Vent’anni fa moriva Frank Zappa. Io eviterei di ricordarlo col video da Youtube, con la foto in cui è seduto sul cesso, con una pagina dallo splendido saggio di Giordano Montecchi sulla sua prassi compositiva, con un distico da The Torture Never Stops... Mi limiterei a rammentarne il suo laicismo, aprendo la sua autobiografia nel punto in cui contesta la vulgata che il God dei Padri Fondatori fosse pur vagamente cristiano, sottolineando che lo fa in un momento in cui il revival del sacro non era ancora arrivato alle convulsioni cui si è abbandonato dopo l’11 settembre. Zappa cita George Washington («Gli Stati Uniti non sono stati per nulla fondati sulla dottrina cristiana»), Thomas Jefferson («Non vedo alcun carattere di redenzione nella cristianità»), Abraham Lincoln («La Bibbia non è il mio libro e il Cristianesimo non è la mia religione. Non potrei mai trovarmi d’accordo con le lunghe e complicate affermazioni del dogma cristiano»), Thomas Paine («Non aderisco al credo professato dalla Chiesa Ebraica, dalla Chiesa Romana, dalla Chiesa Greca, dalla Chiesa Turca, da quella protestante, né da alcuna Chiesa di cui io sia a conoscenza: la mia mente è la mia Chiesa»), e conclude: «I rivoluzionari che hanno dato vita a questa Nazione non erano un mucchio di svitati fanatici con la parrucca che sbavavano per essere guidati dalla Mano Invisibile».
giovedì 5 dicembre 2013
mercoledì 4 dicembre 2013
Pietra e sangue, nome e profumo...
Questa
non è una recensione, mi limiterò a rappresentare il lettore che, arrivato in
fondo alle 192 pagine, chiude il libro, tira un sospiro e rimane sospeso in un sorriso
di gratitudine, perché Pietrangelo Buttafuoco – sì, quello che può risultare
antipatico per mille ragioni, e qualcuna anche buona – è riuscito nel miracolo
di una storia tra sogno e memoria, passione e intelligenza, stavolta
rinunciando pure, come fu con Le
Uova del Drago e con L’Ultima del Diavolo, a qualche eccesso di espediente,
sicché Il dolore pazzo dell’amore arriva dritto dove deve, e dove forse neppure
l’autore pensava di arrivare, nel cuore stesso della «cosa» fatta di pietra e
sangue, nome e profumo, zolfo e ciclamino. Avete presente le foto pubblicitarie di D&G? Bene, la Sicilia aspettava uno che venisse a far giustizia di quello scempio. E tuttavia rimane occasione, perché protagonista è l’Esser-ci.
martedì 3 dicembre 2013
[...]
Manifestazione
non autorizzata, lo stesso reato per il quale Daniela Santanchè è stata
condannata a 4 giorni di arresto e a un’ammenda di 100 euro, con commutazione
della pena alla sola ammenda, aumentata a 1.100 euro: gli occupanti della sede
del Pd in Largo Nazareno hanno commesso lo stesso reato e meritano la stessa
pena.
venerdì 29 novembre 2013
[...]
Federico
Perna aveva 34 anni, soffriva di disturbi psichici, epatite C, cirrosi epatica e
coagulopatia. È morto tre settimane fa nel carcere di Poggioreale, dove era rinchiuso
ventidue ore al giorno in una cella di dodici metri quadrati insieme ad altri
dieci detenuti. Sputava sangue da una settimana, dicono. Dicono che il suo avvocato avesse presentato in tre occasioni dei referti medici attestanti la sua incompatibilità con lo stato di detenzione in
carcere, tutti respinti dai magistrati di sorveglianza.
Questa, la notizia? Macché, si tratta solo del 146° morto nelle carceri italiane dall’inizio di quest’anno. La particolarità di una morte uguale a tante altre, qui, sta nel fatto che la madre di Federico Perna ha detto, e pubblicamente:
«Mio figlio è morto perché non
avevo il numero della Cancellieri»,
con la patente insinuazione che l’interessamento mostrato dal ministro della Giustizia nei confronti di Giulia Ligresti sia stato di favore. In pratica, ha rimesso in discussione l’onore della Cancellieri: la notizia è che stavolta la Cancellieri tace.
giovedì 28 novembre 2013
«E che ve site perso!»
Quando
il Napoli vinse il suo primo scudetto, nel 1987, un pensiero andò ai nonni
morti dopo averlo sognato invano per una vita intera, e allora qualcuno
– un
poeta, senza dubbio – stese uno striscione sul quale c’era scritto: «E che ve site perso!».
Ieri sera m’è
tornato in mente pensando a Indro Montanelli, Enzo Biagi e Giuseppe D’Avanzo.
