lunedì 5 settembre 2016

Sembrava che tutti l’avessero sulla punta della lingua

Mi pare che sulliniziativa promossa dal Ministero della Salute sotto il logo di Fertility Day si sia detto quasi tutto. Alcuni – Eugenia Roccella su lOccidentale, per esempio – hanno sostenuto che il fine fosse legittimo e il mezzo fosse corretto. In questo caso si è trattato di voci isolate, perché pressoché unanime, invece, e particolarmente severa, è stata la disapprovazione degli strumenti comunicativi impiegati, in questo caso considerati inappropriati anche dalla gran parte di quanti solitamente ritengono che nessuna obiezione di principio si possa sollevare al fatto che lo Stato interferisca in scelte tanto delicate come quelle relative al riprodursi o meno, che per altri, al contrario, dovrebbe rimanere nella piena libertà di ciascuno, dove alla pienezza di tale libertà concorrerebbe pure il diritto di non esser fatti oggetto di qualsivoglia forma di condizionamento o di pressione. Sono proprio questi ultimi ad aver fatto sentire con più forza la propria voce, coprendo tutto lampio spettro dellatteggiamento critico, dallo sdegno allo scherno, dalla denuncia, spesso anche vivacemente colorita, di quello che da alcuni è stato interpretato come un ridicolo tentativo di ingegneria sociale fino alla condanna di quella che ad altri è parsa unintollerabile intrusione da parte dello Stato nella sfera più intima di un individuo.
Senza rinunciare a esprimere sulla vicenda la mia personale opinione, ma lasciandola a quanto il lettore penso potrà agevolmente trarre da quanto segue, qui mi soffermerò solo su un aspetto della questione, che sta – mi si conceda lespressione– in un default semantico nel quale è incorsa la quasi totalità dei commentatori, dal più pensoso degli editorialisti al più cazzaro dei twittaroli, e affermo questo dopo opportuna verifica su tre o quattro motori ricerca: «campagna demografica» è locuzione cui stranamente si è fatto solo sporadico ricorso per definire liniziativa del Ministero della Salute (solo 3 casi su le oltre 1.200 pagine che toccavano largomento), eppure era pacifico che di campagna demografica si trattasse, come almeno a chi lha polemicamente accostata a quella promossa dal regime fascista nel 1927 non poteva sfuggire. Fuor di dubbio che fosse una «campagna»: un Piano Nazionale per la Fertilità (tutto in maiuscolo), un calendario di manifestazioni pubbliche a sostegno, un apposito sito web e una nutrita batteria di spot – limitandoci alla parte visibile della macchina – non dovrebbero sollevare obiezioni allaffermazione che si fosse di fronte a un «insieme di azioni volte a un determinato fine, economico, igienico, politico, scientifico» (Treccani). Fuor di dubbio, altresì, che alcuni obiettivi del Piano Nazionale per la Fertilità («informare i cittadini sul ruolo della fertilità nella loro vita, sulla sua durata e su come proteggerla evitando comportamenti che possono metterla a rischio», «fornire assistenza sanitaria qualificata per difendere la fertilità, promuovere interventi di prevenzione e diagnosi precoce al fine di curare le malattie dellapparato riproduttivo e intervenire, ove possibile, per ripristinare la fertilità naturale» e «sviluppare nelle persone la conoscenza delle caratteristiche funzionali della loro fertilità per poterla usare scegliendo di avere un figlio consapevolmente ed autonomamente») siano esplicitamente finalizzati a «operare un capovolgimento della mentalità corrente volto a rileggere la fertilità come bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società», dunque dichiaratamente piegati a strumenti propagandistici nel momento stesso in cui si assume che informazione e assistenza non possano servire altro interesse che quello di una crescita demografica.
E allora perché tanta fatica – sia da chi l’aveva promossa, sia dai pochi che l’hanno approvava in toto, sia dai tanti che ne hanno contestato il mezzo e/o il fine – a parlare di «campagna demografica»? Sembrava che tutti l’avessero sulla punta della lingua, ma non usciva dalle labbra. Perché la più appropriata formulazione tecnica di un tal genere di operazione propagandistica non ha trovato modo di offrirsi come oggetto della questione nellesatta portata del significato che nel suo significante trova piena rappresentazione della crescita demografica come fattore geopolitico? Per dirla in modo più semplice: comè che a nessuno è venuto in mente di far presente che, dagli attuali 7 miliardi di abitanti sulla Terra, nel 2050 passeremo comunque ai 9, anche se in proporzione gli italiani dovessero essere assai meno, e che dunque il bisogno di infoltire la popolazione della Penisola non è al servizio di alcun dettato etico, non risponde ad alcuna premura relativa alla specie umana, ma è semplicemente una residuale forma di nazionalismo? Credo che tutto questo trovi ragione in un limite culturale assai più diffuso di quanto sembrerebbe lecito immaginare. Insomma, non siamo poi così al sicuro: l’avventurismo di marca sciovinista non ci è precluso del tutto. 

giovedì 1 settembre 2016

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Beatrice Lorenzin è diventata mamma a 44 anni, evidentemente non aveva nessuno a metterle sotto il muso una clessidra per dirle che doveva sbrigarsi, sennò non aspettava tanto.


martedì 30 agosto 2016

Contrordine, foglianti!

Contrordine, foglianti! Non tutto ciò che è naturale fa legge cui obbedire. Sia chiaro: per i matrimoni gay, la fecondazione assistita, la diagnosi pre-impianto, laborto terapeutico, leutanasia, tutto è come prima, e sia lodato il Disegno Intelligente, lode al creato per come Dio vha impresso dentro il suo segno; per il terremoto, no, via libera al lamento su quanto la Natura sia malvagia, e ben venga la citazione di Giacomo Leopardi.
Nel caso possano sorgere dubbi, come criterio orientativo valga la regola dettata dal signor direttore, quello smilzo, ma assai meno sottile del signor fondatore: «La natura – dice – non ci piace in assoluto, ma ci piace solo se fa quello che ci aspettiamo dalla natura» (Il Foglio, 30.8.2016). Certo, si poteva dirlo in modo diverso, con qualche ghirigoro in più, in modo che non sembrasse un dar la pagella a Dio (bravo in biologia, scadente in geologia), ma non cè fretta, il giovanotto deve ancora crescere.  

Sciacalli

C’è il tizio che, appresa la notizia, sale in auto, raggiunge i luoghi devastati dal terremoto e si mette a rovistare fra le macerie alla ricerca di denaro o di altri beni appartenenti a chi nel crollo della propria casa, spesso tirata su col lavoro di una vita, ha trovato la morte o ha perso i propri cari: esecrabile, non c’è alcun dubbio. Non meno esecrabile dell’imprenditore edile che si rallegra dell’accaduto nel quale non riesce a vedere altro che l’occasione di una ricca commessa. E il giornalista che con la scusa di informare smercia la sua oscena pornografia del dolore? E il suo collega? Parlo di quello che, in alternativa, mentre le squadre di soccorso ancora estraggono morti e feriti da cumuli di travi e calcinacci, suggerisce di pensare all’accaduto come a un’opportunità di rilancio per l’economia che possa favorire il tanto arreso rialzo del nostro afflitto Pil. Esecrabili anche loro, senza dubbio. Sciacalli, come si è soliti dire. Come quelli che «la tragedia del terremoto ci interroghi sui nostri peccati e sull’abominio delle unioni civili», come quella che nel terremoto di Amatrice intravvede il karma che rende giustizia al suino: più cretini che sciacalli, ma sciacalli. C’è un genere di sciacallaggio, tuttavia, che in occasione di catastrofi naturali sembra essere ampiamente tollerato: al prete è consentito fare la scarpetta intingendo il suo pezzo di pane nel sangue di chi è morto e nelle lacrime di chi è sopravvissuto.
«Eventi come questi – dice monsignor Francesco Cavina, vescovo di Carpi – ci inducono a riconsiderare la verità sull’uomo e sul creato. È sufficiente un attimo: la terra trema e possiamo perdere ogni cosa, inclusa la vita. In pochi secondi. L’uomo che si crede signore assoluto e padrone della propria esistenza vede sgretolarsi in un attimo ogni umana certezza. È proprio in tragedie come questa che si ha la dimostrazione di come noi siamo tutto meno che autosufficienti. Siamo creature che dipendono da un Altro, ed è inevitabile che dinanzi a catastrofi simili si aprano spazi al trascendente, che vadano oltre la mera dimensione orizzontale».
Inizia male, Sua Eccellenza, molto male. Che eventi come questi possano farci perdere ogni cosa, inclusa la vita, lo sapevamo già da prima che si ripetessero come è accaduto in questa occasione: in cosa dovrebbero farci riconsiderare la verità sull’uomo e sul creato che non ci fosse stato possibile aver già considerato? La terra ha tremato, le case sono crollate, sotto il loro crollo c’è chi ha perso la vita: cosa c’è di nuovo rispetto ad altri eventi in tutto simili a questi? E chi è che può sentirsi signore assoluto e padrone della propria esistenza al punto da poter escludere che sarà mai toccato dalla cieca furia degli elementi? Nessuna chiusura al trascendente si nutre di questa certezza, semmai è il contrario («Dio è per noi rifugio e fortezza, perciò non temiamo se la terra trema» - Salmo 45).
Ma poi, se siamo creature che dipendono da un Altro, ne siamo dipendenti anche come potenziali vittime di simili eventi? In altri termini: è quest’Altro che dispone della nostra vita, e a uno la toglie, permettendo venga schiacciato da un pilastro, e a un altro la lascia, trovandogli riparo sotto un arco? «Trovare un senso a quanto accade è impresa ardua». Non c’è dubbio, soprattutto a dare per scontato che ve ne sia uno. Perché, se è vero che «non si può spiegare tutto»,  è altrettanto vero che qui c’è assai poco di inspiegabile. Diremmo che l’inspiegabile subentri solo a dar per certo, come Sua Eccellenza ci invita a fare, che il terremoto l’abbia voluto o consentito – nemmeno lui sembra avere le idee troppo chiare – un «Dio che è Amore»: «Dio ha in ogni caso e sempre un piano di amore che si sviluppa secondo linee a noi incomprensibili, ignote, misteriose. Direttrici che non sono le nostre, umane. Anche nella tragedia c’è un senso e il nostro compito è chiedere a Dio un aiuto affinché possiamo comprendere il bene che esiste nella tragedia».
Posto l’inspiegabile dove non c’era, ecco il bisogno della «la fede che viene in soccorso» a far scorgere il bene dove sembrerebbe esservi il male. Parla per esperienza personale, Sua Eccellenza: «In Emilia, piano piano, abbiamo scoperto questo bene che può sgorgare dal disastro. La fede aiuta a vederlo: le popolazioni che guardavano agli antichi luoghi di culto chiusi, aspettando la loro riapertura, la nascita di tante vocazioni religiose». Lo sciacallo che rovista fra le macerie facendo incetta di portafogli e catenine d’oro, al confronto, diventa un galantuomo.

