Gabriele Filipelli, “trent’anni, media cultura, un orientamento politico liberale non immune dalle influenze di una famiglia cattolica di sinistra”, mi scrive una lunga lettera per dirmi della sua “perplessità” – ma in realtà mi pare che si tratti più di stupore misto a delusione – nell’avermi sorpreso “nel novero dei derisori dei «moralisti» [del Palasharp]”, ritenendo “commovente che queste persone trovino voglia, modo, coraggio di dimostrare il loro attaccamento alla cosa pubblica”. Non è tutto, perché aggiunge: “Oggi il conglomerato di potere chiamato Berlusconi è il nostro problema; se la disapprovazione dei moralisti ipocriti può indebolirlo, non vedo perché questo dovrebbe inquietarci tanto. Se la caduta di Berlusconi non risolverà il problema del moralismo ipocrita, non vedo come potrebbe alleviarlo la sua permanenza”. Lo ringrazio perché mi dà modo di precisare la mia opinione a riguardo.
Comincio col dire che non faccio troppa differenza tra morale e moralismo. Prendo il Devoto-Oli per non lasciare spazio ad eventuali ambiguità nell’uso dei termini. La morale – leggo – sarebbe quanto “concernente il presupposto spirituale del comportamento dell’uomo, specialmente in rapporto con la scelta e il criterio di giudizio nei confronti dei due concetti antitetici di «bene» e di «male»”. I problemi nascono quando ciò che è «bene» per un individuo non lo è per un altro, e questo accade anche quando entrambi affermano che il presupposto sia spirituale, come nel caso di due individui che appartengano a differenti confessioni religiose. Le cose si complicano maledettamente quando un individuo nega ogni metafisica, e cioè ogni dimensione trascendente: «bene» e «male» perdono, in questo caso, il presupposto spirituale per assumere valenza di «utile» e «dannoso», anche qui lasciando spazio alla possibilità di assolutizzare il criterio di giudizio, col dichiarare «utile» o «dannoso» per tutti ciò che è ritenuto tale da un individuo. E tuttavia, almeno in questo caso, l’assolutizzazione del valore non ha pretese metafisiche: non fa richiamo ad una dimensione soprannaturale, ma anzi pretende di fondare la norma su una certezza che si fa forte di prove logiche, eminentemente materiali e immanenti, dunque non antecedenti o superiori all’uomo, né eterne. Qui la morale si riduce alla norma logicamente desumibile come «utile», e tuttavia rimane sempre aperta la questione del dimostrare che le prove logiche di quanto è ritenuto «utile» a se stesso da un individuo lo sia davvero per tutti.
Dicevo che non faccio troppa differenza tra morale e moralismo, infatti il moralismo altro non è che la “tendenza ad attribuire prevalente o esclusiva importanza ad astratte considerazioni di ordine morale”. È chiaro, infatti, che se si nega ogni metafisica – questo è il mio caso – l’astrattezza delle prove in favore di una cogente coincidenza di «bene per tutti» con «utile per tutti» riduce morale e moralismo a due diverse espressioni dello stesso primato del trascendente sull’immanente.
Come se ne esce? Non voglio ripetere ciò che ho già detto mille volte su queste pagine: qui mi limito a dire che l’individuo non deve perseguire ciò che ritiene essere «il bene per tutti», ma «l’utile per il maggior numero di individui»; perché «il bene per tutti» non è mai dimostrabile di per se stesso se non ammettendo un principio trascendente, superiore e antecedente all’uomo, eterno, immutabile, incontestabile e mai negoziabile, sempre nelle mani di un’autorità che prima o poi arriva al punto di dover sospendere l’assunto democratico in favore di quello oligarchico di una aristocrazia dei saggi e/o dei puri; mentre «l’utile per il maggior numero di individui» è sempre dimostrabile sulla base dell’immanenza dei bisogni, e della dialettica tra libertà e responsabilità.
Non senza difficoltà siamo giunti a considerare che le tendenze all’assolutizzazione hanno carattere tendenzialmente omologante e oppressivo, e non senza grossi ostacoli residui riconosciamo nel metodo liberaldemocratico la via d’uscita dalla storia come luogo nel quale i relativi combattono per conquistare il primato di assoluto. «L’utile per il maggior numero di individui» dichiara lecita la dimensione privata della morale, ma la considera strumento di omologazione e oppressione quando questa pretende di farsi criterio per dichiararsi esclusivo strumento per raggiungere «il bene per tutti», nelle forme dell’ingiunzione o della persuasione che sono proprie delle multiformi espressioni dello Stato etico.
L’ho scritto mille volte, per lo più in polemica con quanti sostengono che le leggi di uno Stato debbano avere come stella polare il principio trascendente che informa il magistero della Chiesa: non c’è bisogno di un Dio per dichiarare inammissibili l’omicidio, il furto e la falsa testimonianza, ma se riteniamo necessario un Dio per dar forza a quel contratto sociale, in virtù del quale individui liberi e responsabili decidono a maggioranza di renderli degni di sanzione come reati, lasciamo la porta aperta a chi se ne dichiara rappresentante per mandato e/o interprete col fine, neanche tanto occultato, di farsi padrone dei nostri corpi e delle nostre menti.
