giovedì 1 dicembre 2011
“Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”
Qualche giorno fa, tra due detti di Gesù che possono sembrare in apparente contraddizione per come sono riportati in Marco (9, 40) e in Matteo (12, 30)/Luca (11, 23), il cardinal Ravasi ci consigliava di optare per la versione marciana, perché “quello di Marco è il Vangelo più antico e la fonte degli altri due Sinottici, Matteo e Luca”, e spiegava che “la nuova redazione matteana e lucana di quella frase [sia da intendere] come espressione di una Chiesa delle origini «gelosa del principio di ortodossia»”. A me sembra di aver dimostrato (qui) che i due detti non sono affatto in contraddizione e tuttavia, se lo fossero sulla base di quanto afferma Sua Eminenza, sarebbe cosa assai grave: ci costringerebbe a leggere tutto ciò che è riportato in Matteo e in Luca, e che è in contraddizione con quanto è riportato in Marco, come stravolgimento dell’originale messaggio evangelico avvenuto in epoca assai precoce, ma comunque finalizzato alla costruzione di una dottrina non fedele al senso della fonte primigenia.
Di fronte all’episodio del battesimo di Gesù ad opera di Giovanni Battista, per esempio, dovremmo ritenere genuina la versione di Marco, che nel Codex Bezae, fonte più antica del testo, mette in bocca a Dio la frase: “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”; e ritenere infedeli le versioni di Matteo (“Questi è il figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”) e di Luca (“Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”). Sarebbe una tragedia per la dottrina della Trinità, perché si dovrebbe dar ragione agli adozionisti, che negano la natura divina di Gesù, ritenendo che Dio si sia limitato ad “adottarlo”, e proprio in occasione del battesimo sulle rive del Giordano: “oggi ti ho generato” sarebbe la prova che Gesù non è stato generato prima di tutti i tempi, ma sarebbe anche la rovina di due o tre dogmi.
Di fronte all’episodio del battesimo di Gesù ad opera di Giovanni Battista, per esempio, dovremmo ritenere genuina la versione di Marco, che nel Codex Bezae, fonte più antica del testo, mette in bocca a Dio la frase: “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”; e ritenere infedeli le versioni di Matteo (“Questi è il figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”) e di Luca (“Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”). Sarebbe una tragedia per la dottrina della Trinità, perché si dovrebbe dar ragione agli adozionisti, che negano la natura divina di Gesù, ritenendo che Dio si sia limitato ad “adottarlo”, e proprio in occasione del battesimo sulle rive del Giordano: “oggi ti ho generato” sarebbe la prova che Gesù non è stato generato prima di tutti i tempi, ma sarebbe anche la rovina di due o tre dogmi.
[...]
Poco fa, da Santoro, a Brunetta è scappato: “Mi batterò come un sol uomo…”. È espressione che sta a intendere solidità di intento e di azione di una pluralità di soggetti (noi, voi, essi). Qui, con un soggetto al singolare (io), la frase non può che stare a intendere: “Mi batterò come se fossi un uomo tutto intero…”. Poi si lamenta che lo sfottono per la sua statura, Brunetta.
mercoledì 30 novembre 2011
Questo è tutto
Quasi tutti critici, anche aspramente critici, i commenti al post qui sotto. Due, i rimproveri: la morte di Lucio Magri imporrebbe un rispettoso silenzio; men che meno consentirebbe occasione di riflessione sulle idee che egli ha sostenuto quando era in vita. Non è la prima volta che mi becco l’accusa di essere irritante nel parlare di un morto come se fosse ancora in vita, infrangendo la regola del «nil nisi bonum de mortuiis», e non di rado è accaduto che l’accusa sia arrivata al biasimo, anche assai severo, come in questo caso. Mi spetta dar qualche spiegazione, è evidente.
In primo luogo, io non ritengo che un morto sia al di sopra di ogni critica, soprattutto quando si tratta di chi in vita abbia legato il proprio nome a questioni di interesse pubblico. Lucio Magri ha legato il suo a molte di queste questioni, non ultime quelle riguardanti il “personale”, che insieme a tanti esponenti della sinistra italiana riteneva fosse sempre “politico”. Impossibile ritenere la sua morte un fatto esclusivamente privato, dunque, e d’altra parte anche chi gli è stato vicino per decenni ha dichiarato che il suo gesto estremo deve essere considerato come la sua ultima azione militante.
