa non fa politica”, la fa fare ai ragazzini che ha allevato negli oratori, che ha raccomandato e sistemato nei posti giusti.
Mi nauseate tutti, accanitissimi berlusconiani e accanitissimi antiberlusconiani: siete tutti – senza rimedio – servi del Vaticano. Non lo nego, vedo differenze, anche importanti. Ma in fondo avete tutti bisogno di una mano da baciare, di un potente davanti al quale genuflettervi in cambio di una protezione e di un occhio di riguardo per i vostri cari, di tanta comprensione per i vostri vizi e di un aiutino nel momento del bisogno. Anche quando vi inginocchiate davanti a un laico, è sempre sottintenso che quello sia il vicario di un chierico. Siete nati per baciare il culo a un vescovo. Non allo stesso tempo, ma prima o poi.  

mercoledì 28 settembre 2011

Vito Mancuso, Io e Dio, Garzanti 2011

Consiglio la lettura di Io e Dio, l’ultimo libro di Vito Mancuso (Garzanti, 2011), ma cominciando da pag. 191; arrivati a pag. 386, consiglio di tornare all’inizio del volume, ma tralasciando le avvertenze e il prologo, del tutto superflui, cominciando da pag. 19, per arrivare fino a pag. 133. A questo punto, volendo, potete anche rinunciare a leggere il resto, soprattutto se avete già letto L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina, 2007). Da pag. 135 a pag. 190, infatti, e da pag. 387 fino alla fine di Io e Dio, Vito Mancuso non fa che riproporre la sua riforma del cristianesimo, costruendo un traballante edificio con materiali di risulta (mistica new age, fisica delle particelle, un po’ di Hans Küng e molto altro ancora). Qui, assai più che nel 2007, ci tiene ad esser chiaro, e ci prova. Il risultato non cambia: il cattolicesimo di un lefebvriano fa paura, quello di Mancuso (perché ci tiene a dirsi cattolico, non gli basta dirsi cristiano) fa ridere. Ottima, invece, la pars destruens (pagg. 191-386 + pagg. 19-133), come ho detto.
Non ricordo più chi, qualche mese fa, mi ha scritto chiedendomi una lista di volumi per approfondire le tematiche relative alla crisi del cattolicesimo lungo gli ultimi tre secoli: mi sono fatto prendere la mano e sono arrivato a impilare qualcosa sulle 120-150.000 pagine. Ecco, se mi sta leggendo, rettifico: le circa 300 pagine di Io e Dio che ho qui consigliato sul totale delle 448 sono un buon bignamino di tutta quella pila. Risparmia, te la cavi con € 18,60.

In morte di un cinquantapollici

Raiuno, h. 20.36: “Un grande italiano, Gaetano Salvemini, diceva che l’Italia è fatta così: se ti accusano di aver stuprato la statua della Madunina che sta sul Duomo di Milano, la prima cosa che devi fare è riparare all’estero, poi dopo si vede”.
Tenevo più al posacenere che al televisore, e per fortuna ha sfondato lo schermo del Samsung senza riportare danni. Mi pento del gesto, ovviamente, non sono poi così bestia, ma è stato un gesto d’impeto, di quelli che non ti lasciano nemmeno una frazione d’attimo per ragionare.
Un clericofascista di merda cita Gaetano Salvemini, l’antifascista e l’anticlericale, per giustificare la latitanza di Valter Lavitola: la prima cosa che ti capita sotto mano è il posacenere, nemmeno fai in tempo a realizzare, lo afferri e lo lanci. Ti penti prima che arrivi, ma quando è già partito. (Mi aspettavo uno scoppio, delle scintille, ma evidentemente accade solo coi televisori a tubo catodico.)

