Dal
1974 al 2011, in Italia, si sono tenute 66 consultazioni referendarie
abrogative in 16 tornate elettorali fino a un massimo di 12 quesiti per
ciascuna: in 27 casi non si è raggiunto il quorum e nei casi in cui lo si è
raggiunto si è avuto un progressivo calo dell’affluenza alle urne dall’87,7% del 1974 al 54,8% del 2011;
in 36 casi dei rimanenti 59, la proposta di abrogazione è stata respinta; in
almeno 18 dei 23 casi in cui il risultato ha premiato l’iniziativa dei
promotori della campagna referendaria, il volere espresso dalla maggioranza
degli elettori è stato sostanzialmente disatteso. Ancor più degli argomenti d’ordine
teorico e pratico da lui esposti in Contro il referendum (Biblioteca della
Critica Sociale, 1897) e che abbiamo già illustrato (1, 2, 3), sono questi
numeri a dar ragione ad Arturo Labriola: «Passato il referendum, o tutto resta
come prima o il suo risultato è assorbito dalla classe dirigente. […] È ritenuta
manifestazione di radicale democrazia eppure è soltanto una pericolosa
illusione ed uno strumento di conservatorismo». Ad oltre un secolo dalla sua
lezione, tuttavia, c’è chi continua a credere nel referendum come strumento di
democrazia diretta in grado di correggere i guasti della democrazia
rappresentativa, o a fingere di crederlo. In buona o in cattiva fede, dunque.
Nel primo caso, quasi certamente pesa la retorica che si è sviluppata attorno ai
due referendum sul divorzio e sull’aborto, e che troppo spesso sembra in grado
di far dimenticare che quelle due leggi furono approvate dal Parlamento, e che
le urne si limitarono a confermarle respingendo la proposta di abrogazione. Nel
secondo caso, basta pensare a Silvio Berlusconi che su consiglio di Giuliano
Ferrara firma i referendum promossi da Marco Pannella e si ha la
rappresentazione plastica dell’uso al quale la democrazia diretta si presta quando si fa strumento di quei loschi figuri che eccellono in cialtroneria e in
mascalzonaggine.
lunedì 2 settembre 2013
venerdì 23 agosto 2013
Ci siamo capiti
Le
sentenze vanno rispettate, sempre, anche quando sono considerate ingiuste,
perciò, da quando la Corte di Cassazione ha stabilito che l’espressione «paese
di merda» configura il reato di vilipendio alla nazione, io mi limito a
pensarlo, e, anche se ritengo che non ci sia definizione più efficace per
esprimere il degrado morale, culturale e politico in cui versa l’Italia, la
evito, e mai – mai, ripeto – verrei qui a scrivere che «questo è un paese di
merda»: mi costa enorme sacrifizio, ma la legge è legge, e dinanzi ad essa mi
inchino. Tuttavia, anche se vanno rispettate, le sentenze possono essere
criticate, ed io qui potrei avvalermi di tale diritto, spiegando perché, a mio
modesto avviso, «paese di
merda» sia definizione che all’Italia va proprio a pennello, chiamando
illustri autori in favore della mia tesi, vuoi sulla forma, vuoi sulla
sostanza, e però ci rinuncio, anche perché al post dovrei dare necessariamente
un titolo che contenga l’espressione, e questo potrebbe dare l’impressione,
almeno al lettore malizioso, che, per capzioso aggiramento, io voglia violare la
legge sopravanzando il legittimo diritto. Perciò mi risolvo a titolare: Ci
siamo capiti.