In difesa del maramaldeggiare
Se la
qualità che vuole esprimere è pars pro
toto di un individuo realmente esistito, e in effetti è questa la sua
pretesa, quasi mai l’antonomasia regge all’onesto giudizio in sede storica, perciò è figura retorica che andrebbe evitata,
tanto più perché didascalizza la qualità che intende far viva con l’esemplarità
del campione, privando questo di ogni profondità psicologica e morale, e quella
delle sfumature che la rendono umana: in pratica, la qualità acquista la
fissità di una maschera dietro la quale il personaggio storico è costretto a
interpretare una parte che raramente è quella sua.
Se tradisce il portato, d’altronde,
l’antonomasia tradisce anche il portante: quel che si addebita a La Palisse, ad
esempio, si deve solo all’errata lettura della sua lapide tombale, e Vespasiano
si limitò solo a tassare l’uso degli orinatoi pubblici che esistevano già da
lungo tempo, e Pigmalione non era affatto uno scultore, ecc.
La sorte più emblematica,
però, è quella toccata a Fabrizio Maramaldo, diventato antonomasia
del vile che infierisce sull’inerme che ha subìto una dura sconfitta o comunque
versa in gravi difficoltà. La fama – l’infamia, per meglio dire – gli viene
dalla storiella messa in giro da Paolo Giovio, un pretastro sulla
cui affidabilità di storico oggi si storce il muso, e che per tutta la sua vita
fu a servizio di potenti contro i quali Maramaldo si era trovato in campo
avverso: è nella sua Historia sui temporis che la si legge per la prima volta,
senza alcuna indicazione della fonte.
Di fatto, pare che la storiella non trovi
alcuna conferma: Francesco Ferrucci non sarebbe stato affatto
ucciso da Maramaldo, ma da Alessandro Vettori, per giunta non dopo
essere stato catturato e disarmato, ma in battaglia, mentre è accertato che invece
fu il Ferrucci a macchiarsi di un’azione abominevole, uccidendo un messo
inviatogli da Maramaldo con l’invito alla resa, un inerme tamburino.
A ciò deve
aggiungersi che sono innumerevoli gli attestati di stima che Maramaldo raccolse
dai suoi contemporanei e, sebbene fosse un mercenario, negli scritti coevi lo troviamo ripetutamente
onorato come soldato di valore e tra i migliori gentiluomini
dei suoi tempi. Tra quello dei posteri, invece, va segnalato il giudizio di
Antonio Gramsci: «Storicamente può e deve essere sostenuto […] che Maramaldo
possa essere stato un rappresentante del progresso storico e Ferrucci storicamente
un retrivo» (Quaderno VI).
E
tuttavia, sappiamo bene, ciò che dalla storia passa alla lingua prescinde da ciò che è impossibile pesare a distanza. Se sul piano storico, dunque, la
questione rimane aperta solo sull’intenzionalità o meno della diffamazione
messa in giro da Giovio, su quello relativo al narrato dal quale attinge la
retorica, rimane «maramaldo»
– comprensibile rimanga –
chi infierisce su un inerme, e l’Historia sui
temporis fa testo nel dare forma e sostanza al termine. Qui leggiamo che Maramaldo, prima
di sgozzare Ferrucci, gli chiede: «Pensasti mai dovermi venir nelle mani quando
crudelmente e contra l’usanza della guerra tu impiccasti il mio tamburino a
Volterra?».
Nel caso, dunque, saremmo dinanzi a un «maramaldeggiare» che è
punizione di chi ha commesso una turpitudine. Turpe anch’essa, senza dubbio, ma meno odiosa di quanto ci era fin qui sembrata.
martedì 26 novembre 2013
lunedì 25 novembre 2013
[...]
Ci
saranno gli estremi del reato di vilipendio del capo dello stato in ciò che Sallusti
scrive oggi su il Giornale? L’obbligatorietà dell’azione penale (art. 50
c.p.p.) solleva il caso, la pena sarebbe tra uno a cinque anni di reclusione
(art. 278 c.p.), ma ovviamente il capo dello stato potrebbe commutare la pena
in sanzione pecuniaria (art. 87 cost.), come ha già fatto, e proprio con
Sallusti. Sarebbe un altro giro di valzer.
domenica 24 novembre 2013
Madonna mia, come piove, oggi!