martedì 23 agosto 2016

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Che Matteo Renzi si sia rimangiato l'impegno, più volte solennemente assicurato, di trarre conseguenza da un'eventuale bocciatura referendaria della sua riforma costituzionale con la presa d'atto del «fallimento della sua esperienza in politica», considerandola perciò «conclusa», senza riuscire a ritenere possibile altro che «tornarsene a casa», mi pare sia fuori discussione: in relazione al valore che si assegna alla parola data, si può dire sia venuto meno alla più sacra delle norme che regolano i rapporti tra persone responsabili o semplicemente ci abbia ripensato. Su questo punto non caveremo ragno dal buco, perché il valore che si assegna alla parola data è relativo, come relativo è il concetto di responsabilità. Sta di fatto che, nelle dichiarazioni che assicuravano quell'impegno, a motivarlo comparivano regolarmente il coraggio, la dignità e la coerenza. Una coerenza, sia chiaro, ben al di qua (o ben al di là, fate voi) del tener fede a quanto detto, ma più semplicemente forma di ciò che dalla causa passa all'effetto, come elemento ad essa connaturato. Ecco, allora, che, anche volendo concedere che questo rimangiarsi la parola data altro non sia che un mero aver cambiato idea, resta in sospeso la questione del coraggio e della dignità, che ad allegare alla coerenza non è stato altri che Matteo Renzi. Già lo sapevamo, ma è qui che, ancorché implicita, c'è l'ammissione: «Sono un cazzaro senza alcuna dignità, e un cagasotto».

lunedì 22 agosto 2016

Sarà per la prossima volta, chissà

La tecnica di cui Luciano Violante ci dà saggio ne Le ragioni del Sì  (L’Huffington Post, 18.8.2016) è stata brevettata venticinque secoli fa dal retore Protagora di Abdera, padre della sofistica: sta nel dar forza agli argomenti in sostegno della propria tesi col contrapporli a quelli in sostegno della tesi opposta che si è opportunamente provveduto a manipolare con l’insinuare che a fondamento essi abbiano un difettoso impianto logico o, peggio, un vizio morale. Nel caso del referendum sulla riforma costituzionale, la contrapposizione sarebbe tra chi vuole un cambiamento che si dà per scontato sia necessario e urgente, ma soprattutto possibile in un sol modo, quello prospettato dalla riforma in discussione, e chi ad esso si oppone perché contrario ad ogni cambiamento.
Già il ricorso a tale espediente retorico è irritante, ma quello che qui lo rende particolarmente odioso è il presentarlo come una pacata disamina delle ragioni del Sì e di quelle del No che non dovrebbe rendere difficile riconoscere quanto le prime siano superiori alle seconde alla sola condizione di rigettare quello che sarebbe un pregiudizio: bontà sua, Luciano Violante ci consente di continuare a ritenere che la riforma costituzionale debba essere bocciata, ma solo a prezzo di ammettere, ancorché implicitamente, che siamo intellettualmente disonesti. Tutto sommato, Maria Elena Boschi ci aveva trattato meglio, limitandosi a dire che votare No sarebbe fare un favore all’Isis.
Intellettualmente disonesti, perché Luciano Violante non trascura le nostre obiezioni, anzi, le fa a tal punto sue da concedersi il banalizzarle e il caricaturizzarle, per poi cestinarle. Oddio, non è che le prenda in considerazione tutte. Per esempio, sulle dinamiche del processo legislativo che la riforma costituzionale introdurrebbe, non dice nulla, ma fa niente, gli sarà scappato, in fondo a tutti scappa sempre qualcosa, chissà non voglia tornare sulla questione, probabilmente metterà una toppa.
In tal caso, ci auguriamo voglia soffermarsi anche su quanto in questa occasione ha glissato come si trattasse di materia irrilevante. In ordine sparso: ad approvare la riforma costituzionale ora al vaglio referendario è stato un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale; nel programma elettorale del partito che se ne è fatto promotore non se ne faceva cenno; il processo legislativo che ha prodotto tale riforma è stato contrassegnato da un costante ricorso al porre la questione di fiducia, dalla rimozione dei parlamentari dissidenti dalla commissione per gli affari costituzionali, da vergognosi episodi di ricatto, di intimidazione e di trasformismo; pareva che il problema fosse il bicameralismo, e il problema rimane; si dovevano ridurre i costi, e a conti fatti il risparmio è risibile; sembra che il referendum sia una cortese concessione del governo, e invece è dovuto per il mancato raggiungimento dei due terzi dei voti parlamentari in favore della riforma; un Senato, che nelle intenzioni doveva essere abolito, diventa una mostruosità in ordine a composizione e prerogative...
Chissà, può darsi che Luciano Violante, prima o poi, troverà un attimino. Chissà, può darsi che la prossima volta possa perfino fare a meno di polverosi mezzucci retorici. 

sabato 20 agosto 2016

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Gli mancano ancora tre mesi per compiere cinque anni e scala una parete verticale alta nove metri in meno di un minuto: da me ha preso solo la erre moscia, tutto il resto dalla madre.

venerdì 19 agosto 2016

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Paolo Bechis ci informa che Palazzo Chigi è al quinto tentativo di derattizzazione da quando ospita Matteo Renzi, falliti miserevolmente i quattro precedenti, e imperdonabilmente spreca l’occasione offertagli per una pagina di grande letteratura, buttando giù un pezzullo sciatto e incolore, nel quale perfino l’ironia ha il fiato corto, e sì che il materiale c’era per un esilarante poemetto eroicomico, per una rabbrividente fiaba gotica, per un affascinante romanzo allegorico... Un rimprovero che forse è ingiusto, perché  in fondo Bechis è solo un giornalista, ma si provi a immaginare uno scrittore vero, di quelli che ormai non ce n’è più, a descrivere il momento in cui gli occhi di un topo trovano riflesso in quelli di un Presidente del Consiglio, e viceversa, si provi a immaginare quale straordinaria prova letteraria possa venir fuori dalla descrizione dei pensieri che in quel momento attraversano la mente del topo.