Come me, come tanti, Lucio Magri riteneva che un individuo abbia diritto di mettere fine ai propri giorni quando la vita gli paia insostenibile, e che abbia diritto di essere aiutato a morire in modo degno quando non possa provvedervi personalmente. Considero pienamente legittima la sua decisione e nel mio post qui sotto non l’ho assolutamente messa in discussione. Mi sono limitato a scrivere che, trovandosi nell’impossibilità di darvi realizzazione in Italia, dove le leggi non lo consentono, ha deciso di andare a morire in Svizzera: la ritengo una scelta legittima, come nel caso di chi sia costretto ad andare in Spagna per sottoporsi ad una fecondazione assistita eterologa. Ho solo fatto presente che «Lucio Magri ci ha scassato la minchia per oltre mezzo secolo sui diritti negati ai poveracci, ai quali desiderava addirittura assicurare un paradiso in terra, ma poi, quando si è trovato dinanzi all’ostacolo di uno di quei diritti negati, ha pensato bene di scavalcarlo grazie ai mezzi che aveva a disposizione, lasciandolo inscavalcabile a chi non ne abbia»; e gli ho contrapposto la scelta di Piergiorgio Welby, che si è speso perché il diritto di morire in modo degno fosse assicurato non solo a lui, ma a tutti.
Le obiezioni sono piovute come sassi. Innanzitutto, mi è stato fatto presente che Lucio Magri soffrisse di una forma di depressione tanto grave da impedirgli ogni volontà e che non fosse congruo il raffronto col caso di Piergiorgio Welby. Non ho modo di smentire questa affermazione, ma mi risulta che egli abbia provveduto di persona alla preparazione del suicidio assistito, recandosi almeno due volte in Svizzera e disponendo in modo minuzioso i dettagli. Se era depresso, non si trattava di una depressione tanto paralizzante da impedirgli di lasciare almeno una lettera aperta agli italiani: la denuncia di un sistema legislativo che nega all’individuo una scelta che egli riteneva evidentemente legittima, consentendola solo a chi abbia i mezzi per attuarla all’estero, sarebbe stato il minimo per chi ha speso la vita in difesa dei deboli. Lucio Magri non l’ha fatto. E io l’ho fatto notare. Questo è tutto.
martedì 29 novembre 2011
Lucio Magri e Piergiorgio Welby
La differenza tra un liberale come Piergiorgio Welby e un comunista come Lucio Magri è evidente. In entrambi vi era la ferma convinzione di avere il diritto di essere aiutati a mettere fine ai propri giorni, e in modo dignitoso, e a entrambi non mancavano i mezzi per andare in Svizzera, dove tale diritto non è negato, come invece lo è in Italia. La differenza sta nel fatto che Piergiorgio Welby ha scelto di fare del suo caso una questione pubblica, spendendosi fino alla fine per il riconoscimento di quel diritto, per sé e per tutti, mentre Lucio Magri vi ha rinunciato.
Lucio Magri ci ha scassato la minchia per oltre mezzo secolo sui diritti negati ai poveracci, ai quali desiderava addirittura assicurare un paradiso in terra, ma poi, quando si è trovato dinanzi all’ostacolo di uno di quei diritti negati, ha pensato bene di scavalcarlo grazie ai mezzi che aveva a disposizione, lasciandolo inscavalcabile a chi non ne abbia. Non così, Piergiorgio Welby, per il quale era inimmaginabile godere di un diritto negato ai suoi simili: riteneva che quanto voleva per sé dovesse essere nella disponibilità di chiunque.
Ci sia da esempio ogni qual volta che il luogo comune ci suggerirà che un liberale è un tizio tendenzialmente egoista e un comunista è sempre mosso da un nobile altruismo verso il prossimo.
lunedì 28 novembre 2011
E potrebbe anche piovere
Si andrà in recessione, dicono. Ma con questa curva di inflazione non è più probabile che si vada in stagflazione?
(Perché no, secondo Tooby.)
(Perché no, secondo Tooby.)
Potere e società nella Napoli del XXI secolo
Vincere la corsa per Palazzo San Giacomo come l’ha vinta Luigi De Magistris – 27% al primo turno e 65% al ballottaggio – avrebbe fatto venire voglia di Palazzo Chigi a chiunque. Solo le malelingue, dunque, potevano aver da ridire – e ne hanno avuto – sul fatto che “Giggino” non avesse nemmeno fatto in tempo a indossare la fascia tricolore per dar già qualche segno di inequivocabile smania, promettendo miracoli in quattro giorni come se fosse ancora in campagna elettorale, annunciando di voler dar vita a un partito tutto suo e mettendosi in posa da statista in nuce, baciando l’ampollina del sangue di San Gennaro ma chiarendo che si trattava di un bacio molto laico.