C’è una
particolare forma di ricorso all’autorità, inteso come fallacia argomentativa, che
consiste nel dimostrare insostenibile una tesi trovata non pienamente
dimostrata in chi se ne faccia autorevole sostenitore. In pratica, si tratta del ricorso ad
un difetto dell’autorità che sostenga quella tesi nel tentativo di dimostrare come
vera quella opposta. Ora noi sappiamo che argomentare è uno strumento di
persuasione e che il fine di persuadere può servirsi di ogni mezzo, retto o
scorretto, valido o invalido. Non ci dobbiamo stupire, quindi, se questa
particolare forma di fallacia sia pratica comune di chi sostiene tesi opposte
riguardo a questioni di consistente rilevanza. Ma forse è meglio ricorrere a un
esempio per penetrare il movente psicologico che spinge all’uso di questo strumento retorico, e io penso che la secolare disputa sull’esistenza di
Dio sia quello migliore.
Così, chi crede che Dio non esista riterrà argomento
estremamente persuasivo il segnalare un difetto di argomentazione in chi è
autorevole assertore della sua esistenza, anche laddove questo difetto si manifesti
in una più o meno palese incongruenza tra il dire e il fare: è il caso in cui si
tenta di dimostrare che Dio non esiste perché il tal gran teologo va a puttane
o perché la tal pastorella che ha visto la Madonna mostra franchi sintomi di
psicosi. Di converso, chi crede che Dio esista riterrà argomento estremamente
persuasivo il segnalare un difetto di argomentazione in chi è autorevole
assertore della sua non esistenza. Qui, però, la casistica si apre in un
ventaglio assai più ampio: si va dal ritenere dimostrato che Dio esista con la
conversione in punto di morte di chi per una vita intera è stato autorevole
sostenitore della sua non esistenza, ma pure per il fatto che ancora in vita,
sbattendo con lo stinco contro un tavolino, una volta abbia esclamato: «Per
Dio!».
Bene, suppongo non occorra produrre documentazione per asserire che,
mentre è sempre più raro da parte degli atei il ricorso a questa fallacia, da
parte dei credenti è diventato un vero e proprio sport. Ormai sono decenni che
intere squadre di esaltati in missione per conto di Dio passano al setaccio le
biografie e i testi dei più prestigiosi senzadio della storia alla ricerca, se
non della pepita d’oro di una fede inconscia da far splendere ripulendola del
fango nel quale era immersa, almeno della scaglia di quarzo che con la luce
giusta, vista di sguincio, possa sembrare, se non fede, un suo embrione. È qui
che il movente psicologico cui facevo cenno prima si rivela nella sua pienezza,
perché in fondo l’ateo che ritiene di poter dimostrare che Dio non esista
compilando elenchi di papi sifilitici o di mistici intossicati da pagnotte di
segala contaminata da Claviceps purpurea è figura eroica di tempi ormai andati,
più unica che rara, mentre invece il credente che ritiene di poter dimostrare l’esistenza
di Dio nelle più diafane sfumature di fede intravviste in pensieri, parole,
opere e perfino omissioni di famosi miscredenti è tuttora militante in servizio
permanente, e lo si trova lungo tutto il carotaggio del pluristratificato mondo
cattolico, dal cardinale che sembra un Bacio Perugina, per come è sempre avvolto
nel cartiglio di una citazione, al blogger che per testata ha il santino di Padre
Pio, e cerca di dimostrarti che in Zarathustra c’è tantissimo di San Giovanni
Battista. Con una così ampia campionatura il lavoro è agevole e il risultato non
fa fatica ad essere acquisito: il movente psicologico del credente che si
prefigge di dimostrare che anche l’ateo – in fondo, in fondo, in fondo – ha fede
è quello di esorcizzare ogni suo dubbio e, in generale, fare del dubbio un
corollario della prova ontologica di Sant’Anselmo.
Secondario, ma non meno
pressante, è il tentativo di neutralizzare l’opinione corrente, a dispetto del
revival del sacro, che la fede sia il vicolo cieco in cui va a rifugiarsi la
ragione che non ha risposte da dare al mistero, che d’altronde non le pone, perché muto e sordo. È opinione
corrente che ha contaminato anche i cattolici, e anche quelli più attrezzati,
al punto che ormai alla teologia dogmatica preferiscono la precettistica morale.
Capita anche a loro, in qualche modo, quello che capitò ai neofascisti quando
divenne egemone la cultura marxista: rimanevano neofascisti, ma si dibattevano
come mosche nella ragnatela del materialismo dialettico. Da questo punto di
vista, potremmo dire che il fronte più avanzato della secolarizzazione sta
proprio in chi vi si oppone.
Ma qui divago, peraltro questo è tema che ci
porterebbe lontano, cioè dentro quel cattolicesimo che – mi si conceda il
paragone – ormai non è più Oriente di quanto non lo sia l’orientalismo.
Torniamo a noi, dunque.