lunedì 15 agosto 2016

Précis de chinoiseries

Sono in tanti gli italiani a pensare sia legittimo che in Italia un musulmano possa liberamente professare il proprio credo, ma nello stesso a ritenere che le autorità preposte alla sicurezza nazionale abbiano pieno diritto di espellere un imam le cui prediche possano metterla a rischio. Costoro non dovrebbero faticare troppo a capire le ragioni delle autorità cinesi, che già da qualche tempo hanno concesso ai cattolici la pressoché piena libertà di culto, ma pretendono che i vescovi siano di loro gradimento, a garanzia che la loro predicazione non metta in discussione le prerogative delle Stato.
Il paragone sembrerà asimmetrico, comprendo, ma solo se si dà per scontato che le autorità cinesi siano tenute ad avere un’idea di sicurezza nazionale uguale a quella che hanno quelle italiane, il che non è, né si può pretendere, data l’elasticità di un concetto come quello di Stato laico, in Italia tanto lasco da non consentirci più neppure di avvertire come ingerenze clericali quelle che in Cina sarebbero considerate istigazioni alla sovversione. È che, a consentire anche in minima misura che la religione non resti cosa tutta privata, e possa avere quella rilevanza pubblica che essa immancabilmente pretende, la laicità diventa giocoforza principio estremamente duttile, e necessariamente si adatta alle misure che lo Stato si dà come opportune per metter freno all’irriducibile tentazione che ogni religione manifesta a eroderne le legittime prerogative. Quel che voglio dire è che, se si tiene conto dell’asimmetria di contesto tra Italia e Cina, il paragone ha la sua bella simmetria, tutt’è a saper vedere l’elemento che è in comune a un imam che nel chiuso di una moschea esorti a violare le leggi dello Stato che lo ospita e a un vescovo che dal suo pulpito, ma pure dalle pagine dei maggiori quotidiani nazionali, e dagli schermi di tutte le emittenti televisive, a giorni alterni tuoni contro questa o quella decisione del Parlamento, ponga veti a questa o quella scelta del Governo, scagli strali a questa o quella sentenza della Magistratura: un vescovo che facesse tutto questo in Cina non equivarrebbe ad un imam che in Italia pretendesse la sharia?
Regge ancor meglio, il paragone, a considerare che il vescovo è inserito in una struttura gerarchica che lo rende a pieno titolo esponente qualificato di una confessione religiosa, espressione di un mandato che lo fa pastore di un gregge che gli deve obbedienza come fattore imprenscindibile del credo, mentre invece l’imam raccoglie il credito che riesce a trovare, e trovarne tanto o poco non toglie e non aggiunge nulla al fatto che la sua rimane una personale lettura del Corano, che un altro imam può addirittura ritenere erronea. In altri termini, impacchettare un imam, metterlo su un aereo e rispedirlo da dove è venuto non è fare offesa ad Allah, a Maometto e a tutti i musulmani, mentre dire a un vescovo «Eccelle’, e mò ci hai rotto er cazzo» equivale pressappoco a ricrocifiggere Cristo.
Ecco perché, sebbene a nessun cattolico cinese sia oggi fatto divieto di professare la propria fede, di dichiararla apertamente, di andare a messa, di battezzare i propri figli, eccetera, la Chiesa di Roma sente comunque che in Cina sia violata la libertà di culto per il solo limite di non poter nominare vescovi che eventualmente possano risultare sgraditi alle autorità cinesi. Questo spiega perché in Cina ci siano due Chiese cattoliche che in nulla differiscono sul piano teologico e su quello dottrinario, ma che hanno inconciliabile momento di distinguo su una questione canonistica, che poi, nel fondo, è ecclesiologica: una, la più consistente sul piano numerico, accetta le condizioni poste dalle autorità cinesi e in cambio ne riceve il titolo di Chiesa cattolica ufficiale, mentre l’altra si considera perseguitata solo perché al Papa non si concede di poter scegliere i vescovi che vuole, e per vezzo si dice clandestina, anche se in realtà è da tempo che vive alla luce del sole e i suoi vescovi, graditi a Roma e sgraditi alle autorità cinesi, non sono neanche più fatti oggetto di restrizioni come fu in un passato neanche troppo lontano.
Situazione insostenibile, capirete. E la Chiesa di Roma, infatti, non riesce più a sostenerla, perché lasciarla così com’è significherebbe di fatto creare le condizioni per una Chiesa autonoma da Roma, in tutto cattolica, tranne che quel tratto che l’apparenterebbe all’anglicanesimo, con un clero incardinato nella struttura dello Stato piuttosto che nella piramide gerarchica cui in cima siede il Papa. Con una crescita demografica che non accenna a mostrare battute d’arresto, ogni spiraglio dato alla libertà di professare una fede metterebbe in condizioni estremamente favorevoli la Chiesa cattolica ufficiale, che ne godrebbe enormemente nella competizione proselitaria: sarebbero poste le premesse per uno scisma, tremenda sciagura, alla quale è necessario mettere da subito riparo, fosse pure accettando qualche compromesso, che tuttavia non può mostrare segni di cedimento su una questione che è di principio, e di sommo principio.
È evidente che in gioco debba esser messo il meglio del meglio di quella bimillenaria ipocrisia di cui la Chiesa è stata ed è insuperabile maestra, e l’intervista che monsignor Giuseppe Wei Jingyi ha concesso a Vatican Insider per la firma di Gianni Valente è un saggio eccelso di quest’arte, sicché vale la pena di una lettura non superficiale.
Sua Eccellenza «è un esponente noto dell’area ecclesiale cinese cosiddetta clandestina» ed è chiamato a esprimere un parere sull’apertura di una linea di dialogo tra Pechino e Santa Sede di cui si è fatto promotore il cardinale John Tong, altrettanto noto esponente dell’area ecclesiale cinese cosiddetta ufficiale, ed è chiaro che a chiunque tornerebbe estremamente arduo conciliare la superiore esigenza di trovare una soluzione accettabile con le difficoltà poste dalle posizioni di partenza, apparentemente irriducibili. Nondimeno Sua Eccellenza ha dalla sua una formidabile risorsa: qualsiasi cosa il Papa deciderà al riguardo sarà senza dubbio il meglio, dunque nel dire ciò che pensa gli basta far presente che il Papa non potrà mai decidersi ad una soluzione che svenda il senso di tante sofferenze subite da lui e dal suo gregge, fedeli in tutto a Roma, a differenza di quel mezzo eretico d’un Tong, da sempre pappa e ciccia col regime di Pechino. Suppongo sia chiaro il filo sul quale Wei è chiamato a mostrare le sue doti di equilibrista e, vedrete, vi strapperà l’applauso.
È che l’ipocrisia di un chierico, quando il chierico è di pregio, ha una grazia e una naturalezza che l’ipocrisia di un laico non potrà mai aspirare neppure ad eguagliare. 

Come vescovo cinese, cosa l’ha colpita maggiormente nell’intervento del cardinale John Tong sui possibili sviluppi delle relazioni tra Santa Sede, Chiesa in Cina e governo cinese riguardo alla nomina dei vescovi?
L’articolo di cardinale Tong sulla “Comunione della Chiesa in Cina con la Chiesa universale” mi ha impressionato per la sua novità. Quello che mi ha più impressionato è la luce che Tong ha ricevuto dal cielo, che lo ha illuminato e gli ha fatto guardare con nuovi occhi tutta la questione. Lui parte dal modo scelto da Dio per dialogare con l’uomo, e suggerisce di guardare con quello stesso sguardo anche il dialogo tra la Santa Sede e Pechino. Per questo lui riesce a prefigurare sviluppi così importanti e positivi.
[Il cardinale Tong è stato illuminato dal cielo, dunque è chiaro che prima non lo fosse.]

Il cardinale Tong scrive che «la Santa Sede ha l’autorità di stabilire la modalità più opportuna per la nomina dei vescovi in Cina», e che il Papa «ha l’autorità specifica di considerare le condizioni particolari della Chiesa nel Paese e stabilire leggi speciali, che però non violino i principi di fede e non distruggano la comunione ecclesiale». I vescovi cosiddetti “clandestini”, compreso lei, sono pronti a riconoscere questo fatto?
Esercitando la propria autorità in queste cose, il Papa e la Santa Sede di certo non contraddicono la fede e non danneggiano la comunione e l’unità della Chiesa. I fedeli cinesi che vivono in Cina, clandestini o ufficiali, tutti sono cattolici. E i cattolici sono fedeli alla Sede apostolica. È per rimanere fedele alla Sede apostolica di Roma che io ho accettato di diventare un vescovo clandestino! Come potrei adesso non accettare ciò che viene indicato dalla Santa Sede? È per confessare esplicitamente la nostra fedeltà al Papa e alla Sede apostolica che siamo diventati una comunità clandestina, cioè non registrata ufficialmente presso gli apparati civili. E allora, come potremmo adesso rifiutare ciò che viene dal Papa e dalla Santa Sede?
[Guardi, caro Valente, che a cambiare idea è stato Tong, non io. È lui che apre alla possibilità che vengano finalmente riconosciute le prerogative della Santa Sede sulla scelta dei vescovi, non io che le ho sempre avute ben presenti.]