Cose così, senza un calcolo troppo calcolato, tra furbizia ingenua e furba ingenuità, a ulteriore prova, per chi ne avesse avuto ancora bisogno, che il nostro amato sindaco è più guaglione che chiattillo, di cuore semplice e testa pure, tendenzialmente buono ma non fesso, un poco in sovrappeso forse, ma solo il necessario per non impensierire mamma. Non più giudice, insomma, ma passabilmente giudizioso. E infatti si è subito dato una calmata.
Ha capito che per usare Napoli come un trampolino non deve esagerare, perché il trampolino è delicato e, se si scassa, non salta ma precipita. Sicché continua la raccolta dei punti per il concorso a premier del vasto arco politico che in lui potrebbe trovare il massimo comun divisore del tutto e del niente che sta tra centro e sinistra, e un po’ fa il centrista sistemando suo fratello al Comune, un po’ fa l’uomo di sinistra istituendo il registro delle coppie di fatto. Non potremo non ricordarcelo, ci ha comprato con uno specchietto e una manciata di perline colorate.
Pronta la risposta del cardinale Crescenzio Sepe, un altro che sta a Napoli come su un trampolino, pronto a fare il grande salto verso Roma, perché dopo Wojtyla e Ratzinger – eccheccazzo – il posto spetterebbe a un italiano.
A dispetto del suo faccione da salumiere enfisematoso, Sua Eminenza è sempre stato un uomo sveglio e intraprendente, di tempra taurina e agilità felina, con un senso della pastorale bello grosso, e poi è un profondo conoscitore della logica che muove i mezzi di comunicazione, più per istinto che per studio, il che è fottutamente meglio. Estroso, brillante, duttile, moderatamente moderato, è uno splendido animale politico e sa muoversi da dio nella ragnatela del parastato, avendo dalla sua un’agenda da far invidia a quella di Luigi Bisignani. Ambizioso, ma senza darlo troppo da vedere, è dotato di un fiuto eccezionale per riuscire a cavare il massimo risultato mediatico dal minimo rischio espositivo, e infatti di pericoli ne ha corsi tanti, ma senza troppo danno.
Pronta la sua risposta – dicevo – alla delibera del Comune che avvia l’iter per il registro delle unioni civili: spalanca le porte della cappella dell’episcopio e, insieme, le sue paterne braccia ai separati e ai divorziati che hanno dato vita a nuove unioni. Niente di particolare, in realtà. Non somministra loro l’eucaristia, si limita a dare forma plastica a quella solerte cura pastorale che la Chiesa non nega a chi s’è messo sotto i piedi un sacramento. Tanto meno è gesto che dia riconoscimento pieno a quelle nuove unioni, men che meno sul piano del diritto ecclesiastico.
E tuttavia l’iniziativa si offre come alternativa a quella di De Magistris, consentendogli di sfondare una porta splancata nell’affermare che un registro delle coppie di fatto non è scelta da ritenersi prioritaria con tante famiglie numerose che non arrivano a fine a mese. Una faina, no?
N. B. Il titolo del post è volutamente pretenzioso e fa il verso alla storiografia che va da Croce ad Allum. Secondo quanto butta il secolo, tanto passa il convento.
Ad un passo dal fatale “e che palle!”
A luglio, cedendo a un nobile istinto, Giorgio Napolitano ha dato attenzione ai radicali. C’era un ultraottuagenario che minacciava per la millesima volta di lasciarsi morire di fame e di sete se non gli si dava un po’ di attenzione, e il capo dello stato ha ceduto: ha partecipato a un convegno organizzato dai radicali, dicendosi solidale alle ragioni della loro iniziativa in favore di un’amnistia. Mi è sembrato un gesto bello, come quando Pippo Baudo evitò che Pino Pagano si buttasse giù dal loggione del Teatro Ariston, e non si consideri irriverente questo paragone: Giorgio Napolitano non ha mai pronunciato la parola amnistia, si è limitato a dire che lo stato delle carceri italiane poneva una “prepotente urgenza”.
Poteva far di più, da luglio ad oggi? Può darsi, ma a me sfugge cosa, soprattutto con la più o meno esplicita indisponibilità di quasi tutto il parlamento alle richieste dei radicali e con altre urgenze, almeno altrettanto prepotenti, a impegnare l’agenda del paese, prim’ancora che quella del Quirinale. Nemmeno a sentire i radicali si capisce cosa fosse realmente possibile al capo dello stato, fatto sta che da qualche settimana Marco Pannella sta impiccando Giorgio Napolitano alla sua ammissione che il sovraffollamento delle carceri italiane pone una “prepotente urgenza”. Non sapendo con chi prendersela per il fatto che l’attenzione generale è tutta sullo spread, fiutando nell’aria l’inutilità di sporgersi ancora dal loggione, pare che il capo della setta di Via di Torre Argentina abbia deciso per la richiesta di impeachment del capo dello stato, probabilmente per alto tradimento, se non alla Costituzione, a quella che Marco Pannella ha deciso fosse una promessa fatta a lui personalmente.