Torniamo a chi ritiene di poter dimostrare che Dio
esista (in subordine: che non esista, ma sia necessario) rintracciandone un
qualcosa (e non importa cosa) in atei dichiarati, anche se il lavoro è più
agevole con gli agnostici o con quanti, pur avendo dichiarato in vita di non
credere in Dio, abbiano lasciato traccia di un ruttino metafisico, d’un
qualsiasi senso del sacro che possa manipolarsi in una pur incompiuta forma di
agnizione del divino, d’un «Madonna mia, come piove, oggi!». Non importa cosa
fossero in vita, l’importante è che siano famosi, per farsi esemplari, e via a
pettinarne le chiome nella speranza di trovare il Gran Pidocchio. Lena uguale e
contraria che si osserva in chi ritiene che la legittimità della scelta
omosessuale si faccia più legittima nell’elenco di famosi omosessuali come
Socrate, Leonardo, Michelangelo, ecc. Così nel caso de Il Foglio, che, dopo
Camus e Lacan, ieri ci provava con Sciascia. Il quale, a onor del vero, si è
fatto lavorare assai più malleabilmente.
«Ho sempre pensato che non è facile
essere atei, totalmente e rigorosamente atei»: se era difficile per lui, con
quale ottusa arroganza puoi dichiararti tale, tu? «Mi sento cristiano, checché ne
dicano i preti»: detto come l’avrebbe detto Benedetto Croce, ma, insomma, fa
brodo. Voilà, pur sempre in qualcosa credente, «lo scettico Sciascia». Hai voglia
a dire che «c’è un solo, vero e fervido segno di religiosità, di religione che
mi pare scenda oggi nel cuore degli uomini ed è il desiderio e la speranza
della pace»: anche in quelli, gratta e gratta, non può esserci che Dio.
venerdì 22 novembre 2013
Perdindirindina
«Mio figlio riceve l’offerta di lavoro da Fonsai il 25 maggio 2011 e nel successivo mese di giugno inizia il suo rapporto di lavoro con la stessa società. In quel periodo io avevo già cessato le funzioni di commissario straordinario presso il Comune di Bologna ed ero una tranquilla signora in pensione che mai avrebbe pensato di poter diventare ministro dell’Interno nel successivo governo», così Anna Maria Cancellieri in un passaggio del discorso da lei tenuto in Parlamento, lo scorso 5 novembre. Ancorché implicito, l’argomento sembra forte: perché i Ligresti avrebbero dovuto fare un favore al figlio se in cambio non potevano più avere nulla dalla madre, ormai avviatasi a lasciare ogni carica pubblica?
L’argomento, in realtà, è davvero forte ad una sola condizione: che tra il maggio e il giugno del 2011, pochi mesi prima che Mario Monti la mandasse inaspettatamente al Viminale, Anna Maria Cancellieri considerasse davvero chiusa la sua carriera e non nutrisse più alcuna ambizione a ricoprire incarichi più impegnativi e qualificanti di quelli ricoperti fino ad allora.
Bene, sembra che le cose non stessero affatto a questo modo, perché il comunicato del 20 novembre 2013 col quale il portavoce di Anna Maria Cancellieri si precipita a smentire le dichiarazioni fatte da Salvatore Ligresti nel corso dell’interrogatorio del 15 dicembre 2012 presso la Procura di Milano, si legge: «È surreale pensare che abbia potuto chiedere un interessamento per rimanere a Parma, potendo ricoprire incarichi più impegnativi e qualificanti».
Non si capisce, insomma, se poco prima d’essere chiamata a fare il ministro dell’Interno, quando era ancora commissario prefettizio di Parma, si sentisse davvero a fine corsa, come diceva due settimane fa, o invece, come dice oggi, corresse ancora, e di gran voglia, e con grandi aspettative.
Anche su questo punto, perdindirindina, il caso Cancellieri sembra voler trovare soluzione solo nell’ambiguità.
mercoledì 20 novembre 2013
Sulla superficie della bistecca
Se
regge la versione che Anna Maria Cancellieri ha dato riguardo a ciò che ha
fatto per Giulia Maria Ligresti, non si capisce perché non possa reggere quella
che Salvatore Ligresti ha dato riguardo a ciò che ha fatto per Anna Maria
Cancellieri. Al pm che lo interroga il 15 dicembre 2012 nell’ambito
dell’inchiesta Fonsai, e che gli chiede: «Le è capitato di segnalare qualcuno
all’autorità politico-amministrativa?», Salvatore Ligresti risponde: «Mi feci latore
presso Silvio Berlusconi del desiderio dell’allora prefetto Cancellieri che era
in scadenza a Parma e preferiva rimanere in quella sede anziché cambiare
destinazione». Anna Maria Cancellieri la definisce «ricostruzione senza
fondamento», dopo aver preteso ed ottenuto che la sua ne avesse uno, e francamente
questo non è bello.