Premessa
che sarebbe superflua, questa, se il paese, questo, non fosse quello che è. Paese che da settimane discute su come si possa venir meno al
rispetto di una sentenza della Corte di Cassazione, quella che condanna un
potente a un annetto di galera, mentre un indulto gliene ha già abbuonati altri
tre, e pare che non ci sia altro su cui discutere. Capirete, visto che ci siamo capiti, che si tratta di un paese in cui le sentenze, anche quelle definitive, non sono mai abbastanza definitive: fino a quella della Corte di Cassazione, come è giusto, il condannato in primo e in secondo grado è sempre virtualmente innocente, ma pure dopo, quando la sua colpevolezza è certa,
c’è sempre modo di evitare che la condanna sia applicata, ovviamente se il condannato è un potente, perché, se non è un potente, si fotte, e si fa il suo annetto e più di galera, anche solo in attesa del processo di primo grado. Quale migliore definizione per un paese in cui da semplice imputato ti tocca stare in galera, e star zitto, e da condannato in via definitiva è tutto da stabilire se puoi startene a casa due o tre mesi in attesa della grazia o scansare pure quello, e d’intanto puoi sbraitare che neanche così ti sta bene? Evitiamola, ci siamo capiti.
mercoledì 21 agosto 2013
[...]
«Ogni frase del tipo “la decostruzione è
X” o “la decostruzione non è X” è a priori priva di pertinenza: è a dir poco
falsa»
Jacques
Derrida, Lettre à un ami japonaise
(1983)
«La decostruzione è la giustizia»
Jacques Derrida,
Deconstruction and the Possibility of Justice (1989)
martedì 20 agosto 2013
Fossero, non dico intelligenti (Rap)
Fossero,
non dico intelligenti, ma almeno astuti, e non dico astutissimi, ma dotati almeno
di due once di furbizia, si potrebbe ipotizzare che i dirigenti del Pd non assumano
posizione netta e inflessibile sull’anno di reclusione che tocca a Silvio
Berlusconi per il timore di ritrovarselo tra i piedi, fra un anno, con l’aureola
del martire che esca da San Vittore per essere portato in spalla direttamente a
Palazzo Chigi. Si potrebbe ipotizzare che al pensiero delle sue Lettere dal
carcere pubblicate ogni giorno sui giornali del centrodestra, e lette quotidianamente
da Remo Girone su tutte le reti Mediaset, per essere poi raccolte in un volume della
Mondadori ed essere inviato a venti milioni di famiglie, abbiano fatto due più
due, e deciso di non ficcargli addosso i panni del perseguitato politico.
Il
fatto è che invece sono, non dico stupidi, ma irrimediabilmente cretini, e non
di quella candida cretinaggine che è dei poveri di spirito, che qui in terra sono destinati a pigliarlo in culo, ma almeno poi andranno dritti dritti in paradiso, no, piuttosto della
patetica fessaggine di chi si pensa furbo di sei spanne sopra ai più furbi. Basta guardarli, non ce n’è uno che a levargli spocchia e stipendio sappia pisciare a un palmo dalla punta dei propri mocassini.
La
legge è uguale per tutti, ci mancherebbe altro, ma pensano che il concetto
debba essere spiegato al condannato con delicatezza, sennò quello s’incazza e
fa cadere il governo. In galera, no, ci mancherebbe altro, può starsene in uno
dei suoi villoni, sennò può optare per i servizi sociali, chessò potrebbe fare l’archivista
della Fondazione Magna Carta, giusto il tempo di dar modo al Quirinale di
esaminare la domanda di grazia, mentre d’intanto il governo lima del necessario
la legge Severino, ma poi non è detto che un’amnistia... Le carceri sono già sovraffollate, vorremmo mica ficcarci dentro pure uno tanto ingombrante?
Cretini, irrimediabilmente cretini: è da vent’anni che li
fotte coi suoi bluff, e ancora non hanno capito con chi hanno a che fare,
ancora pensano che lo si possa logorare, ancora non hanno capito che se li
metterà in saccoccia pure dopo che sarà morto.