Non è dato sapere quanto possa avergli bruciato il culo, nel frattempo, il fatto che sia stato nominato senatore a vita il solo Mario Monti, visto che lui vi aspira da almeno trent’anni, o il fatto che la sua richiesta di essere nominato ministro della Giustizia sia stata cestinata o, ancora, il fatto che, con la larga maggioranza della quale il governo Monti gode al momento, i parlamentari radicali valgono zero. Sta di fatto che Marco Pannella corre un’altra volta il pericolo di perdere quel poco di visibilità che si è conquistato con i suoi due o tre bluff di ritorno al centrodestra e facendosi sputare in faccia in piazza: conoscendolo, ce n’è abbastanza perché il culo gli bruci comunque, e quando il culo gli brucia…
Penso che finirò per disinteressarmi anche di Marco Pannella, e per le stesse ragioni che mi hanno portato a lasciar perdere Giuliano Ferrara: non è più capace neanche di farmi incazzare e da qualche tempo mi provoca solo quel misto di pena e di disprezzo che, conoscendomi un pochino, già so che appassirà in noia mortifera. Con Ferrara è accaduto, attardandomi più del necessario. Con Pannella vorrei evitare, togliendogli ogni attenzione adesso, prima del fatale “e che palle!”.
Colpa mia, naturalmente. Con entrambi ho commesso l’errore di usare un filtro freudiano (Psicopatologia della vita quotidiana), mentre con un filtro weberiano (Il lavoro intellettuale come professione) avrebbero potuto continuare a farmi incazzare ancora tanto, ma ormai è fatta. Poco male, vivo in un paese in cui non manca certo il materiale per continuare a trarre svago dal mio passatempo preferito. C’è il Ravasi, per esempio, un ipocritone di quelli che mi fanno venire l’acquolina in bocca...
domenica 27 novembre 2011
Facile, semplice, scontata, naturale…
Armando Matteo è prete, ma riesce a fare una riflessione abbastanza onesta sullo stato della fede in occidente, involontariamente: “Il passaggio da un fede trasmessa con il latte materno a un fede che ora è sempre più, ma per sempre meno persone, oggetto di una scelta non scontata è l’indice più forte di un cambiamento radicale – l’avvento della mentalità postmoderna – che ha investito il cristianesimo occidentale, nell’ultimo secolo e mezzo” (Avvenire, 25.11.2011). Riflessione abbastanza onesta, dicevo, perché Armando Matteo è pur sempre un prete e un minimo di disonestà gli è inevitabile: “il latte materno”, infatti, è figura retorica che sta per il mostruoso apparato che fino a un secolo e mezzo fa non dava alcuna possibilità di scelta. L’onestà sta nell’ammettere, anche se implicitamente, che quando non viene imposta, e fin dalla nascita, la fede cristiana va incontro a qualche problemino: nella libertà di scegliere, quella del cristianesimo smette di essere una scelta “scontata”, e perciò è fatta da “sempre meno persone”.
Cosa ha scristianizzato l’occidente, dunque? La libertà di scegliere. Non è un caso che il cristianesimo si sia fatto forte eliminando eresie (airesis = scelta) e abbia cominciato a indebolirsi quando si è affermato il principio della libertà religiosa: quando l’ha fatto suo, la sua crisi è diventata irreversibile. È bastato, così, che si inceppasse il meccanismo che per secoli ha reso impossibile scegliere tra una fede e l’altra, o addirittura di rifiutare ogni fede, e il cristianesimo ha rivelato il suo punto debole, che poi è lo stesso di ogni altro credo: senza un meticoloso lavoro di manipolazione delle coscienze, tanto più efficace quanto più precocemente è messo in pratica, i contenuti della fede non hanno la buona presa che ci si attenderebbe in virtù della loro dichiarata “naturalezza”. Al pari di tutto ciò che solitamente ci viene spacciato come “naturale”, credere è un prodotto “culturale”, come tale destinato ad esser messo in discussione quando gli vengono meno gli strumenti per conservare la sua egemonia.