C’è o non c’è ’sta benedetta amicizia pluridecennale tra la
sua famiglia e quella dei Ligresti? E non è amicizia vera? Via, il vero amico
non si vede nel momento del bisogno? E cos’è stata, quella di Salvatore
Ligresti, se non una innocente manifestazione di amicizia? Sai che la tua amica
ha bisogno di un favore, ti trovi a parlare con uno che può farglielo, e che
fai, non glielo chiedi?
Sì, ci sarà chi obietterà che si è trattato di un
favore tra potenti, che di per sé implica condizione di privilegio, e
che il privilegio è in radice un abuso, e bla bla bla. Ma guardiamoci nelle palle degli occhi: è obiezione valida solo nell’iperuranio
della norma disincarnata. Che vogliamo, vietare ai potenti di coltivare amicizie?
Peggio: vogliamo che il bisogno sia uguale per tutti, quando di fatto è per ciascuno commisurato alle condizioni in cui si trova? Non diciamo sciocchezze.
D’altra parte – siamo seri – Parma poteva rimanere senza prefetto? Senza alcun
dubbio, no. E dovendo averne uno, che male c’era che continuasse ad avere
quello che aveva fin lì avuto? È illegale dare a un prefetto giunto a scadenza
del mandato il reincarico nella sede dove l’ha fin lì espletato? No, tant’è
vero che Anna Maria Cancellieri è restata a Parma. E allora che cazzo di
obiezione è quella che a qualcuno fa sollevare l’ipotesi speciosa di abuso di potere e – insieme, però – spinge l’interessata
a dire che quella di Salvatore Ligresti è «ricostruzione senza fondamento»?
Si è trattato di interessamento empatico, a me pare evidente. Silvio Berlusconi non
avrà difficoltà a dimostrare che non ha mosso un dito, ma si è soltanto
limitato a segnalare il bisogno di Anna Maria Cancellieri, di cui era stato
messo al corrente da Salvatore Ligresti, e visto che non è più presidente del
Consiglio, anzi, tra poco non sarà neppure più senatore, non sarà nemmeno necessario
portare la questione in Parlamento, che gli sarebbe pregiudizialmente ostile come non lo è stato con Anna Maria Cancellieri.
Mettiamoci una pietra sopra,
finiamola lì. Ma Anna Maria Cancellieri ci facesse il favore di non smentire
quanto afferma Salvatore Ligresti. Innanzitutto, tra amici non è bello. In
secondo luogo, le affermazioni di quello stanno alle sue sul piano della credibilità come la forchetta sta al coltello sulla superficie della bistecca.
martedì 19 novembre 2013
lunedì 18 novembre 2013
[...]
Necessarie due parole in lode di Josefa Idem, che dall’escludere ogni ipotesi di
dimissioni al dimettersi impiegò solo due giorni: a memoria d’uomo è un record. Ora, non si pretendeva tanta sportività da Anna Maria Cancellieri, ma – santiddio
– quanto ci mette!
domenica 17 novembre 2013
Eventualmente stupido e cattivo
Massimo
Adinolfi e Leonardo Tondelli corrono in soccorso di Nichi Vendola con strumenti
retorici che a me paiono un pochino disonesti.
Il primo riduce tutta
la faccenda a un «Vendola ride», poi separa il soggetto dal verbo, accantona il
«Vendola» con quanto gli è d’attorno in contesto, e passa a difendere il «ride»
dalla condanna morale che lungo i secoli è stata inflitta al riso da tutti i
cupi bacchettoni che hanno considerato osceno il ridere, in sé e per sé. Vorresti accodarti
a costoro? Penserai mica come Jorge ne Il nome della rosa che «chi ha
un’anima non può permetterselo»? Sii buono con te stesso, via, e assolvi il «ride».
Fatto? Bene, adesso rimetti «Vendola» accanto a «ride» e dimmi: quelle risate non ti diventano innocenti? No? E allora vuol dire che hai qualcosa
di guasto dentro. Probabilmente ti sei fatto attaccare la rogna da Padellaro,
Gomez e Travaglio. Diciamola com’è, sei un tipaccio da evitare, normale che Adinolfi ti ingiunga di tenerti a debita distanza. Così impari a dare addosso al
povero Nichi.