domenica 18 agosto 2013
I referendum «initially sponsored by Radical party» («Strumento di democrazia diretta» / 3)
Oltre a quelli già presi in considerazione (1, 2), Arturo Labriola ha un ultimo
argomento contro l’istituto referendario, che, se sul piano teorico è assai
meno forte rispetto agli altri, ha un’indubbia efficacia su quello pratico,
traendola dall’evidenza piana, sulla quale d’altronde ci siamo già soffermati,
che nella singola consultazione referendaria «ogni
giudizio di insieme sfugge», e non può che sfuggire, perché
l’elettore «non esamina i motivi che hanno determinato la
proposta»
o, per meglio dire, su essi non può esprimere un parere che connoti il valore
della scelta nell’ambito in cui essa è agita, ma neanche – abbiamo visto –
nell’ambito in cui essa è agente: di là dal quesito posto e dall’esito
della consultazione, sostiene Labriola, un referendum trascende sempre il
contesto generale entro il quale la questione che solleva si è venuta a porre,
quindi non si fa carico delle questioni di opportunità che sono implicitate dal
quadro politico generale, e che ne connotano i tratti.
In altri termini – e qui
mi auguro di non complicare troppo le cose nel tentativo di semplificarle – la questione sollevata dal
referendum ha sempre, almeno in potenza, i caratteri di un segmento
disarticolato rispetto al progetto che si presume lo includa: di là dal
quesito posto e dall’esito della consultazione, gli effetti generati da una
consultazione referendaria, talvolta ben prima che sia dato il risultato, sfuggono ai fini posti. Non solo, si badi bene, perché Labriola ritiene «inutile o dannoso» quanto è prodotto da un qualsivoglia strumento di democrazia diretta, ma anche perché sostiene che, quando «la mozione presentata si giudica per ciò che appare», l’eterogenesi dei fini è la regola.
Se anche così le ragioni di Labriola
rimangono poco chiare o comunque poco convincenti, non resta che ricorrere a un esempio. Suppongo sappiate che
i radicali stanno raccogliendo le firme per dodici referendum. Si tratta di due
pacchetti tematici (Cambiamo noi e Giustizia giusta) di sei quesiti ciascuno. Abrogazione del reato di clandestinità,
divorzio breve, libertà di scelta nella destinazione dell’8xmille, abolizione
della carcerazione per fatti di lieve entità relativi alla normativa sugli
stupefacenti e abolizione del finanziamento pubblico ai partiti politici sono i
sei quesiti del primo pacchetto, promosso da un comitato che ha
trovato impulso dall’iniziativa politica di Radicali italiani, uno dei
soggetti della cosiddetta «galassia». Il percorso che ha portato alla
decisione di indire questi sei referendum è estremamente complicato, come d’altronde
lo è tutto ciò che riguarda i radicali. Possiamo risparmiarci i dettagli, ma è
importante rimarcare un dato: Marco Pannella non li voleva, e per molteplici
ragioni.
In primo luogo, perché desiderava che le già esigue forze dell’area
non fossero disperse per altri fini che la battaglia per l’amnistia: in
pratica, temeva – e a ragione, come al momento dimostrano i risultati parziali
della raccolta delle firme – che l’impresa corresse il rischio di andare
incontro a un fallimento, con ovvie ripercussioni negative in termini di
immagine del movimento, già ampiamente logorata dalle scelte ambigue e
contraddittorie che ne hanno segnato il percorso negli ultimi vent’anni.
In
secondo luogo, le questioni sollevate da questi sei referendum «guardano a sinistra», e Pannella sa bene che una
qualsiasi intesa dell’area radicale con la sinistra, di cui la campagna
referendaria Cambiamo noi possa essere occasione, non può realizzarsi senza un
drastico ridimensionamento della sua leadership, per lasciar spazio – anche
solo un po’ di spazio – a chi da anni, contro la sua volontà, lavora in questo
senso.
Visto che i sei
referendum prendevano la loro via, la sua contromossa è stata la presentazione
degli altri sei quesiti referendari (separazione delle carriere in magistratura,
abolizione dell’ergastolo, limiti all’istituto della custodia cautelare,
responsabilità civile dei magistrati e rientro di quelli fuori ruolo nelle loro
funzioni). Temi che «guardano a destra»,
bilanciando gli altri sei, e dunque neutralizzandone i potenziali «effetti
indesiderati» sul piano della costruzione di eventuali alleanze politiche a sinistra. Di fatto, l’appoggio che poteva venire dalla sinistra al primo
pacchetto referendario è andato riducendosi via via che a destra andava
maturando, anche se in modo surrettizio e con evidenti fini strumentali,
l’appoggio al secondo. È così che per un osservatore neutro come il Financial Times i referendum «initially sponsored by Radical party» sono diventati i punti di una «reform of the Italian justice system» voluta dal Pdl.