Nella riflessione di Armando Matteo, però, c’è di più: “La fede cristiana – scrive – non è diventata solo una semplice scelta tra molte altre: più radicalmente è diventata una scelta non semplice, perché gli uomini e le donne di oggi sembrano non avere più antenne per Dio, cioè non riescono con immediata evidenza a capire il senso, le ragioni, le motivazioni, la convenienza per il vivere quotidiano del credere cristiano”. Anche qui bisogna liberare l’onestà dell’affermazione da una piccola disonestà che la trattiene, e che sta nel largheggiare coi sinonimi (“senso”, “ragioni”, “motivazioni”, “convenienza”) di ciò che dovrebbe fare della fede cristiana una scelta migliore rispetto alle altre, o al non credere: se rimane la migliore, perché non rimane ancora la più semplice? Meglio: cos’è che prima la rendeva la più semplice? La risposta è in quanto abbiamo già detto prima: non è più una scelta “scontata”. La fede cristiana era una scelta semplice, quando era praticamente un obbligo. Superfluo aggiungere che anche qui è possibile largheggiare coi sinonimi: “facile”, “semplice”, “scontata”, “naturale”…
giovedì 24 novembre 2011
“Umanesimo forte”
A me sembrano perennemente impegnati a dividersi su ogni questione, su quelle centrali e su quelle marginali, ma può darsi sia solo una mia impressione, e dunque chiedo a voi: vi risulta che nel Pd ci sia unanimità su qualcosa? Sbaglio o di regola si spaccano su tutto? Si tratta del fisiologico confronto tra opinioni, che non bisogna stupirsi di constatare così spesso antitetiche in un partito felicemente giunto alla maturità post-ideologica, o si tratta del normale scannarsi tra tizi che non hanno niente in comune, costretti a stare assieme sotto la stessa bandiera? Chissà. C’è da prendere atto, tuttavia, che «da noi – dice Pierluigi Bersani – è in corso una ricerca per trovare una comune base prepolitica, che io chiamo di “umanesimo forte”, che aiuti l’uomo ad essere più umano in politica».
Delle due, una: o si tenta di dare un’ideologia a un partito felicemente giunto alla maturità post-ideologica per sentirsene infelicemente privo o si cerca l’ennesima conciliazione tra quanto di ideologico si rivelò già inconciliabile nel tentativo di compromesso tra Dc e Pci. In questo caso, “umanesimo forte” sarebbe sinonimo gentile di quel cattocomunismo che Giordano Bruno Guerri genialmente definì come “disgrazia che non è né comunismo né cattolicesimo, ma ha molti difetti di entrambi”; sennò sarebbe l’immagine speculare della chimera degasperiana del “centro che guarda verso sinistra”, una “sinistra che guarda verso il centro” nella convinzione rodaniana, opportunamente aggiornata, che “si può entrare nel partito comunista ma essere completamente cattolico sul piano religioso e completamente comunista sul piano politico”.
Arrivo al virgolettato di Pierluigi Bersani che ho riportato sopra grazie a una segnalazione di Alessandro D’Amato: un’Asca del 18 novembre che riporta alcune frasi che il segretario del Pd ha pronunciato all’VIII Convegno Nazionale di Scienza & Vita, l’associazione che è stata il ferro di lancia di Camillo Ruini ai tempi del referendum sulla legge 40/2004. Frasi che estrapolate dal contesto tornerebbero buone per due o tre battute sarcastiche: «Io sono un appassionato del pensiero di Ratzinger... Ho apprezzato oggi la lectio magistralis del cardinal Bagnasco che non mi permetto di commentare... I valori su cui si regge una società non possono essere relativi... L’uomo non è un rampicante e non è un sasso nello spazio...».
In realtà, ascoltando tutto l’intervento del segretario del Pd, si scopre che queste frasi sono solo carinerie di contorno al tentativo di blandire la rigidissima posizione di non negoziabilità che la Chiesa di Roma ha assunto sui temi di natura bioetica, che non consente al Pd di cercare consensi al centro senza perderli a sinistra, anche se la crisi del centrodestra lo consentirebbe. Il fatto è che le carinerie sono niente rispetto a ciò che Pierluigi Bersani sembra disposto a concedere, pur mantenendo ferma, almeno in apparenza, la pregiudiziale laica. In poche parole, il Pd sembra essere disposto ad accettare in pieno la tesi ratzingeriana della necessità di una morale irrevocabile alla base del diritto. Peggio ancora, sembra disposto a riconoscerne la natura trascendente. Ridicolo e tragico insieme è che ritenga questa svendità della laicità dello Stato accettabile dai credenti e dai non credenti. L’“umanesimo” che dovrebbe essere la comune base prepolitica del Pd sembrerebbe dover essere “forte” della stessa pretesa che in ultima analisi rende ogni religione incompatibile con la democrazia.