In fondo che ha fatto di male? «Vendola – scrive Tondelli – doveva mediare tra i sindacati che volevano tenere aperto lo stabilimento e un’opinione pubblica che lo voleva chiuso; il suo ruolo richiedeva anche che mantenesse i rapporti con la proprietà. Un presidente di regione non dovrebbe farlo?». Via, che c’è di male a leccare un po’ il culo al factotum dei Riva complimentandosi per lo «scatto felino» col quale quello ha strappato il microfono di mano a un giornalista che aveva «la faccia da provocatore»? In fondo, come vuoi che si mantengano buoni rapporti con chi avvelena gente e ambiente, esporta capitali all’estero e semina mazzette? Bisogna scendere allo stesso livello, e il buon Nichi si è limitato a questo.
Sicché, se Adinolfi
ti compatisce perché ad indignarti mostri di essere cattivo, Tondelli ti sferza: Il Fatto Quotidiano – scrive – «non ha una grande fiducia
nella tua memoria [perché] stralci d[i qu]ell’intercettazione erano stati
pubblicati un anno fa dal Giornale»; «non ha molta fiducia nemmeno nella tua
capacità di mantenere l’attenzione [perché] rispetto al Giornale di Sallusti il
contenuto è molto semplificato [e dunque] non ti è richiesto di seguire un
ragionamento o ricostruire un caso dagli indizi, ma di ascoltare una risata e
di indignarti»; «presume che tu, di indignarti, abbia un certo bisogno»; insomma,
se ti indigni, sei un «coglione», tanto più che, ogni volta che ti indigni, «loro
[Padellaro, Gomez e Travaglio] realizzano un guadagno».
Vorrai mica essere considerato un «coglione» da Tondelli? Ha troppa stima di te, e ti implora di risparmiarglielo, sennò la delusione lo ferirebbe a morte. Ad Adinolfi, invece, dispiacerebbe doverti privare della familiarità che ti ha magnanimamente concesso: «Chi
vuole rivendicare il diritto di ridere in privato di quel che gli pare?
Chi, senza violare alcuna legge, vuole essere almeno un po’ scorretto? Chi
vuole disporsi almeno una volta al telefono in modalità ironica, o di aperto
sarcasmo, oppure di scherno e di macabra ironia, ecco: di un simile mostro
morale cosa vogliamo fare? L’unica, mi rendo conto, è non telefonargli. Perciò
vi prego: non telefonatemi, perché anche a me, ogni tanto, mi scappa».
In entrambi i casi, neanche troppo velatamente, siamo dinanzi alla promozione in campo di chi legge, se sottoscrive gli argomenti di chi scrive: se assolvi Nichi, dimostri di essere uno che non si fa infinocchiare dagli arruffapopoli, e Tondelli ti applica il bollino blu della persona di buon senso dotata di un sano realismo; in più dimostri di godere di buona salute morale, te lo certifica Adinolfi, che in premio ti concede la sua simpatia, almeno telefonica; sennò sei stupido o cattivo, eventualmente stupido e cattivo.
venerdì 15 novembre 2013
«Da noi c’è un clima avvelenato»
E lo va a dire a Bergoglio, che ha più vipere tra i
piedi di quante ne abbia in testa la Medusa. Dev’essere stata ironia, non c’è
dubbio.
lunedì 11 novembre 2013
Dubbi da cronopio
Dubbi
da cronopio, caro Julio. Quando la compressa è effervescente, la sua
disgregazione avviene nel bicchiere invece che nello stomaco, dunque il
principio attivo è assunto in soluzione, con assorbimento agevolato e
attenuazione dell’eventuale effetto aggressivo ai danni della mucosa gastrica, grazie alla diluizione. Nulla va perso del principio attivo nelle bollicine se
non i gas prodotti dal processo di disgregazione della compressa, che sono solo
il prodotto della reazione chimica tra l’acqua e gli eccipienti responsabili
dell’effervescenza.
[Julio
Cortázar, Carte inaspettate, Einaudi 2012 (pag. 276)]
[...]
La
vicenda personale di Silvio Berlusconi scuote violentemente il partito che si
identifica nella sua persona, mettendone a rischio l’integrità, tra il rischio
di scissione e quello di dissoluzione. Siamo dinanzi al paradigma del movimento
politico che lega irreversibilmente le proprie sorti a quelle del proprio leader,
poco importa se fin dalla fondazione, com’è in questo caso, o per sopravvenuta mutazione.
I motivi perché questo accade e i modi in cui questo si realizza possono essere
analizzati col metro psicologico, con quello sociologico o con quello che integra
entrambi nel metodo scientifico che è proprio della psicologia sociale. Quale
che sia lo strumento di analisi, tuttavia, ciò che porta un movimento politico a
ritenere vantaggioso investire tutto se stesso in un solo uomo rimane un bel rompicapo, sicché ciascuna
delle espressioni fin qui usate per significare questa scelta («si identifica
nella sua persona», «lega irreversibilmente le proprie sorti a quelle del
proprio leader», «investe tutto se stesso in un solo uomo») ne danno conto solo
in un aspetto, che non la risolve interamente.