È che, nel loro insieme, i dodici quesiti sono coerenti solo al di fuori di ogni logica di opportunità che sinistra e destra sono tenute a osservare nella corrente serie di contingenze che caratterizzano l’attuale quadro politico: se mai si riuscisse a raccogliere per tutti e dodici le firme necessarie, se tutti e dodici superassero il vaglio della Corte Costituzionale, se per tutti e dodici si avesse un responso positivo dalle urne e se quanto abrogano delle vigenti normative non trovasse modo di rientrare dalla finestra dopo essere uscito dalla porta – ipotesi del tutto aleatorie, anche senza voler recepire gli argomenti di Labriola, che peraltro trovano rispondenza in ciò che è accaduto per tanti esiti referendari in Italia – ci troveremmo dinanzi a dodici segmenti di un programma liberale. Continuerebbero a non avere l’articolazione che è propria di un programma, ma non perderebbero coerenza. Di fatto, sono nati per opportunità incoerenti tra di loro e ne pagano le conseguenze sul piano delle opposte opportunità che incontrano nell’odierno quadro politico italiano.
Conviene firmarli? Se si è ingenui, sì, tutti. Se si è cinici, solo alcuni. In entrambi i casi, si sarà data ragione a Labriola. Anche senza averne coscienza.
sabato 10 agosto 2013
Mario Rossi? Giuseppe Verdi?
Tommaso Labate ci offre l’occasione
di affrontare una questione assai delicata sul piano morale, per certi versi
affine a quella che si pone quando muore un pezzo di merda: rimane il pezzo di
merda che era o si deve chiudere un occhio, cioè una narice? Se in quel caso pare debba
prevalere il «nisi bonum de mortuis», qui Labate sembra voglia consigliarci la
solidarietà umana nei confronti del condannato, anche quando la condanna sia per
reati abietti. E non si limita a dissuaderci dal maramaldeggiare, sia chiaro, ci
suggerisce proprio la solidarietà umana o, in subordine, un po’ d’indulgenza
alla sua solidarietà umana nei confronti del pezzo di merda.
«Dalle parti mie
– scrive – c’era tanti anni fa un uomo molto potente e in odore di massoneria. Un
uomo perennemente circondato da un inimmaginabile codazzo di gente, gente
povera e gente ricchissima, a cui verosimilmente elargiva nel primo caso elemosine,
nel secondo favori un po’ più consistenti». Qui è opportuno fermarci un attimo per
cercare di dare contorni più netti a questo personaggio. Labate è nato nel 1979
a Marina di Gioiosa Jonica, un paesino di poco più di 6.000 anime, in provincia
di Reggio Calabria, che da almeno 40 anni è in mano a due ’ndrine, quella dei Mazzaferro
e quella degli Aquino, che si contendono da sempre, a suon di morti ammazzati, un
imponente giro di malaffare (estorsione, usura e traffico di stupefacenti) con
tentacoli ben radicati in Lombardia, in Liguria, in Germania e in Belgio. Che
tipo di profilo assume, in un contesto del genere, un personaggio descritto
come «un uomo molto potente»? È azzardato dedurre che si trattasse di Vincenzo
Mazzaferro o di Salvatore Aquino? E perché Labate dice che era «in odore di
massoneria» e non fa alcun cenno alla ’ndrangheta? Una mezza idea ce l’ho, ma
la esporrò alla fine, d’intanto chiariamo che tra esponenti della famiglia
Mazzaferro e la massoneria deviata sono documentati legami tra gli ultimi anni ’80
e gran parte degli anni ’90.