Nel suo lungo saggio, il cardinale Tong scrive: «Alcuni sono preoccupati che le trattative tra la Cina e il Vaticano abbiano come conseguenza l’abbandono dei vescovi non ufficiali». Lei, che è un vescovo non riconosciuto dal governo, cosa ne pensa?
Mi domando: quali possono essere le prerogative legittime delle comunità clandestine che rischiano di essere contraddette o frustrate nelle trattative tra la Cina e la Santa Sede? Esiste il Diritto canonico e il Diritto civile, ma da ambedue i punti di vista, il dialogo tra la Santa Sede e il governo cinese non sacrificherà nessuna istanza legittima delle comunità clandestine. Riguardo alle preoccupazioni che nel negoziato la Sede apostolica possa dimenticare i vescovi in prigione, esse appaiono del tutto prive di fondamento. Come può la Chiesa, che è madre, dimenticare i propri figli che confessano anche a prezzo di sofferenze la sua fede? È impossibile, perché è impossibile che lo Spirito Santo abbandoni la Chiesa.
[Ma, dico, vuol scherzare? Si apre il dialogo sulla legittimità della nomina dei vescovi da parte della Santa Sede e noi, che sul punto siamo sempre stati fedeli a Roma sebbene il prezzo fosse la persecuzione, dovremmo temere di essere sacrificati nelle trattative?] 

Il cardinale Tong scrive che la Santa Sede, con l’accordo in discussione, vuole favorire la piena comunione della Chiesa in Cina, e immagina una Conferenza episcopale che comprenda tutti i vescovi in comunione con il Papa, dopo che si saranno risolti i casi di vescovi illegittimi e scomunicati. Potrebbero esserci resistenze nelle comunità cinesi, dopo tanti decenni di divisione?
La Chiesa di Dio che cammina nella storia è fatta di peccatori. Se prende forma una Conferenza episcopale cinese in comunione con il Papa, tutti questi vescovi saranno persone convertite per camminare insieme verso il Regno di Dio. Questa visione, questa prospettiva è bellissima. È quello che noi speriamo di vedere da tanto tempo, quello per cui preghiamo da tanto tempo. La comunità dei fedeli cinesi non avrà obiezioni. Ma speriamo anche che questo sia accompagnato da frutti di conversione in tutti noi. È un tempo in cui tutti dobbiamo guardare alla condizione concreta del Figliol Prodigo narrata nel Vangelo, quel figlio che era stato lontano per anni e per vivere era finito a accudire i maiali. Si può immaginare che puzzasse di maiale anche lui, e che quindi, tornando a casa, si sarà lavato appena possibile, perché nessuno vuole rimanere vicino a persone che puzzano. Non vogliamo vedere il Figliol Prodigo che dopo essere stato abbracciato dal padre ritorna a trafficare coi maiali, a rivoltarsi nel loro fango, e non chiede di essere liberato dalla sporcizia e dal cattivo odore. Se qualcuno si comporta così, e ritorna nel fango, vuol dire che non ha nessuna identità, nessun senso d’appartenenza, e tutti fuggiranno lontano da lui.
[Senta, le cose stanno a questo modo: noi non ci siamo mai allontanati dalla casa paterna, sono Tong e i suoi ad averlo fatto, e ben venga che vi ritornino, ma tocca a loro fare penitenza e promettere di non tornare ad essere più fedeli a Pechino che a Roma. Non mi faccia esser più duro, ho da mantenere un tono pio, sennò mi si rovina l’aureola.]

Ha sentito qualcosa sui contenuti delle trattative tra Santa Sede e Governo cinese?
Noi non conosciamo i particolari, ma sappiamo che stanno lavorando, i lavori procedono, e quindi vuol dire che le cose vanno avanti. Non serve mettere fretta, perché è bene che si lavori con calma. Ma nello stesso tempo, noi speriamo che si arrivi presto a un risultato concreto, che sia buono per tutti. E prima arriva, meglio è.
[Passi alla prossima domanda, questa è imbarazzante.] 

Secondo alcuni commentatori, il dialogo è illusorio e addirittura nocivo se prima non si elimina il peso dell’Associazione patriottica. Le cose stanno così?
Quando due realtà cominciano a trattare devono essere libere di parlare su tutto. Anche sull’Associazione patriottica. Ma senza porre pre-condizioni. Noi dobbiamo dire quello che pensiamo, anche dare suggerimenti, ma il Papa deve sentire soprattutto il nostro totale sostegno, e che ci fidiamo di lui. Non dobbiamo essere noi a pretendere di condizionarlo, a dire quello che deve o non deve fare, o addirittura pretendere di imporgli le nostre idee. Nel Vangelo, Gesù ha affidato a Pietro il compito di confermare nella fede i suoi fratelli. Lo stesso Gesù assiste il Papa in questo compito. E noi non dobbiamo avere la pretesa di insegnargli come si fa.
[Tutto il contendere è sempre stato sul fatto che noi eravamo fedeli a Roma e loro no. Veda un po’ lei se, nel cercare di trovare un accordo, sia possibile cambiare le carte in tavola al punto da penalizzare ulteriormente noi per accontentare loro. Se lo fa, il Papa dà segno di non essere assistito dallo Spirito Santo. Lo scriva, così glielo riferiscono.]

Ma se uno, in coscienza, ha dei dubbi?
Il criterio da seguire non sono le proprie opinioni, ma il Vangelo e la fede degli Apostoli. Nessuno può credere che le sue idee siano superiori alle parole di Gesù. E Gesù, nel Vangelo, ci ha detto anche di fidarci di Pietro, dell’Apostolo che lo aveva tradito e che Lui ha perdonato, perché Pietro lo sostiene Lui stesso. Certo, bisogna seguire la verità che percepiamo nella nostra coscienza. Ma è la fede che illumina la nostra coscienza, e non viceversa.
[Dubbi, un cazzo. Il Papa dimostra di essere un buon pastore solo se riporta la pecorella smarrita nell’ovile.] 

Quali sono le grandi opportunità e anche le insidie più pericolose che Lei vede, come pastore, nel presente e nel futuro della Chiesa in Cina?
In questo tempo, nella società cinese si avverte che c’è bisogno di punti di riferimento morali, perché la corruzione rovina e distrugge tutto. Quindi si percepisce una aspirazione diffusa al bene, a fare le cose rispettando gli altri e il bene comune. E in questo modo, secondo me, si diffonde anche un clima favorevole allo spirito del Vangelo. Vediamo che possiamo collaborare. La società cinese si aspetta da noi cristiani un contributo positivo e costruttivo. Il rischio è che non approfittiamo di questa circostanza favorevole, perché siamo presi e ci perdiamo in altre cose. Sarebbe come una rinuncia a annunciare il Vangelo, in un momento in cui tanti potrebbero accoglierlo con gioia.
[Guardi, qui in Cina il boom economico ha scatenato un bel po’ di istinti. Ci offriamo al regime come instrumentun regni per aiutarlo a contenerli, facciamo questo da secoli. E ora il regime può accettare le nostre richieste, è diventato un prezzo che può pagare senza troppo peso in cambio di ciò che promettiamo.]

Sempre il cardinale Tong, alcuni mesi fa, aveva ribadito l’opportunità di “cinesizzare” la Chiesa in Cina, così che essa non sia mai più percepita come un fattore di colonizzazione religiosa. È un processo insidioso?
Ma già Matteo Ricci non ha portato in Cina il “Vangelo italiano” o il “Vangelo francese”. Ha portato il Vangelo. E ha percorso la via cinese per farlo arrivare ai cinesi.
[Tong sa bene che tra Pechino e Roma, prima o poi, una soluzione si troverà. Cerca di fare il furbetto per ritagliarsi una posizione di privilegio, questo è tutto. Figurarsi se dovevamo aspettare lui per la lezioncina sull’inculturazione del cattolicesimo, ma ci faccia il piacere.]

Le omelie e i discorsi di Papa Francesco continuano a essere facilmente accessibili, in terra cinese?
Certo. Vengono pubblicati su tanti siti internet, e passano da persona a persona. Stiamo seguendo passo passo tutti i suggerimenti legati all’Anno Santo della Misericordia. Su internet vedo anche che tanti cinesi vengono a trovare il Papa alle udienze generali, a Roma, e lo incontrano a piazza San Pietro. Lui li saluta spesso. Rispetto al passato, per i cinesi è diventato più facile arrivare a Roma e vedere o addirittura salutare il Papa. C’è una vicinanza visibile con il Vescovo di Roma, che prima non c’era. Le cose sono cambiate e continuano a cambiare.
[Ma certo, sono finiti i tempi dell’ateismo di Stato e per noi cattolici, mi consenta di citare Mao, grande è la confusione, ottima è l’opportunità.]

Potrà evolvere anche il ruolo dell’Associazione patriottica?
Personalmente, spero che col tempo essa diventi una cosa del passato. Perché tanti hanno un brutto ricordo del ruolo avuto da essa, in tante situazioni. La cosa importante è trovare vie nuove per aiutare i cattolici anche a manifestare il proprio amore per la Patria.
[Ormai ha fatto il suo tempo, ora ci penseremo noi.]

Avrà seguito la vicenda di Thaddeus Ma Daqin, vescovo di Shanghai, e del sua intervento sul ruolo positivo dell’Associazione patriottica. Alcuni lo hanno etichettato come un voltagabbana, un traditore.
Nessuno si può permettere di giudicare, diffamare e bastonare gli altri come traditori. Nessuno ha diritto di farlo, e chi lo fa fa una cosa molto cattiva. Cosa ne sappiamo noi di quello che c’è nel cuore di Thaddeus Ma Daqin, dopo l’esperienza che ha vissuto, e dopo che gli è stato impedito per quattro anni di fare il vescovo?
[Quell’uomo è un verme, ma non è bello dirlo.]