Ovviamente tutti sanno che non è stato Salvemini a ispirare la latitanza di Lavitola: è stato Berlusconi, suo padrone, e padrone di Ferrara. Sulla frase di Salvemini, invece, ci sarebbe molto da dire.
È attribuita a lui, ma nessuno produce mai la fonte. Qualcuno dice che si trovi su un numero di Non mollare, il giornale al quale diede vita nel gennaio del 1925, insieme a Carlo Rosselli, a Ernesto Rossi, a Piero Calamandrei e ad altri antifascisti, e che interruppe le pubblicazioni nell’ottobre di quell’anno. Fu proprio per quello che scriveva su quel giornale che Salvemini fu arrestato, in giugno. A luglio fu processato e gli fu concessa la libertà provvisoria: ne approfittò per fuggire in Francia, il mese dopo. La frase che anche stasera gli viene attribuita è introvabile nelle copie anastatiche del giornale che La Nuova Italia editò nel 1955, ma ce n’è una abbastanza simile di Piero Calamandrei, proprio a commento della fuga di Salvemini, in uno dei saggi di accompagnamento all’edizione (poi per Bollati Boringhieri, 2005): “Se mi accusassero di avere rubato la Torre di Pisa, io, intanto, mi darei alla latitanza”.
È difficile ricostruire i passaggi che hanno portato alle modifiche della frase e al cambio di attribuzione, ma nella forma che stasera ci era offerta da Ferrara appare in bocca a Bettino Craxi (Massimo Franco, Hammamet, Mondadori 1995), e di lì un po’ dappertutto, citata quasi sempre da chi in questi anni ha voluto dipingere il segretario del Psi, il vecchio padrone di Ferrara e di Lavitola, come un perseguitato politico costretto all’esilio.

Ma non ha importanza. Mettiamo che sia stato Salvemini, e non Calamandrei. Che si trattasse della Madonnina del Duomo di Milano, e non della Torre di Pisa. Che si trattasse di uno stupro, e non di un furto. Mettiamo che davvero Salvemini abbia detto o scritto quella frase: usarla per giustificare la latitanza di Lavitola non merita un posacenere in faccia?

lunedì 26 settembre 2011

Vi tocca

Nel giorno in cui Francesco Alberoni dà il suo addio al Corriere della Sera, e tra tanti sospiri di sollievo, ecco che arriva la notizia che a via Solferino arriva Christian Rocca. Come quando si fa appena in tempo a scansare una cacca di gabbiano per pestare una merda di cane.

Dal rinascere al sopravvivere


La successione di Dalai Lama in Dalai Lama è assicurata dalla reincarnazione. Quando ne muore uno, infatti, i suoi poteri sono temporaneamente trasferiti a un reggente, al quale è demandato il compito di individuare il nuovo Dalai Lama nella reincarnazione di quello morto. Sempre stato così, almeno fino ad oggi, ma le cose potrebbero cambiare: Tenzin Gyatso, tredicesima reincarnazione di Gendun Drup (1391-1474) e perciò quattordicesimo Dalai Lama, ha annunciato che sarà egli stesso a scegliere il suo successore.
Sarebbe stato un duro colpo alla dottrina della reincarnazione anche se Tenzin Gyatso si fosse limitato ad annunciare che lascerà indicazioni al reggente per facilitargli il compito di individuare il nuovo Dalai Lama nel nascituro in cui si reincarnerà, perché il ciclo di rinascita non è nella disponibilità volitiva né in quella precognitiva del morituro, ma qui siamo ben oltre: Sua Santità conta di potersi reincarnare in qualcuno già nato prima che egli muoia.
Siamo alla mutazione genetica di un asse dinastico che per più di sei secoli è stato – insieme – spirituale e temporale, e che potrebbe anche continuare ad esser tale, ma irreparabilmente indebolito dalla caduta del suo pilastro dottrinario: dalla morte di Tenzin Gyatso in poi, di Dalai Lama in Dalai Lama, non verrebbe più trasmesso l’ente sovrapersonale che animava Gendun Drup e i suoi successori, ma solo un pacchetto di autorità morale e di potere politico. Siamo di fronte ad un processo che possiamo considerare analogo (analogo, non simile) a quello della secolarizzazione, che in occidente ha messo in discussione il carattere divino della norma morale e la natura trascendente di quella politica. Qui, però, il processo non è mosso dal basso: ciò che dà carattere trascendente della successione dinastica e sacralità alla persona del Dalai Lama è messo di fatto in discussione dall’alto, dal quattordicesimo Dalai Lama. E tuttavia, come spesso accade quando si assiste a una profonda revisione dottrinaria in ambito religioso, anche qui la spinta viene dall’esterno, perché ogni confessione religiosa, per sua stessa natura, è ostile ad ogni innovazione e tende alla conservazione.