«Ero bambino – prosegue Labate – ma ricordo come
se fosse oggi il disprezzo, il distacco umano e la profonda antipatia che mio
padre nutriva nei confronti di questa persona. Come a dire, “neanche un caffè”.
Una volta, però, questo signore
finì in una clamorosa inchiesta della magistratura che ne azzerò in un colpo
solo la mastodontica corte di leccapiedi e pure il potere». Si tratta dell’operazione
«Leopardo» (1992) o dell’operazione «Fiori della notte di San Vito» (1994)? Non
ha importanza, in fondo. Proseguiamo nel racconto di Labate: «La sera della
prima vigilia di Natale da quel tracollo, ma questo l’avrei saputo dopo, mio
papà – che con lui, prima, “neanche un caffè” – comprò una bottiglia di
champagne e andò a trovarlo per gli auguri. Immaginava una scena, mio papà. E
infatti se la ritrovò davanti proprio come l’aveva pensata. Di fronte a quel
portone in cui nelle precedenti vigilie di Natale la gente s’accalcava, non c’era
più nessuno. Manco un’anima. Nessuno. Solo mio papà. E la sua bottiglia di
champagne. Su quella persona mio papà non ha mai cambiato il suo giudizio
precedente. E penso che, dopo quella volta, non si rividero più».
Qui, alla
luce di ciò che Labate ha omesso, è superfluo ogni commento. «Non c’era più
nessuno», ma in causa si deve chiamare solo l’umana ingratitudine? Nessuna attenuante
per l’«inimmaginabile codazzo di gente» che prima circondava l’«uomo molto
potente»? Diamo per scontato che tutti sapessero da sempre chi fosse, che genere di affari trattasse, e che solo «mio papà» fosse da sempre riuscito ad avere nei suoi confronti un atteggiamento moralmente ineccepibile:
ma fu solo l’umana ingratitudine a fare il deserto «di fronte a quel portone»?
Sul piano morale possiamo condannare un cliens che abbia paura di essere
considerato socius dalle forze dell’ordine che sorvegliano l’abitazione dell’indagato?
Chi può permettersi di andare a stappare una bottiglia di champagne con lui?
Solo chi non è mai stato cliens, è evidente. Rimane tuttavia da stabilire se un
tal gesto di solidarietà con chi sia caduto in disgrazia possa essere
giustificato di là dai motivi che hanno provocato la caduta. «In odore di
massoneria», forse. Ma reo di crimini odiosi?
Labate scrive: «Io so che a
tutti quelli che certe volte sbarrano gli occhi e mi chiedono “come c...o sei
fatto?” e “che cos’hai nella testa?” vorrei raccontare questa storia. Quest’insegnamento
che ho preso e che non dimenticherò mai. Questa cosa di mio padre che avrei
fatto nello stesso identico modo. E che rifarei di fronte a un portone deserto
davanti a cui prima si accalcavano le masse, che rifarei alla vigilia di
Natale, che rifarei comprando una bottiglia di champagne, che rifarei pur
conservando intatto il giudizio precedente sul Re corrotto e osannato, poi
caduto e abbandonato. Che rifarei si chiami esso Mario Rossi, Giuseppe Verdi o
Silvio Berlusconi».
Non avevate immaginato dove volesse andare a parare? Siete
degli ingenui, bastava sentire come montava il climax. Via, tutti a Palazzo
Grazioli, a Natale. Tutti con una bottiglia di champagne. In cambio, poi,
Labate ci fa il favore di dirci nome e cognome del tizio col quale brindò suo
papà. Era Mario Rossi? Era Giuseppe Verdi?
venerdì 9 agosto 2013
Antonio Esposito, napoletano
La
bassezza morale e intellettuale dei servi di Berlusconi ci offre orrori
sempre nuovi. Li abbiamo visti darsi a crisi isteriche ogni volta che veniva
resa pubblica una telefonata del loro padrone a questa o a quella mignotta, a
questo o a quel magnaccia: si trattava di intercettazioni ordinate dalla
magistratura e rese pubbliche dopo essere state messe agli atti, ma il vulnus
alla privacy li faceva andare in convulsioni. Fanculo alla privacy, ora. Ora,
hanno la registrazione della telefonata intercorsa tra un cronista de Il
Mattino e il presidente della sezione della Corte di Cassazione che ha condannato in via definitiva il loro padrone, ed è gara a chi sa spremerne di più.