Lei riesce a immaginare meglio di noi quello che è passato nel cuore del vescovo Ma.
Non ho avuto le sue stesse esperienze. Ma la solitudine sì,  e anche il fatto di essere portato in un posto o in un altro. In quelle circostanze, non sei mai solo: sei davanti a Dio, e quello che pensi e fai, lo pensi e lo fai davanti a Dio. Magari i fedeli non li vedi, magari altri ti hanno tradito, ma sei sempre davanti a Dio. E questo vale di più. Preghiamo per Ma Daqin con rispetto, senza permetterci di giudicare il cuore degli altri.
[Guardi che anch’io ne ho passate di brutte, ma non ho ceduto.] 

Padre Lombardi, allora direttore della Sala stampa della Santa Sede, aveva detto che il Papa prega per Ma Daqin e per tutti i cinesi.
Il Papa è un padre, guarda e giudica le cose con occhio di padre. Il vescovo Ma Daqin è un uomo che prega, il Papa lo sa e ha fiducia in lui. Per un padre, la cosa più importante è mostrare il suo amore per i propri figli.
[Ma certo, per chi pregare, se non per i peccatori?]

venerdì 12 agosto 2016

Coda (Bè, Mantelli’, ...)

DallIstat arrivano numeri che non hanno bisogno di commento, perché parlano da soli: da due anni e mezzo siamo nelle mani di un pericolosissimo cretino, uno buono solo a picchiettare col ditino sulla tastiera del suo telefonino cazzate del tipo #cambiaverso, #lavoltabuona, #italiariparte, mentre il paese affonda nella merda, e chi lo fa notare si becca limputazione di disfattismo, lepiteto di gufo, il sospetto che le critiche siano mosse da unantipatia tutta epidermica, un pregiudizio tutto umorale, chissà, forse anche un pochino malato.
Non è del tutto chiaro cosa abbia consentito a questo miserabile buffone di potersi spacciare per Uomo della Provvidenza, ma è evidente il concorso di quanti hanno deciso di dargli fiducia, fosse pure con riserva, fosse pure col solo limitarsi a criticare chi lo criticasse, sempre pronti a ravvisare qualche difetto nella forma, indizio di chissà quale oscura visceralità, mai disposti a scendere nel merito, se non per limitarsi a liquidarlo come un futile pretesto.
Ovviamente è inutile aspettarsi che qualcuno paghi per lo scempio che in questi ultimi due anni e mezzo si è consumato col dargli questa fiducia, perché non pagherà neppure lui, né Boschi, né Lotti, né Sensi, tuttal più resterà fregato qualcuno fra i più stupidi della sua banda, il meno lesto a metter freno allabbrivio dellarroganza per rifugiarsi in qualche tragicomica resipiscenza. È un paese, questo, che non chiede mai il conto, che si limita a mugugnare o a piagnucolare, che i bagni di sangue riparatori si limita a sognarli ad occhi aperti. 

Nessuno pagherà, tanto meno – riporto in virgolettato un commento di Massimo Mantellini al post qui sotto – chi «fra Renzi ed il mondo intorno h[a] scelto Renzi, magari sbagliando, magari pronto a cambiare idea quando la misura sarà per [lui] colma, e ad incazzar[s]i, se [gl]i pare il caso».
Bè, Mantelli, fattelo parere in fretta, il caso. Leggi i numeri dellIstat e cerca di cambiare idea, ché la misura direi sia stracolma, e strabocca. Anche da tempo, direi, ma non pretendo troppo, mi basta che tu riconosca sia colma adesso, oggi. Non cè bisogno che tu cambi idea incazzandoti, sarebbe pretender troppo da chi è nato coi modi fini e lanimo pien di garbo (e tu lo nacquesti), basterebbe un commentino dei tuoi ai numeri dell’Istat, a quello che significano per milioni di disgraziati intontiti dalla propaganda di regime (oh, regime morbidissimo, sia chiaro, non appigliarti al termine, lo sai che ho il vizio dell’iperbole), e tra rigo e rigo metterci unincrespatura di labbra, qualcosa che rilevi almeno a me che, se non colma, la misura ti paia – come dire – colmetta.
Fai con calma ovviamente, avrai sicuramente per le mani un post sull’ultimo modello di smartphone che sta per esser messo sul mercato e non vorrei scombinarti le priorità. Però da qui a fine anno cerca di trovare un minutino. 

mercoledì 10 agosto 2016

C’è quartismo e quartismo / 2

Quando dice: «Odio chi non parteggia», Antonio Gramsci non si limita a rivelarci unindole incapace di concepire la vita in altro modo che come impegno attivo, coraggioso, generoso («l’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita»), né si limita a dichiarare la posizione morale di chi condanna chi a questo impegno si sottrae («chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto»): fa qualcosa di più che biasimare gli egoisti, i pusillanimi e gli indolenti: coglie in essi il ruolo assunto nel corso delle vicende umane («l’indifferenza è il peso morto della storia [...] opera potentemente nella storia […] passivamente, ma opera»), sussumendolo allinorganico («è la fatalità [...] è la materia bruta che strozza l’intelligenza»).
Pagina dura, senza dubbio, tanto più dura oggi, centanni dopo. Oggi chi non parteggia gode di ottima fama: ci appare serio, equilibrato, immune dalle basse passioni che agitano i partigiani, capace di saper vedere in tutto un pro e un contro, perciò in quella materiale impossibilità di schierarsi che implicherebbe far torto, seppur un piccolo torto, allo schieramento opposto. Non sia mai. Terzista, dunque, quando in campo ci sono due schieramenti, quartista quando ce ne sono tre, quintista il giorno che ce ne dovessero essere quattro. Vigliaccheria? Potrebbe insinuarlo solo un attaccabrighe matricolato come Antonio Gramsci, che infatti a Torino non si perse mai una rissa, robe di cui il Pci fece sparire ogni traccia per confezionarci il santino. Peso morto della storia? Macché, chi scansa la zuffa ha posto fisso nei migliori salotti, dove la zuffa scorre sul maxischermo fra i commenti dei presenti, e i suoi sono sempre quelli più apprezzati. Cosè, d’altronde, la storia, se non ciò che se ne dice nel miglior salotto?
Diciamo la verità: non abbiamo i fondamentali per odiare chi se ne sta sempre comodo super partes, solitamente accorto – ritenerlo un caso sarebbe un ingiusto negar merito dovuto – a non rompere eccessivamente il cazzo alla pars più forte, ci è concesso solo provare invidia. Per esempio: a noi poveracci che ieri eravamo antiberlusconiani e oggi, con la convinzione di essere pure abbastanza coerenti, siamo antirenziani, rode potentemente il culo che ieri a Berlusconi, e oggi a Renzi, qualcuno riesca trovare sempre qualche pro che gli impedisca di dirsi completamente contro. Personalmente, io invidio il Mantellini.

«Una collaboratrice di un programma radio della Rai scrive su Facebook che nel suo contratto ci sono condizioni che le impediscono di citare o fare satira su Renzi», e a lui cosa salta agli occhi? Che «un certo numero di commentatori furiosamente antirenziani vedono in una simile argomentazione la pistola fumante di quanto vanno affermando da tempo sulle volgari prevaricazioni che Renzi applicherebbe a tutti i livelli». E che è, tutta sta furia, cazzo? Non sta bene, cè sentore di «un fortissimo carico ideologico». La clausola censoria del contratto? «Renzi non ha creato questa situazione, se l’è trovata davanti: e invece di rifiutarla, come aveva promesso, l’ha cavalcata. Dal mio punto di vista – una grandissima delusione». Altro che dargli del buffone, del cazzaro, riempirlo di insulti o di maledizioni, questo sì che è un colpo micidiale: sai come resterà di merda, il Renzi, quando saprà che ha deluso il Mantellini.
Sistemato il Renzi come meritava, il Mantellini passa a sistemare il resto, in nome di quel sano equilibrio che non deve mai venir meno in chi voglia evitare di inciampare nella partigianeria. «Il giornalismo italiano è da sempre, per sua essenza costituzionale, estremamente debole e chiaramente schierato. Dentro la logica del “amici-nemici” abbiamo tutti da perdere moltissimo. [...] Dentro una simile polarizzazione, con una stampa debolissima e senza identità, non si può non osservare anche il fenomeno opposto. Lo squallore giornalistico dei fogli antirenziani, le offese da asilo nido dei grillini, le bugie di una lunga serie di “giornalisti” televisivi che da 20 mesi organizzano talk show solo per attaccare Renzi (magari per astio personale prima ancora che per convinzione politica) con sempre gli stessi ospiti che dicono le stesse cose con lo stesso tono».
Non arriva a dire che la clausola censoria fosse una garanzia a tutela del Renzi, ma il senso sembra quello. Gli sarà sembrato di avere esagerato col dirsene deluso e cerca di bilanciare? Può darsi, però ecco assestargli subito unaltra mazzata: «La notizia di oggi è che purtroppo Renzi da questo punto di vista non è migliore degli altri». Ma per non sbilanciarsi troppo: «La notizia, oggi, è anche che gli altri non sono (mai stati prima e non sono nemmeno ora) migliori di Renzi».

martedì 9 agosto 2016

[...]