martedì 22 novembre 2011
Il “noi” e il “me”
Quando è fine a se stesso, lo sfoggio di cultura è estremamente fastidioso, però questo vale solo per noi laici: anche quando sembra citare solo per il gusto di citare, un chierico non lo fa quasi mai per vacuo esibizionismo: ha sempre un altro scopo, nobile per giunta: tenta di distogliere l’attenzione dal livello culturale medio del clero, bassissimo ormai da decenni: è per questa ragione che Gianfranco Ravasi non infastidisce mai, neanche quando ha bisogno di due dozzine di citazioni per dire che non ci sono più le mezze stagioni. Se non fosse un chierico, sarebbe oltremodo irritante, ma da chierico fa un’infinita tenerezza: lo vedi far la ruota del pavone coi suoi virgolettati, e pensi: come si sacrifica, poverino, sembra una Billy carica di Adelphi. Si tratta di una missione, in un certo qual senso, del tipo di quella che si è data don Fortunato Di Noto, che va a caccia di pedofili su internet per farci dimenticare gli abusi sessuali commessi dai preti a danno dei minori.
C’è un ma: per dimostrare che un chierico non legge solo il breviario, il Ravasi trascura il breviario, e il peggio di sé lo dà proprio sui Vangeli: esegesi stortignaccole e fru-fru. È il caso del suo tentativo di spiegarci la patente contraddizione tra Mc 9, 40 (“Chi non è contro di noi è con noi”) e tra Mt 12, 30 e Lc 11, 23 (“Chi non è con me è contro di me”). Sul suo blog – da poco ha pure un blog, chissà quando trova il tempo per dir messa – scrive che “a prima vista i due detti di Gesù sono diametralmente opposti e si deve optare per l’uno o per l’altro, qualora si voglia ricostruire un’unica frase autentica detta dal Gesù storico”: ovviamente opta per la versione di Marco, più antica rispetto a quella di Matteo e di Luca, che ne sarebbe lo “stravolgimento”. Neanche lo sfiora il sospetto che, trattandosi di frasi dette da Gesù in diverso contesto, possano essere due facce della stessa medaglia. E sì che c’è una bella differenza tra il “noi” della versione di Marco e il “me” di quella riportata in Matteo e in Luca: la questione è tutta lì.
Nel primo caso, infatti, agli apostoli che gli segnalano il caso di un tale che opera prodigi in suo nome senza far parte della sua cerchia, Gesù fa presente che il fatto non costituisce un pericolo e che si può lasciar correre: “Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me” (Mc 9, 39). Nel secondo caso, invece, la situazione è ben diversa: qui, i farisei sollevano la questione del perché Gesù esorcizzi gli indemoniati in nome di Beelzebùl. In apparenza, ma solo in apparenza, la risposta di Gesù è oscura: “Ogni regno discorde cade in rovina e nessuna città o famiglia discorde può reggersi. Ora, se Satana scaccia Satana, egli è discorde con se stesso; come potrà dunque reggersi il suo regno? E se io scaccio i demoni in nome di Beelzebùl, i vostri figli in nome di chi li scacciano? Per questo loro stessi saranno i vostri giudici. Ma se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio. Come potrebbe uno penetrare nella casa dell’uomo forte e rapirgli le sue cose, se prima non lo lega? Allora soltanto gli potrà saccheggiare la casa. Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde. Perciò io vi dico: qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro” (Mt 12, 25-32). Non si metta in dubbio che in Gesù operi lo Spirito di Dio. E lo Spirito di Dio ha potere su Satana. Gesù scaccia i demoni in nome di Beelzebùl, appellandosi al potere che lo Spirito di Dio ha su Satana: mettere in dubbio questo è commettere bestemmia non contro lui, ma contro lo Spirito.
Ecco che dunque le due frasi non sono affatto in contraddizione, anzi, definiscono il confine interno e quello esterno alla fede: il “noi” in Marco è ecumenico (si può chiudere un occhio su chi riconosce in Gesù il potere dello Spirito di Dio e opera in suo nome pur senza essere dei suoi); il “me” in Matteo e in Luca fa, invece, un chiaro riferimento alla professione di fede dello Spirito di Dio in Gesù (chi non lo riconosce commette bestemmia).