Registrazione effettuata dal primo ad insaputa del secondo, e della quale è
stata resa pubblica solo una parte, quella che avrebbe dovuto dimostrare la
fedeltà al testo pubblicato dal giornale di Caltagirone, e che invece
ha dimostrato quasi da subito che si era in presenza di una palese manipolazione. Un trappolone nel quale il giudice è caduto assai ingenuamente, niente di più, niente di meno. Ed essendoci davvero poco, praticamente niente, per inficiare la sentenza del 1° agosto, eccoli
affannarsi, i servi, sul dialetto di
Antonio Esposito, come sul colore dei calzini di Raimondo Mesiano: il giudice e il giornalista si conoscono da oltre trent’anni,
sono entrambi di Napoli, ma il fatto che la telefonata sia in napoletano è
occasione di un vero e proprio processo pubblico.
«Non badiamo ai contenuti,
teniamoci alla forma», scrive Annalisa Chirico in una lettera a Il Foglio, con
ciò palesando che la telefonata può al massimo tornare utile per una character
assassination. «La forma è francamente imbarazzante», scrive la Chirico. Scrive
che «quella cadenza va ben olre l’elegante e sanguigna inflessione del fior
fiore dell’intellighenzia campana» e che «in quel goffo e involuto eloquio non vi è traccia dell’accento di un non meno partenopeo Gaetano Filangieri o
Giambattista Vico». Chissà come può esserne così sicura, visto il Filangieri e
il Vico non ci hanno lasciato neanche un file audio. Ma è che stigmatizzare l’uso del dialetto senza salvare il dialetto in sé le avrebbe fatto correre il rischio di sembrare un tantinello razzista, e non sia mai, meglio arrampicarsi sul ridicolo: la signorina ha prova che il Filangieri e il Vico avevano tutt’altro accento, informatene l’Accademia di Glottologia.
Il dialetto di Antonio
Esposito, al parere della improvvisata linguista (sia detto senza doppio
senso), somiglia piuttosto a quello di Felice Caccamo, la celebre maschera
napoletana interpretata da Teo Teocoli. È chiaro che a condannare in via definitiva
il datore di lavoro della Chirico, che per inciso lavora per Panorama ed è
stata la starlette dell’happening fogliante «Siamo tutti puttane», non è stato
un giudice, ma una macchietta.
Sedicente liberale, la Chirico, ma Gaetano
Salvemini ci ha avvisati: «A chiamarvi liberale correte il rischio di vedervi
confuso con certa gente con cui non vorreste avere nulla da fare neanche se il
loro aiuto dovesse scamparvi dalla morte» (Italia scombinata, Einaudi 1959).
martedì 6 agosto 2013
[...]
La Corte
di Cassazione si pronuncia sulla legittimità e non sul merito di una sentenza. Silvio
Berlusconi «sapeva» o «non poteva non sapere»? È questione che attiene al
merito e le motivazioni della sentenza di primo grado, del tutto recepite da
quelle della condanna in appello, dicono: «Sapeva». Pag. 91, 2° capoverso: «Vi
è la piena prova, orale e documentale, che Berlusconi abbia direttamente
gestito, ecc.». Stessa pagina, dal 6° all’8° capoverso: «Berlusconi rimane al
vertice della gestione dei diritti, posto che, come ha dichiarato il teste
Tatò, Bernasconi rispondeva a Berlusconi senza nemmeno passare per il C.d.A. e nessuno
ha riferito che tra Bernasconi e Berlusconi vi fosse un altro soggetto con
poteri decisionali nel settore dei diritti, neppure dopo la quotazione in borsa
e la c.d. “discesa in campo” di Berlusconi. Lo stesso ha dichiarato il teste
Tronconi. Inoltre Berlusconi aveva rapporti diretti con Lorenzano, che operava a
fianco di Agrama e Cuomo, come risulta dalla deposizione di vari testi che
hanno riferito di incontri tra i due che non potevano
che riguardare questioni attinenti ai diritti». Tizio, Caio, Sempronio… Ben più
che prova logica, dunque. Ma tutto questo, dicevamo, attiene al merito.