Quando la Costituzione recita che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49), viene spontaneo pensare che faccia obbligo ai partiti di darsi regole di vita interna che sul metodo democratico abbiano il loro fondamento. In sostanza, si è portati a credere che la Costituzione imponga ai partiti di seguire una linea politica democraticamente decisa dai propri iscritti a scadenze tali da poterla ritenere in ogni istante espressione della loro volontà, di assegnare ruoli e incarichi al proprio interno sulla base di norme certe e trasparenti che consentano di poterli considerare espressione di scelte democraticamente condivise, di arrivare alle candidature da presentare agli appuntamenti elettorali seguendo procedure di selezione che diano agli iscritti il pieno controllo sulle liste, di gestire le proprie risorse economiche rispondendone come di beni comuni, anche quando esse siano a saldo di una lunga storia.
Tutto sbagliato, non è così, e non a caso il testo dell’articolo è ambiguo, consentendo una lettura riduttiva che nel «diritto di associarsi liberamente» contempli la libertà di un partito di darsi le regole interne che meglio creda e nel «metodo democratico» semplicemente quello della competizione elettorale, sicché il concorso di «tutti i cittadini» a «determinare la politica nazionale» troverebbe nell’iscrizione a un partito semplicemente un modo di sostegno più attivo che non il solo votarlo: fu il Pci a pretendere che l’art. 49 non specificasse in modo chiaro che sulla vita interna di un partito potesse efficacemente ricadere un giudizio esterno, in modo che fosse così fatta salva la regola del «centralismo democratico», formula che, secondo Lenin, assicurava «libertà di discussione, ma unità d’azione». È errato dire, dunque, che l’art. 49 della Costituzione resta inattuato: semplicemente non fu scritto per essere attuato nel modo in cui tutti – si fa per dire – dicono andrebbe attuato, e se, per come fu scritto, sembrò potesse tornar comodo solo al Pci, la storia della Prima Repubblica mostra in modo assai eloquente che tornò comodo a tutti, perfino a chi si proclamava antipartitocratico e intanto si costruiva un partito in cui su soldi e linea politica non era lecito a nessun iscritto poter mettere becco.
I partiti italiani – tutti, quindi non fa differenza se rigettano la denominazione, preferendo quella di movimento – sono enti di fatto, non persone giuridiche, e come tali non hanno da dover render conto a chicchessia dei loro statuti, né di come è retta la loro vita interna. Ne consegue che, se non si procede prima a ridefinire la loro natura giuridica, ogni discussione sull’art. 49 della Costituzione lascia il tempo che trova: rimarranno associazioni private, e come tali potranno fottersene alla grande del «metodo democratico» che si vorrebbe imporre loro. La loro linea politica continuerà ad essere tracciata a dispetto delle tesi congressuali e dei programmi elettorali, potendo così continuare a tradire la volontà dei loro elettori e degli stessi iscritti. Ruoli e incarichi continueranno ad essere assegnati per cooptazione, sulla base del solo merito di una fedeltà da ottusi gregari, che è il miglior modo per selezionare la peggior classe politica. A compilare le liste elettorali continueranno ad essere i membri di segreteria. A disporre della cassa, per lo più piena di denaro pubblico, continuerà ad essere chi di fatto – e in sostanza anche di diritto – è padrone del partito.
Per questo, un editoriale come quello che ieri apriva la prima pagina del Corriere della Sera, a firma di Ferruccio de Bortoli, pur pieno di assennate considerazioni, non è più efficace di un buco nell’acqua. Certo, «i partiti sarebbero più credibili se mettessero mano, senza indugi o ambiguità, alle proprie norme interne». «Se si vuole tutelare la democrazia rappresentativa, occorre rendere meno oscure e insindacabili le liste dei candidati o dei nominati che i leader dei partiti propongono agli elettori», certo. E, certo, «conoscere meglio i partiti, il loro finanziamento, le modalità di scelta dei vertici, il ruolo delle fondazioni, contribuisce a sciogliere quella patina di sospetto e pregiudizio [pregiudizio?], a volte esagerato [esagerato?], che alimenta il populismo e l’astensione e indebolisce nelle fondamenta una democrazia rappresentativa già troppo sfibrata», ma non ci si illuda possa riuscirci una legge ordinaria come quella che de Bortoli pensa faccia al caso, nella fattispecie quella che ha come primo firmatario Matteo Richetti, già approvata alla Camera e ora arenatasi al Senato: senza dare ai partiti l’onere della persona giuridica, ogni impegno preso sulla carta potrà bellamente essere aggirato o addirittura eluso.

sabato 6 agosto 2016

Segnalibro

Ben detto

L’intervista che il cardinale Angelo Scola ha concesso qualche giorno fa a Matteo Matzuzzi (Il Foglio, 4.8.2016) meriterebbe di essere commentata in dettaglio, frase per frase, ma già l’afa ci fiacca, ad addentrarci in un groviglio di mezzucci retorici stramazzeremmo. Diremo solo che Sua Eminenza è un altro a cui Bergoglio sta sul cazzo, ma è cardinale, può solo lasciare si capisca fra le righe. Richiama alla mente il Bertoldo di Giulio Cesare Croce, che costretto a inchinarsi dinanzi a re Alboino, s’inchina, sì, ma di culo.
Lasciamo perdere, limitiamoci a riportare una citazione che Sua Eminenza piglia da Teodrammatica 3 di Hans Urs von Balthasar (Jaka Book, 1980), volume che qui dobbiamo fare ammenda di non aver mai letto, ripromettendoci di procurarcelo al più presto perché chissà di quante altre perle altrettanto preziose deve essere ricolmo: «In tutte le epoche si cerca di ridurre il cristianesimo in modo tale che la ferita che Cristo ha inferto alla storia si possa chiudere. Non è possibile, continuerà a suppurare».
Non a sanguinare, ma a suppurare, cioè a produrre materiale infetto. Ben detto, neanche da Nietzsche poteva uscire un’allegoria così calzante.

venerdì 5 agosto 2016

Ma il poker è un gioco serio

Direi si debba considerarlo un annuncio ufficiale, perché a darlo è Maria Teresa Meli: se alla chiamata referendaria sulla riforma costituzionale dovesse vincere il no, Matteo Renzi non abbandonerà la politica, anzi, nemmeno abbandonerà la segreteria del partito. In quanto a Palazzo Chigi, «non lo dice più pubblicamente, ma ritiene che le sue dimissioni sarebbero un atto dovuto. Il che non vuol dire che mollerà la presa... “Sarò io a parlare, in quanto segretario, a nome del Pd, nel caso di una crisi di governo”. E, cioè, sarà sempre lui a decidere se proseguire la legislatura oppure no, perché di fronte a una eventuale indisponibilità del Pd sarebbe davvero complicato dare vita a un nuovo governo» (Corriere della Sera, 5.8.2016). Altro che, «se perdo, considero fallita la mia esperienza in politica» (30.12.2015), «se perdo, smetto di far politica» (12.1.2016), «nel caso in cui perdessi il referendum, considererei finita la mia esperienza politica» (20.1.2016), «se al referendum votano no, io vado a casa» (12.6.2016)... Dopo la spacconata di aver messo nel piatto tutte le fiches che aveva davanti, ora ritira la posta. Roba che a poker ti troveresti a raccattare i denti sotto il tavolo. Ma il poker è un gioco serio. 

giovedì 4 agosto 2016

[...]