In realtà, siamo dinanzi ad una scelta che è
– insieme – di totale investimento, piena identificazione e indissolubile
legame, ma anche di un di più, che è quanto questa scelta produce in
ordine alla struttura del movimento politico, alle relazioni tra i suoi membri,
tra i suoi membri e il leader, e alla percezione che essi sono indotti ad avere
di ciò che è «dentro» e di ciò che è «fuori» il perimetro della «pars» fatta «partito».
Anche così caratterizzata nella sua natura, tuttavia, la scelta non svela ancora
le sue ragioni, rimandandole però ad una condizione di necessità che
sembrerebbe renderle cogenti. In pratica, ciò che porta un movimento politico a
fare del proprio leader la ragion sufficiente della propria esistenza non sarebbe
neppure una «scelta», ma una decisione necessitata dalla inadeguatezza delle
opzioni alternative.
Qui ritorna la questione che prima abbiamo in qualche modo
accantonato dichiarando legittima l’analisi del fenomeno sia sul piano psicologico,
sia su quello sociologico, sia su quello di intersecazione dei due piani: la
condizione di necessità è posta da fattori esterni, da fattori interni o dalla
combinazione di fattori esterni e interni? Per meglio dire: nel fare del
proprio leader l’intestatario unico ed esclusivo di un dominio che coincide con
la «pars» nella quale si decide l’inclusione, si risponde a una necessità che è
nell’individuo, eventualmente in ciò che fa dell’individuo un polo relazionale,
o a una forza maggiore posta da una determinata struttura della relazione?
Ancora meglio, cioè prendendo a esempio proprio il caso di specie: cos’è che
porta a ritenere naturale, se non giusto, che il destino di un movimento
politico sia indissolubilmente vincolato a quello del suo leader? Dipende dalla
«pulsione gregaria» che costituisce la caratteristica indispensabile per poter
essere reclutati in movimenti politici di questo genere o si tratta piuttosto
di un effetto collaterale della cosiddetta «personalizzazione della politica» dopo
la crisi dei partiti a forte impronta ideologica?
Quello di Silvio Berlusconi sembrerebbe
offrirsi come caso di scuola a dimostrare la validità della seconda ipotesi,
come d’altronde è per gli altri movimenti politici che hanno mosso i passi dopo
la «morte dell’ideologia»: quale miglior esempio di Forza Italia per la
dimostrazione dell’assunto che, al venir meno di un saldo sistema ideologico di
riferimento, un movimento politico sia in qualche modo costretto a investire tutto
su un nome, una faccia, una storia personale? Non bastasse questo esempio, si
pensi alla crisi in cui l’Italia dei Valori è precipitata dopo l’infortunio televisivo
che ha del tutto rovinato la già malferma reputazione di Antonio Di Pietro, o a
quella, seppur meno drammatica, cui irreversibilmente pare andare incontro la
Lega Nord che fu di Umberto Bossi. Sennò si pensi a un movimento che pure pare
in buona salute, com’è il M5S, ma che nessuno riesce a immaginare integro ad un’eventuale
uscita di scena di Beppe Grillo.
Trattandosi di movimenti politici che sono
nati tutti dopo la crisi del partito che trovava la propria ragion d’essere (o
almeno la sua intestazione nominale) in un’ideologia (o almeno in una
tradizione ideologica) di riferimento (nel caso della Lega Nord, possiamo dire
che sia nata in questa crisi), parrebbe di poter ragionevolmente concludere che
il fenomeno sia possibile solo alle condizioni poste da un contesto che
favorisca (come in realtà ha favorito) la trasformazione della fidelizzazione
ideologica in un eterogenea e spuria serie di fattori che concorrono al
reclutamento di fan sotto un’insegna di cui è titolare un leader carismatico.
In parte è vero, ma solo in parte, perché il «partito» che nel culto della
personalità del proprio leader vede un momento indispensabile del farsi «pars»
non è un oggetto nuovo, anzi, è la forma più ancestrale di appartenenza a un
gruppo della specie umana.
In tal senso, nell’appartenenza ad un movimento
politico che fa del proprio leader – insieme – capo indiscutibile ed entità
totemica possiamo riconoscere un momento di regressione della vita di gruppo alle
forme claniche e tribali. Da ciò, tuttavia, non è lecito inferire che il
partito a forte impronta ideologica sia esente da tali forme di regressione,
basti pensare alle esperienze totalitaristiche del secolo scorso.