È del tutto pacifico, dunque, che, quando il presidente della sezione della Corte di Cassazione che ha rigettato il ricorso presentato dai difensori di Berlusconi si intrattiene al telefono col giornalista de Il Mattino sul merito, non sta parlando della sentenza che ha pronunciato il 1° agosto, ma delle due che l’hanno preceduta in primo e in secondo grado: in pratica, non c’è neppure la possibilità che in qualche modo la infici palesando un qualche vizio di pregiudiziale parzialità. Probabilmente avrebbe fatto meglio a non concedere l’intervista per non prestarsi alle polemiche, che non era difficile prevedere sarebbero esplose comunque, qualunque cosa avesse detto, ma il tono colloquiale e assai poco formale col quale si intrattiene con chi lo intervista è prova che sul punto sia stato guidato con malizia.
È del tutto pacifico, dunque, che, quando il presidente della sezione della Corte di Cassazione che ha rigettato il ricorso presentato dai difensori di Berlusconi si intrattiene al telefono col giornalista de Il Mattino sul merito, non sta parlando della sentenza che ha pronunciato il 1° agosto, ma delle due che l’hanno preceduta in primo e in secondo grado: in pratica, non c’è neppure la possibilità che in qualche modo la infici palesando un qualche vizio di pregiudiziale parzialità. Probabilmente avrebbe fatto meglio a non concedere l’intervista per non prestarsi alle polemiche, che non era difficile prevedere sarebbero esplose comunque, qualunque cosa avesse detto, ma il tono colloquiale e assai poco formale col quale si intrattiene con chi lo intervista è prova che sul punto sia stato guidato con malizia.
La supercazzola del katechon
Krisis,
Dallo Steinhof, Feuerbach contro Agostino d’Ippona, Icone della legge, L’Angelo
necessario, Dell’Inizio, L’Arcipelago, Della cosa ultima… Ho letto una dozzina
di volumi di Massimo Cacciari, senza però mai trovarci niente di speciale, null’altro
che glosse di glosse, ma questo probabilmente è dovuto solo ai miei limiti, e mi
sono fermato a Tre icone, che è del 2007, abbandonato ogni volta che provavo a riaprirlo, ogni volta dopo poche pagine: non riuscivo a concentrarmi sul
filosofo, mi era impossibile prescindere dalle sue comparsate televisive, di
regola degeneranti in risse. Leggevo, ma mi tornava in mente «quella volta che
a Ottoemezzo…», «quella volta che a Servizio pubblico…», e mi veniva da ridere,
e non riuscivo a proseguire: mi sembrava più serio il Massimo Cacciari di
Maurizio Blondet che quello originale. È così che qualche mese fa, in un
momento di uggia, ho deciso di comprare il suo ultimo volume, Il potere che
frena (Adelphi 2013), giusto per tirarmi un po’ su. Sarà che l’uggia era
leggera, ma ho cominciato a ridere da subito, appena ho letto il titolo del
primo capitolo: Il problema della teologia politica.