Fatta eccezione per ledizione di Atene del 1896 e per quella di Saint Louis del 1904, dove non ne ottenne neppure una, lItalia ha sempre conquistato un discreto numero di medaglie doro nelle restanti 25 edizioni delle Olimpiadi, con una media di circa 8 (7,96 per la precisione, con un minimo di 2 alle edizioni di Londra del 1908 e di Montreal del 1976 e un massimo di 14 a quella di Los Angeles del 1984). Con questi precedenti, cè da ritenere che per l’edizione di quest’anno, a Rio de Janeiro, non ne conquisterà neppure una? Tutto è possibile, ovviamente, ma risulta davvero difficile immaginarlo, tanto più che in alcune specialità sportive (scherma e ciclismo, per esempio) i risultati ottenuti dagli atleti italiani sono un dato ormai consolidato da tempo. Diciamo che anche per quest’anno è lecito aspettarsi che l’Italia porti a casa un gruzzoletto di medaglie d’oro, aspettativa che è più che lecito assuma la forma dell’auspicio in chiunque abbia a cuore i colori italiani e trovi espressione di augurio in chiunque, a qualsiasi livello, abbia un ruolo di rappresentanza della comunità nazionale.
C’è, tuttavia, un altro modo di aspettarsi che un risultato sia conseguito: quello di chi sia (o si senta) legittimato a fissarlo come meta e a esigere che a lui si debba risponderne nel caso che non sia raggiunta. Non sarebbe giusto interpretare a questo modo la frase attribuita a Matteo Renzi: con «aspetto gli ori dell’Italia» si sarà limitato a esprimere una speranza, a formulare un pronostico, a dare forma di sprone a una fiduciosa attesa. Poi è probabile che la frase sia solo una sintesi giornalistica, che possa aver detto qualcosa di simile ma senza conferirgli il tono imperativo che risuona in quell’asciutto «aspetto gli ori dell’Italia». Insomma, non è il caso che si lasci spazio al pregiudizio che fin qui si è potuto abbondantemente nutrire della sua pessima abitudine alla posa da ducetto, anche perché possiamo star tranquilli che ai nostri atleti non saranno spezzate le gambe nel caso in cui dovessero ottenere risultati inferiori alle ragionevoli aspettative: tutto si risolverebbe nel constatare per due o tre giorni la sua irreperibilità on line. Accadesse il contrario – cosa che qui conviene augurarsi per non essere rinviati a giudizio per disfattismo – al più ci toccherà sorbirci la consueta scacazzata di tweet che ci convinceranno ad essere contenti che tante gambe ne abbiano scansata una davvero brutta.

Corrispondenze

[Probabilmente discuteremo ancora a lungo – uso la formula usata qualche giorno fa da Ernesto Galli della Loggia – «se quella che stiamo vivendo è una guerra “di religione”, ovvero una guerra in cui “c’entra la religione”, ovvero ancora una guerra in cui una parte “si serve della religione”» (Corriere della Sera, 30.7.2016). Abbiamo cominciato a discuterne 15 anni fa, ma finora la discussione non è servita a molto. È che i concetti di guerra e di religione non sono così univoci come solitamente si è portati a credere, se ne dovrebbe discutere solo dopo essersi messi daccordo sul significato dato ai termini. Per quanto riguarda la religione, poi, quando nel prenderne in considerazione una di cui si sappia poco o niente si usano categorie ritenute idonee a comprenderne unaltra, peraltro a torto, perché neanche di quella poi se ne sa molto di più, la confusione è inevitabile. Per queste ragioni si deve ritenere utile ogni occasione che consenta di spiegarsi a dovere, e la lettera che segue, quella di un lettore che ha ritenuto fosse troppo lunga per postarla a commento di quanto ho scritto su un editoriale di Angelo Panebianco, mi pare la offra a chi, come nel caso del lettore, ritiene che «stiamo vivendo una guerra “di religione”», o che comunque sia «una guerra in cui “c’entra la religione”», e a chi ritiene, come ho più volte scritto su queste pagine, che la religione c’entra, sì, ma solo come sovrastruttura, e che, a darle altro valore, si corre il rischio di gettare benzina sul fuoco.]


Ho letto l’articolo di Panebianco, e inizialmente ho avuto la sua stessa impressione riguardo quel «salto di qualità». Poi mi sono detto chissà, magari per Panebianco i terroristi islamici vedono «gli uomini-simbolo della odiata cristianità occidentale» come il mostro che, se abbattuto, ti permette di passare il livello o una testa di cervo da appendere al muro come trofeo (visto anche che nell’Islam una figura tale, cioè un tramite tra il fedele e dio, non esiste e quindi trasuda blasfemia) e allora sì: forse «salto di qualità» assume un certo senso. Ma tutto ciò non ha molta importanza. Ne ha, invece, capire quale ruolo giochi davvero la religione in questo scontro. Lei dice che è una sovrastruttura, un vestito che sindossa per «chiedere il saldo delle proprie frustrazioni».
C’è un libricino di Piovene, «Processo dell’Islam alla civiltà occidentale», che probabilmente conoscerà. È il reportage di un convegno tenutosi a Venezia nel ’55, in cui si incontrarono intellettuali, economisti, scrittori (c’era per esempio Taha Husein) di entrambe le parti; l’Occidente era rappresentato da soli italiani; c’erano orientalisti da una parte, occidentalisti dall’altra. Bene, il convegno durò qualche giorno e per tutto il tempo gli esponenti orientali sembrarono evitare - agli occhi degli occidentali - la disputa meramente religiosa (dissero solamente che il concetto di carità evangelica era affine a quello di fratellanza espresso dal Corano e che in generale tra le due fedi non vi era antitesi, semmai continuità) ma chiarirono un punto: «[I musulmani] scindendo il Cristianesimo dalla civiltà Occidentale, hanno ritenuto che questa abbia degenerato dai suoi principi...». L’empietà degli occidentali, per loro, non risiedeva nel Cristianesimo ma nell’averlo tradito, abbracciando il materialismo a danno della spiritualità e con esso corrompendo, sfruttandole, le società islamiche. Alla luce di tale premessa, le loro accuse nei confronti degli occidentali presero a fondarsi su un unico punto, quello politico, complice ovviamente la congiuntura storica. In realtà, però, come Piovene fece notare, nell’Islam l’argomento politico incapsula strutturalmente quello religioso, poiché non va dimenticato che il Corano è anche un testo giuridico, un codice, e se «in Occidente lo Stato presuppone la separazione della religione, frutto della libera scelta della coscienza individuale, dalla politica, che riguarda gli interessi collettivi, nell’Islam esso presuppone la loro assoluta coincidenza». Ora, di tempo ne è passato dal ’55, siamo d’accordo, ma si fa presto ad arrivare a noi; le interpretazioni del Corano rimangono quelle: tra i fondamenti ideologici di Bin Laden prima e Abū Bakr al-Baghdādi oggi vi sono gli scritti di Sayyd Qutb, il capo dei fratelli musulmani che aiutò parecchio Nasser a salire alla presidenza nell’Egitto post-monarchico del fantoccio Re Faruk, per riceverne in cambio galera e condanna a morte. Fu Qutb - dalla prigionia - a gettare il seme del fondamentalismo moderno all’interno del cosmo musulmano sunnita come reazione alla preclusione forzosa dei posti di potere nei confronti delle figure religiose, massime quelle integraliste. Oggi, Al Shabaab fa strage di cristiani in Kenya - ferma i pullman con sventagliate di mitra, divide i fedeli dagli infedeli e uccide questi ultimi; a Bamako nel 2015, all’hotel Radisson Blue, i terroristi uccisero coloro che non conoscevano a memoria il Corano, stessa cosa a Dacca poco fa (qui gli attentatori erano di famiglia benestante, a evidenziare l’interclassismo della - termine usato impropriamente - jihad: vi sono «attentatori di estrazione politica, sociale ed economica completamente diversa. L’unica cosa che li accomuna è l’ideologia religiosa che sottoscrivono» cit.). «O davvero vogliamo far finta che a muovere fenomeni di tali dimensioni possano essere contenziosi tutti teologici?» chiede lei, dottor Castaldi. Hassan Butt (citato da Giovanni Fontana qui) affermò che la teologia islamica era il motore della loro violenza. Sappiamo che molte sure del Corano giustificano l’assassinio in nome di Allah, anche per questo il califfato inquadra nei suoi eserciti chi quella violenza la esprime con più efficacia (invasati, assassini, psicopatici ecc...) e lo manda da noi. O gode della sua iniziativa privata. Passi che tali fenomeni non siano «mossi da contenziosi teologici», ma questo, di per sé, esclude la motivazione religiosa in senso generale? Abū Bakr al-Baghdādī, in fine dei conti, era un imam prima di Camp Bucca. Ma non voglio andare oltre su questo punto, mi limito a fare congetture che mi sembrano degne di nota.
Sono in linea di massima d’accordo con lei quando sostiene che Daesh sfrutta gli attentati in Europa (in Africa, in America, nel Medio Oriente) per «farsi forte nella resa dei conti con le opposte fazioni» sorte dal Maghreb al Pakistan dopo le rivolte del 2010 e via discorrendo (perché per esempio l’autoproclamato califfo, subito dopo il ritorno in Iraq dalla prigionia, iniziò sistematicamente a rompere i coglioni ad al-Mālikī e al suo governo sciita con una lunga serie di attentati, governo che seppur malvisto dai sunniti iracheni nessuno aveva ancora preso di mira a quel modo). Sarà certo superfluo, però è bene ricordare che l’Isis non è l’unica organizzazione terroristica islamista a fare disastri a casa nostra, e nemmeno la prima: al-Qaeda stessa lo ha fatto in maniera più eclatante; più recentemente, la strage di Charlie Hebdo è anch’essa stata rivendicata da al-Qaeda, così come l’attacco a un resort in Costa d’Avorio. La lotta per la conquista di territori d’influenza, per l’accaparramento delle fonti energetiche, portata avanti nella maniera che conosciamo, non dà a Daesh - che negli ultimi mesi ha ridotto comunque parecchio il volume delle aree assoggettate - nessuna sicurezza di poter anche solo durare più a lungo dei suoi concorrenti: rispetto a questi ultimi si è attirata più nemici e combatterli richiede continui arrivi di forze fresche da impegnare; una débâcle nella sua pur imponente macchina propagandistica potrebbe costarle cara.
Ritorno infine a Panebianco, precisamente all’ultimo periodo del suo articolo, dove scrive che «l’attacco di Saint-Etienne-du-Rouvray dovrebbe» aprire gli occhi alla Chiesa, la quale avrebbe deciso d’abbandonare l’Europa ormai secolarizzata. Non so se il giornalista lì dentro ci collochi pure il nostro paese; a me viene in mente la legge Cirinnà così come da originaria proposta e com’è poi effettivamente passata, e penso ebbro di letizia: no, non ci ha ancora abbandonati, Santa Romana Chiesa. Amen.