In realtà le due frasi non sono in contraddizione neppure per il Ravasi, che però risolve la questione definendole “corrispondenti a finalità e a contesti differenti e divergenti”. Non è affatto vero: sono entrambe convergenti nel fine di stabilire il confine tra amico e nemico. Si è “con” o “contro” Cristo, se si afferma o si nega la sua natura divina: se la si afferma, si è tollerati anche se non si è parte della sua cerchia; se la si nega, si è nemici.
lunedì 21 novembre 2011
Benin
Il Papa è stato nel Continente Nero, parapaponzi-ponzi-pò, e lì ha pronunciato parole molto belle. Contro la pena di morte, per esempio, e contro la persecuzione degli innocenti, e contro la manipolazione delle coscienze, e contro l’analfabetismo, e contro i maltrattamenti inflitti ai bambini, e poi in favore della liberazione della donna e, ancora, delle legittime rivendicazioni dei popoli che sono oppressi da dittature. Pare abbia avuto un successone e che comunque nessuno gli abbia rammentato i concordati della sua Chiesa coi peggiori fetenti della Storia, né l’ostilità all’istruzione di massa di tanti suoi venerabili predecessori, né i massacri di eretici, ebrei e indios, né la castrazione dei bambini per farne voci bianche, né le migliaia di abusi sessuali commessi dai suoi preti a danno di minori e minorati, né gli hanno rinfacciato la bimillenaria misoginia dei Padri e dei Dottori, tanto meno gli hanno contestato che la Chiesa vive della manipolazione che opera sulle coscienze, oltre che di faccia tosta, né è stata sollevata l’obiezione che nella Città del Vaticano la pena capitale è stata abolita solo nel 1969, formalmente solo nel 2001. Era in Benin, ma sembrava il paese dei belìn.
Tutto ciò che si può fare deve essere fatto
Passata allo scanner la pagina di Guy Debord (Commentari sulla società dello spettacolo, XXIX), basterebbe annotare a margine: l’emergenza è una necessità dello statu quo. Oppure: ogni emergenza è posta dall’esigenza di ristabilire un dominio messo in discussione dai suoi limiti di sistema. Un po’ criptico, ma allusivo quanto basta. Mi risparmierei il compitino sul governo Monti, scanserei ogni critica da destra e da sinistra, eviterei di polemizzare sui massimi sistemi. Perché qui, con un cattolico liberale come Monti, le mie riserve sono di principio.
Io penso che, nella più fortunata delle ipotesi, il suo governo sarà una prova di quella economia sociale di mercato che unisce al liberismo senza liberalismo il dirigismo senza socialismo, per farne un ibrido labilissimo che ineluttabilmente scivola nello statalismo o nel mercatismo. Mostratemi una economia che sia riuscita ad essere sociale e di mercato, insieme, per più di cinque anni. Fatemi un esempio di cattolico liberale che non sia fallito, prima o poi, come cattolico o come liberale.
Siamo al collaudo di un Grande Centro: Guy Debord direbbe che i proprietari della società vogliono mantenere un certo rapporto sociale tra le persone, ma devono anche perseguire il rinnovamento imposto loro dalle nuove esigenze del dominio, e l’emergenza segna questa necessità come strumento di sempre.
sabato 19 novembre 2011
giovedì 17 novembre 2011
mercoledì 16 novembre 2011
Le idee sono importanti, sì, ma solo fino a un certo punto
Oltre ad essere stupida e crudele, la legge 40/2004 è scritta con i piedi, zeppa delle incongruenze e delle ambiguità che hanno consentito ai tribunali di Salerno, Firenze e Bologna di usarla come carta igienica, per non parlare della palese incostituzionalità di quelli che i suoi autori le hanno messo a pilastri, che d’altra parte la sentenza 105/2009 della Corte Costituzionale ha ampiamente eroso, rendendola una traballante catapecchia, che basterebbero due sputi a buttar giù. Una legge sadica e cretina, insomma, ma soprattutto ridicola, che l’altrettale Eugenia Roccella corre a puntellare con linee guida che sono l’ultimo respiro di un governo che ha già un piede nella tomba: no alla fecondazione per le coppie con malattie genetiche, no alla diagnosi preimpianto. Da ridere, se non fosse da piangere per quello che costerà a tanti poveri cristi che non hanno i mezzi per andare a fare un figlio in Spagna o in Svizzera.