Ora, veniamo a noi, ma non subito ai «moralisti» del Palasharp. Quattro bambini rom sono rimasti vittima di un rogo in un campo nomadi nella periferia di Roma e un «moralista» ha segnalato che un leghista non si è alzato in piedi quando è stato dedicato loro il rituale minuto di silenzio nel corso di una seduta del Consiglio regionale lombardo. Moralmente lo ritengo deplorevole, ma parlo della mia morale, che qui – incidentalmente – coincide con quella del «moralista». Sì, ma il leghista ha commesso un reato? No. E allora su quale piano è sanzionabile il suo gesto? Potremmo dire – e diciamolo – che il suo comportamento è sospetto di un portato razzista e xenofobo, ma ne abbiamo le prove certe? In assenza di prove certe sul punto, in assenza di una legge che punisca chi non si alza in piedi quando si dà il rituale minuto di silenzio, vogliamo un supplemento di legislazione che punisca il colpevole con la pubblica esecrazione? Cosa accade se assumiamo come necessario questo supplemento di legislazione sulla base dell’assunto morale che chiede un pubblico e generale riconoscimento di legge suppletiva? Quanti altri comportamenti che non configurano fattispecie penale arriveranno ad avere la loro sanzione sulla base di un assunto morale? In altri termini: che cazzo sto combinando nel pretendere che la mia morale – alla quale, sia chiaro, non rinuncerei mai – debba avere il pubblico riconoscimento di legge extrapenale (sovrapenale) valida per tutti? Sto ponendo le basi di uno Stato etico. Probabilmente avrà carattere persuasivo e non ingiuntivo, ma tenderà comunque a farsi norma avente come fine «il bene per tutti». Onestamente, ne ho bisogno? Voglio dire: non mi bastano leggi che puniscano il razzismo e la xenofobia delle forme che ne diano prova certa di reati? Stabilito per contratto sociale che «l’utile per il maggior numero di individui» debba giocoforza vietare quanto è espressione palese ed efficace di razzismo e xenofobia, a che mi serve entrare nel privato del razzista e dello xenofobo per proclamare il trionfo della morale che li condanna come vizi o peccati? Può servirmi a un solo scopo, ma al momento non riveliamolo.
Cambiamo scena, e parliamo di puttane. La prostituzione non è un reato, ma io la ritengo esecrabile. Non è un’ipotesi, dico proprio per davvero: non sono mai andato a puttane, non ho mai desiderato farlo, non sarei mai capace di prostituirmi né per diletto, né per bisogno, perché preferirei morire di fame (anche se è mi è facile dirlo, non essendomi mai trovato in tale condizione). Bene, ma questo mi dà il diritto di pretendere che puttana e puttaniere siano sanzionati da una legge dello Stato o dalla pubblica e generale sanzione morale? Insomma, chi cazzo sono io per poter pretendere che il contratto privato tra due individui adulti e consenzienti, che in questo caso prevede lo scambio di denaro e prestazioni sessuali, trovi una qualche punizione anche se in assenza di reati allegati? Posso arrivare a disprezzare Silvio Berlusconi, ma posso arrivare a pretendere che il mio disprezzo debba essere condiviso da tutti solo perché ritengo che la mia morale debba valere per tutti, sicché chi non disprezza Silvio Berlusconi in quanto puttaniere è in qualche modo suo complice? Come posso arrivare a questo senza riconoscere in me stesso una morale che pretende autorevolezza sull’altrui morale? E come non posso rabbrividire nel sorprendermi in queste velleità magisteriali che pretenderebbero il pubblico riconoscimento di un primato di autorità in campo morale?
Naturalmente, Silvio Berlusconi non è andato semplicemente a puttane. Pare che attorno alle sue esigenze sessuali si fosse consolidato un sistema di sfruttamento della prostituzione, che è reato, con casi di prostituzione minorile, che è un altro reato. In più – da cosa nasce cosa – questo avrebbe portato almeno a un episodio di concussione, che è un altro reato, e a un serio rischio per la sicurezza dello Stato, che è un altro reato. Infine – come non bastasse – ci sono molti indizi che lasciano ipotizzare altri reati: abuso di potere, disattenzione del decoro e della disciplina che sono onere dell’onore della carica rivestita, ecc. Da cittadino ho pieno diritto di esigere che ne renda conto in giudizio, ma come posso pretendere che sia universalmente considerato spregevole per il solo fatto di andare a puttane? E che valore posso dare ad una manifestazione pubblica che, oltre a supplementare il lavoro dei giudici per i reati che gli sono ascritti, oltre a rinfacciargli l’ipocrisia di un abito morale privato assai diverso da quello pubblico, ha come fine di giudicarlo e condannarlo in quanto puttaniere? Da cosa mi viene il diritto di giudicare e condannare ciò che non condivido e non approvo nel mio privato ambito morale come se fossi legittimato in ciò da una superiore certezza che trascende dal codice penale?
Gabriele Filipelli scrive – abbiamo visto – che “oggi il conglomerato di potere chiamato Berlusconi è il nostro problema”. Sono d’accordo, anche se tenderei a non considerarlo l’unico problema, ma solo l’epifenomeno di un degrado che è risultato di un forte ritardo sulla via di una compiuta liberaldemocrazia in Italia. E aggiunge che, “se la disapprovazione dei moralisti ipocriti può indebolirlo, non vedo perché questo dovrebbe inquietarci tanto”. Qui mi permetto di dissentire, e anche con forza, perché a lasciar fare ai moralisti (con o senza virgolette) lasciamo aperta la porta alla loro morale: anche chi la condivide non può pretendere sia fatta norma, per quanto ho detto sopra.
“Se la caduta di Berlusconi non risolverà il problema del moralismo ipocrita – conclude il mio lettore – non vedo come potrebbe alleviarlo la sua permanenza”. E qui non posso che tornare a quanto ho lasciato in sospeso: qual è lo scopo che sta nel trionfo di una morale su tutte le altre? L’omologazione e l’oppressione. Io le detesto. Un mondo di individui tutti uguali a me – e di me stesso ho in fondo grande stima – mi spaventa.