Marcello Nardo

*                       *                     *

Prima di venire al sodo, affronto le questioni relative allarticolo di Panebianco che lei solleva in apertura e in chiusura.
(1) Se cè articolazione tra attentato e attentato, e se quanto ne caratterizza il tratto funzionale è l’essere «guerra di religione», attaccare una chiesa e uccidere un prete arrivano assai in ritardo: più che un «salto di qualità», rappresenterebbero il tentativo di dare alla «guerra» un movente religioso, ma «a posteriori». Non vi è intenzione di segnare un passaggio di livello della qualità, dunque, ma di qualificare finalmente come religioso un fine che evidentemente tale non è, o che comunque si ritiene non sia stato percepito come religioso. Suppongo sia evidente la contraddizione tra il sostenere che il fine religioso sia in radice al piano strategico degli attacchi e allo stesso tempo considerare lobiettivo religioso come un innalzamento di livello in una supposta escalation. Non regge neppure allipotesi che invece si tratti di uno «scontro di civiltà», che pure è cosa abbastanza diversa da una «guerra di religione», sebbene Panebianco le tratti come interscambiabili: posto, infatti, che agli occhi di un attentatore la colpa dell’occidente da colpire sia quella di aver smarrito le sue radici cristiane – che poi sarebbe la stessa imputazione mossagli da chi si erge in sua difesa – e che dunque il bersaglio che si intende colpire non sia tanto il cristianesimo quanto – qui la cito – «l’empietà degli occidentali, [che] per loro non risiedeva nel cristianesimo, ma nell’averlo tradito, abbracciando il materialismo a danno della spiritualità», che senso ha attaccare una chiesa e uccidere un prete? Se ne ha uno, dovè il «salto di qualità»? In ogni caso, concordo con lei quando scrive che «tutto ciò non ha molta importanza». Per meglio dire: non ne ha molta in assoluto, perché, contestualmente allargomentare che «la religione centra», unimportanza – anche bella grossa – la assume.
(2) Non sono molto daccordo con lei neppure relativamente alla considerazione che fa sulla chiusa delleditoriale di Panebianco, dove scrive che l’attacco di Saint-Etienne-du-Rouvray dovrebbe aprire gli occhi alla Chiesa, che avrebbe deciso d’abbandonare l’Europa ormai secolarizzata. Lei sostiene che, come sarebbe dimostrato dalle modifiche apportate al ddl Cirinnà, la sua capacità di ingerenza e, ancor più, il suo interesse allingerenza siano ancora patenti. Nel dettaglio ha ragione, e tuttavia è innegabile che sul piano geopolitico la Chiesa abbia già da tempo messo in atto un riposizionamento tattico che privilegia lattenzione su Asia, Africa e Sudamerica, a discapito di Europa e Nordamerica, per le quali pure stende piani di rievangelizzazione. Non è un’opzione che nasca dal capriccio, ma da una previdente analisi degli sviluppi demografici del pianeta: quando il fine ultimo è quello di durare, «todo modo es bueno». È che la Chiesa è abituata a guardare lontano.
Venendo al cuore della questione posta dalla sua lettera, devo confessarle che vi trovo un limite insuperabile nel porre l’islam al di sopra delle ragioni storiche che l’hanno prodotto, il che la porta a ritenerlo inemendabile al pari di chi ritiene non debba e non possa emendarsi. Si tratta – mi consenta la franchezza – del non riuscire a rappresentarsi pienamente la religione come sovrastruttura. Per l’islam, come d’altronde per il cristianesimo, elementi che dottrinariamente sono postulati come insuperabili riconoscono nel corso dei secoli rimodulazioni che li alterano profondamente per renderli continuamente funzionali a ciò che il dettato religioso ha pretesa di interpretare. In altri termini, è la plasticità dell’esegesi che assicura la sopravvivenza alla tradizione. In tal senso, la citazione del post di Giovanni Fontana è quanto mai opportuna. Sulla tesi lì esposta ho avuto modo di parlare di persona con l’autore nelle due occasioni in cui abbia avuto modo di incontrarci qui a Napoli, peraltro constatando qualche significativa precisazione, che tuttavia non risolve per intero il punto di conflitto. È che io sono dell’idea che ignorare i sei secoli di differenza che ci sono tra islam e cristianesimo porti inevitabilmente a raffronti asimmetrici e dunque un pochino strabici.
Guardi che non voglio sminuire in alcun modo l’orrore che a ragione può incuterle anche l’islam più «moderato»: è il mio stesso orrore, ma ci metto accanto alcune considerazioni che mi pare a lei sfuggano. Lei dice che «nell’islam l’argomento politico incapsula strutturalmente quello religioso, poiché non va dimenticato che il Corano è anche un testo giuridico, un codice, e [citando il libricino] se “in occidente lo stato presuppone la separazione della religione, frutto della libera scelta della coscienza individuale, dalla politica, che riguarda gli interessi collettivi, nell’islam esso presuppone la loro assoluta coincidenza”». Tutto giusto, ma soltanto a rappresentarsi il «date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio» come un programma coerentemente rispettato lungo tutta la storia del cristianesimo. Non voglio appesantire questa mia con ragguagli storici, che daltronde potrebbero fraintesi come spocchiosa lezioncina, ma ogni raffronto tra cristianesimo e islam che pretenda di trovare nel primo unintrinseca potenzialità di riforma che si intenda negare allislam è inevitabilmente destinato a scontare il prezzo di un pregiudizio ideologico, dal quale non è indenne neppure qualche ateo militante. Quanto più questo pregiudizio sia forte, più saranno fatte salde le sciagurate tesi che vedono nel cristianesimo, seppure in embrione, lo stato di diritto, la democrazia e perfino il liberalismo: tutta roba che è venuta in gestazione contro il cristianesimo, e a cui il cristianesimo è stato costretto a fare buon viso a cattivo gioco. Probabilmente accadrà la stessa cosa anche allislam, solo che non ci sarà dato modo di vederlo.
Sia chiaro che in questa previsione non vi è alcuna speranza, solo la constatazione che alla lunga lerba spacca il cemento. 

lunedì 1 agosto 2016

Non c’è più religione

La «musulmana [che] a messa si toglie il velo in segno di rispetto verso i cristiani» (ansa.it, 31.7.2016) ignora che invece, almeno a messa, i cristiani pretendono che una donna stia a capo coperto. Per meglio dire, così è stato fino al 1983, quando il nuovo Codice di Diritto Canonico cassò il Can. 1262 di quello precedente («mulieres autem, capite cooperto et modeste vastitae, maxime cum ad mensam dominicam accedunt»): fino ad allora, e da Paolo (1 Cor 11, 5-15), passando per Tertulliano (De virginibus velandis, De cultu feminarum), Crisostomo (Orationes, XXVI), Cipriano (De habitu virginum), Agostino (Epistulae, CCXLV), Ambrogio (De virginitate) – giusto per fermarci alla Seconda Patristica – sul capo di una donna, per i cristiani, il velo sta bene sempre, e in chiesa è d’obbligo, massimamente a messa.
Offrire come omaggio quello che un tempo sarebbe stato oltraggio: assai poco probabile che il gesto avesse in sé una perfidia di qualità tanto squisita, alla musulmana sarebbe stata necessaria una conoscenza del cristianesimo che neanche i cristiani hanno. Né l’islam sta messo meglio, perché, per una musulmana, di là da ogni pur nobile intenzione, scoprire il capo in pubblico dovrebbe rimanere gesto lascivo.
In una domenica che le cronache si precipitano a registrare come emblematica, l’emblema sta tutto nel comune smarrimento di simboli e significati. Poi, in un articolo pubblicato da l’Espresso e che riporta l’esperienza fatta da un giornalista francese come infiltrato in una cellula islamista, leggiamo che di Allah, quelli del Daesh, se ne fregano: il chiodo che hanno in testa è la fica, non pensano ad altro che alle vergini che starebbero ad aspettarli in Paradiso. Altro che ritorno del sacro, qui non c’è più religione.