In buona
sostanza, sembrerebbe che il fattore esterno (la «personalizzazione della
politica») sia solo in grado di potenziare quello interno (la «pulsione
gregaria»), semplicemente latente anche quando sembri assente. Ce n’è di che
mettere da parte tanta inutile discussione politica per una più proficua
riflessione sulla psicopatologia dei gruppi. Il fatto è che abbondiamo di notisti, opinionisti e retroscenisti, e difettiamo di esperti delle patologie relazionali.
domenica 10 novembre 2013
Cécile Kyenge? E Yara Gambirasio, allora?
Rinviato
a giudizio per le offese rivolte a Cécile Kyenge, Roberto Calderoli solleva due
obiezioni.
La prima è relativa al giudizio immediato, chiesto dal pm e concesso
dal gip: «Generalmente celerità fa rima con efficienza, ma in materia di
giustizia penso abbia una certa rilevanza anche il rispetto delle procedure.
Adesso inoltrerò una richiesta perché il Ministro della Giustizia attivi un’ispezione
al Tribunale di Bergamo affinché venga appurato se ci sono state irregolarità
in questa vicenda».
Non gli sta bene che la faccenda sia risolta in tempi brevi,
è evidente, ma appellarsi al rispetto delle procedure è scelta infelice, nel
merito e nel metodo. Nel merito: «Quando la prova appare evidente [e in questo
caso c’è tanto di video che prova l’offesa rivolta Roberto Calderoli a Cécile
Kyenge], salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini [e in questo non si
capisce come potrebbe], il pubblico ministero chiede il giudizio immediato se
la persona sottoposta alle indagini è stata interrogata sui fatti dai quali
emerge l’evidenza della prova [e in questo caso così è stato]» (art. 453
c.p.p.); «Entro novanta giorni dall’iscrizione della notizia di reato nel
registro previsto dall’art. 335, il pubblico ministero trasmette la richiesta
di giudizio immediato alla cancelleria del giudice per le indagini preliminari
[e così è stato in questo caso]» (art. 454 c.p.p.); «Il giudice, entro cinque
giorni, emette decreto con il quale dispone il giudizio immediato [come ha
legittimamente disposto in questo caso] ovvero rigetta la richiesta» (art. 455
c.p.p.). Dove sarebbe venuto meno il rispetto delle procedure?
E qui veniamo al
metodo: che senso ha – per meglio dire: che senso cerca – il chiedere al
Ministro della Giustizia un’ispezione al Tribunale di Bergamo, quando basta sfogliare le pagine del
Codice di Procedura Penale? Pare evidente che l’appello non sia alla Giustizia,
ma al Ministro, anzi, a questo Ministro della Giustizia, e da Senatore, anzi, da
Vicepresidente del Senato.
Seconda
obiezione: «Auspico – ha detto Roberto Calderoli – la medesima solerzia ed
efficienza anche per la risoluzione del caso di Yara Gambirasio. Parenti e
amici attendono giustizia da quasi tre anni per lei, anche se capisco bene che
una frase detta in un comizio sia molto più grave dell’omicidio di una
tredicenne innocente».
Un vero e
proprio delirio, in apparenza. Che per giunta si concede pure il lusso dell’ironia. Su quale
piano, infatti, si può proporre un’interpolazione tra un caso come quello che
vede vittima Cécile Kyenge e un caso come quello che vede vittima Yara
Gambirasio? Non su quello logico, perché sappiamo bene chi ha dato dell’«orango»
a Cécile Kyenge, ma ancora non abbiamo un presunto colpevole dell’assassinio di
Yara Gambirasio. Né su quello giudiziario, perché nel primo caso è in questione
la decisione del giudice, nel secondo il lavoro dell’inquirente. Dovremmo
concludere che a Roberto Calderoli manchi una rotella, ma sarebbe conclusione
affrettata e, tutto sommato, ingenerosa.
Con la prima
obiezione, infatti, si attua il tentativo di coinvolgimento di Anna Maria
Cancellieri, che dopo il caso Ligresti non può più respingerne alcuno. Può
disporre un’ispezione al Tribunale di Bergamo? Senza dubbio. Ma qui ce ne sono
gli estremi? Domanda irrilevante: se è prevalso il momento «umanitario» su
quello «legaritario» nel caso Ligresti, perché non dovrebbe prevalere nel caso
Calderoli? So bene che anche questa interpolazione non regge sul piano giudiziario,
ma regge su quello della stessa logica che giustifica, con la seconda obiezione
sollevata, il tentativo di coinvolgere la pancia di chi, fermato dalla Polizia
Stradale per aver superato i limiti di velocità, si lamenti della multa elevata
a suo carico, perché «intanto i responsabili della strage di Ustica sono ancora
impuniti».
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