Le ragioni che spingono Tenzin Gyatso a sovvertire i fondamenti della dottrina della rinascita, e così, pur di preservarne il controllo da parte della casta sacerdotale, a snaturare l’istituto della successione dinastica, sono abbastanza note: teme che le autorità politiche cinesi possano interferire nella successione con l’investitura di un Dalai Lama di proprio gradimento, il che darebbe luogo agli analoghi dei drammatici contenziosi che l’occidente ha vissuto in epoche lontane, quando l’autorità di un Papa era insidiata da quella di un Antipapa. In scala diversa, siamo dinanzi a quanto già accade in Cina con l’ordinazione di vescovi da parte delle autorità civili, e in patente violazione del diritto canonico. Ma ciò che spinge Tenzin Gyatso ad annunciare una reincarnazione così atipica non è solo ciò che accade con la creazione di vescovi graditi a Pechino e sgraditi a Roma: c’è un precedente che tuttora tiene aperto un contenzioso sulla persona del Panchen Lama.
Il Panchen Lama ha spesso rivestito la funzione di reggenza alla morte del Dalai Lama, l’unico al quale è secondo nella gerarchia tibetana. Anche per il Panchen Lama la successione è assicurata dalla sua reincarnazione, con modalità del tutto simili a quelle fino ad oggi in vigore per la successione dinastica del Dalai Lama. Il fatto è che alla morte del decimo Panchen Lama, il molto venerabile Lobsang Gyaltsen (1938-1989), Tenzin Gyatso aveva individuato la sua reincarnazione nel piccolo Gedhun Choekyi, che a sei anni divenne undicesimo Panchen Lama, per essere subito rapito dalle autorità cinesi, che lo sostituirono con Gyaincain Norbu, Panchen Lama di proprio gradimento. Con l’annuncio fatto di recente, Tenzin Gyatso cerca di evitare che accada qualcosa di simile alla sua morte.
Per evitarlo – per evitare che alla sua morte ci siano due Dalai Lama e la comunità tibetana possa subire uno scisma religioso e una spaccatura politica – è disposto a sacrificare il principio dottrinario che dà a un Dalai Lama la stessa ragion d’essere, almeno come è sempre stato fino ad oggi: qualcosa in più di un re, qualcosa in più di un grande sacerdote, qualcosa in più delle due cose insieme. C’è l’implicita ammissione che la dottrina è sempre stata funzionale all’istituzione, e non viceversa, come si è dato a credere ai tibetani per oltre sei secoli. Ogni secolarizzazione, in fondo, trae origine dall’impossibilità del trascendente a celare troppo a lungo la sua funzione, che è sempre subalterna all’immanente, anche quando dichiara esattamente il contrario.

domenica 25 settembre 2011

«Un’attenta contemplazione»

Certamente sovrastimato come teologo, Benedetto XVI può essere considerato un grande filosofo solo da chi mastica poco di filosofia, mentre c’è bisogno di un tasso glicemico superiore ai 350 mg/dl per definirlo «superprofessore di filosofia politica» (Il Foglio, 24.9.2011), ma per arrivare a dire che «la sua meditazione dinanzi alla Pietà di Etzelbach intreccia sensibilità artistica e teologia» (asianews.it, 24.9.2011) si deve essere ciechi.
Ecco la meditazione: «Una particolarità dell’immagine miracolosa di Etzelsbach è la posizione del Crocifisso. Nella maggior parte delle rappresentazioni della Pietà, Gesù morto giace con il capo verso sinistra. Così l’osservatore può vedere la ferita del costato del Crocifisso. Qui a Etzelsbach, invece, la ferita del costato è nascosta, perché la salma, appunto, è orientata verso l’altro lato. A me sembra che in tale rappresentazione si nasconda un profondo significato, che si svela solo ad un’attenta contemplazione: nell’immagine miracolosa di Etzelsbach i cuori di Gesù e di sua Madre sono rivolti l’uno verso l’altro; i cuori s’avvicinano l’uno all’altro. Si scambiano a vicenda il loro amore».
Ma la distanza tra il cuore di Maria e quello di Gesù è davvero minore nella Pietà di Etzelbach che in qualsiasi altra Pietà? Quella di Benedetto XVI è «un’attenta contemplazione»?