[Su Eugenia Roccella si potrebbe dir tanto, ma mi pare tempo sprecato. Chi ha voglia vada a ripescarla nell’archivio di radioradicale.it, quando sbraitava perché la legge 194 era troppo restrittiva, quando andava in estasi per le mirabolanti virtù della Ru486 appena introdotta in Francia, ecc. Idee tutte diverse, ma era la stessa di oggi. A dimostrazione del fatto che le idee sono importanti, sì, ma solo fino a un certo punto.]
lunedì 14 novembre 2011
Il “voto rinforzato”
Sembrerà paradossale a voi, che siete anime semplici, ma in certi cervelli sopraffini comincia a farsi strada la convizione che la democrazia sia messa in pericolo proprio da quella parità di diritti che fino a ieri un luogo comune voleva ne fosse il fondamento. Al momento è sotto accusa solo quella relativa al voto, ma date tempo al tempo, e vedrete che questa élite riuscirà a convincerci che nulla è più antidemocratico del principio egalitario, che noi plebei pensavamo fosse il cardine della democrazia. Sì, capisco, pensavate che il suffragio universale fosse inattaccabile. Sbagliavate: pare che sia proprio quello che può mandare in vacca la democrazia. È di rilievo intuitivo che non siamo tutti eguali, no? E allora perché un voto dovrebbe valere quanto un altro? Non è giusto, via. Ecco, dunque, la necessità di correttivi: l’esame di idoneità all’elettorato attivo, proposto da Massimo Gramellini, l’esame di idoneità all’elettorato passivo, proposto da Michele Serra, e – ultimo della serie – il “voto rafforzato”, idea di Federico Fubini e di Danilo Taino (Corriere della Sera, 13.11.2011).
In pratica, si tratterebbe di apportare qualche piccola modifica all’ormai obsoleto “one person, one vote”: “Eccone una: che i genitori abbiano un voto – o qualche decimale di voto – per ciascuno dei loro figli, da aggiungere al proprio, fino a quando i ragazzi non raggiungono l’età per mettere essi stessi la scheda nell’urna”. Nella sua semplicità è una trovata geniale, no? Il voto di chi non ha figli varrebbe 1 e quello di chi ne ha cinque varrebbe 1,5. Avendo a disposizione un “voto rinforzato”, chi ha 5 figli sarebbe più responsabilmente attivo nei confronti della propria prole rispetto a quanto può esserlo ora che il suo voto vale quanto quello di chi figli non ne ha.
Suppongo non ci sia bisogno di spiegare la ratio che dà il senso a questa proposta: se non hai figli, sei più testa di cazzo di chi ne ha e non puoi pretendere che il tuo voto valga quanto il suo. Più ne hai, più sei responsabile, sicché raggiungi il massimo della responsabilità verso di loro quando ne hai una dozzina, e il tuo voto vale più del doppio di chi non vuole o può averne. Si tratta di un’ideona, senza dubbio, però ritengo urga un correttivo al correttivo: vietata l’astensione da un tot di figli in su, sennò la logica che regge l’ideona va a farsi fottere.
Non è tutto. Visto che cresce “la platea di elettori che spingono partiti e sindacati a fare politiche per vecchi pur di rastrellare consensi”, e che “la demografia non è facile da correggere”, “correggiamo il sistema di voto”, dando “ai giovani, magari under 30, un voto rafforzato: se nell’urna la scheda di un sessantenne conta 1, permettiamo che quella di un ventenne conti magari 1,2 e quella di un trentenne almeno 1,1”. Splendida idea, ma anche qui sarebbe necessario qualche ritocchino: dai settanta in su la scheda dovrebbe contare non più di 0,8 e quella di un ultracentenario non più di 0,5. Superfluo dire che questo dispositivo andrebbe applicato anche alle assemblee degli eletti, perché sarebbe più che giusto valorizzare il voto di quelli giovani o con prole numerosa su quelli anziani o senza figli.
Riponete ogni dubbio, se l’avete, perché Federico Fubini e Danilo Taino non sono due coglioni qualsiasi: sono due accademici di rango e, prima di spararne una, ci pensano, si appoggiano a una bibliografia di peso, argomentano con la perizia degli allevatori di cavalli, che al montone sanno dare il giusto occhio di riguardo. Sì – concedono – quella del “voto rinforzato” è una proposta che stride un pochino con la democrazia, ma che fa? “La democrazia così come la conosciamo è in crisi”: a renderla irriconoscibile, chi se ne accorge?
A George Papandreou avranno lanciato al massimo monetine da due e da cinque centesimi
“Mi hanno colpito con una moneta da due euro”, lamenta Silvio Berlusconi. Insieme ai “ristoranti sempre pieni” e agli “aerei sui quali non si riesce a trovare mai un posto libero”, è un’altra prova che l’Italia è un “paese benestante” e che parlare di crisi è una “moda passeggera”.
Il Secolo XIX, 14.11.2011 – pag. 4 (via Giornalettismo)
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