Ora, se il mio lettore è del tutto a digiuno sulla questione, converrà dire che di teologia politica si parla da un bel po’ di tempo, ma senza che si sia mai trovato accordo su cosa sia esattamente. Politica della teologia? Teologia della politica? Né l’una, né l’altra cosa, né entrambe. Cioè, per meglio dire, entrambe, forse sì, ma in misura anche sensibilmente diversa da autore ad autore: una storia semasiologica, quella della teologia politica, che sembra fatta apposta per tenderci tranelli ad ogni passo. Parliamo della possibilità di trattare razionalmente il fondamento trascendente della relazione che in senso lato chiameremmo politica, e senza il quale la relazione stessa è persa? O piuttosto parliamo della cogenza che fa del numinoso un evento necessariamente immanente, sennò insignificante per pletora di significati? Non si sa. Koselleck non si sbilancia, Ritter dice e non dice, Metz non nega e non afferma. Certo, per teologia politica non è da intendersi la theologia politike di cui parla Agostino nel De Civitate Dei, e tuttavia è proprio da lì che prende inizio la discussione intorno al katechon, che sembra stare al centro della questione, almeno per come è stata riformulata ai nostri giorni, meno di cent’anni fa, da Carl Schmitt (Nomos der Erde).
Nell’illustrarla torna utile Roberto Esposito: sei o sette paginette (Due, Einaudi 2013 – pagg. 83-89) che valgono assai più delle 217 di Massimo Cacciari, 70 delle quali, però, sono preziose, perché raccolgono i commenti, da Ireneo a Calvino, sull’enigmatico riferimento di Paolo (2 Ts 2, 1-12) al «potere che frena». Rovello di titani, non è per dire, ma in tutti viene meno la più banale delle considerazioni: le lettere di Paolo erano indirizzate a illetterati, erano bollettini propagandistici nei quali un termine oscuro o ambiguo poteva tornare buono proprio perché oscuro o ambiguo. La comunità cristiana di Tessalonica smaniava perché sentiva prossima la fine dei tempi, che ovviamente era destinata a farsi attendere, e voilà, da genio, Paolo se ne esce con la supercazzola della dilazione che verrà meno «a suo tempo», e che accadrà ognun lo dice, ma cosa sia nessun lo sa. Si dirà che è l’impero romano, che poi cade, ma l’Anticristo non arriva. E allora un’altra supercazzola: il katechon è la Chiesa. Ma poi la secolarizzazione fa alla Chiesa più di quanto Odoacre riesca a fare all’impero romano, e allora c’è bisogno di un’altra supercazzola: il katechon è l’amministrazione corrente, lo Stato laico. Sempre katechon rimane, ma con scappellamento a destra.
Ora, se il mio lettore è del tutto a digiuno sulla questione, converrà dire che di teologia politica si parla da un bel po’ di tempo, ma senza che si sia mai trovato accordo su cosa sia esattamente. Politica della teologia? Teologia della politica? Né l’una, né l’altra cosa, né entrambe. Cioè, per meglio dire, entrambe, forse sì, ma in misura anche sensibilmente diversa da autore ad autore: una storia semasiologica, quella della teologia politica, che sembra fatta apposta per tenderci tranelli ad ogni passo. Parliamo della possibilità di trattare razionalmente il fondamento trascendente della relazione che in senso lato chiameremmo politica, e senza il quale la relazione stessa è persa? O piuttosto parliamo della cogenza che fa del numinoso un evento necessariamente immanente, sennò insignificante per pletora di significati? Non si sa. Koselleck non si sbilancia, Ritter dice e non dice, Metz non nega e non afferma. Certo, per teologia politica non è da intendersi la theologia politike di cui parla Agostino nel De Civitate Dei, e tuttavia è proprio da lì che prende inizio la discussione intorno al katechon, che sembra stare al centro della questione, almeno per come è stata riformulata ai nostri giorni, meno di cent’anni fa, da Carl Schmitt (Nomos der Erde).
Nell’illustrarla torna utile Roberto Esposito: sei o sette paginette (Due, Einaudi 2013 – pagg. 83-89) che valgono assai più delle 217 di Massimo Cacciari, 70 delle quali, però, sono preziose, perché raccolgono i commenti, da Ireneo a Calvino, sull’enigmatico riferimento di Paolo (2 Ts 2, 1-12) al «potere che frena». Rovello di titani, non è per dire, ma in tutti viene meno la più banale delle considerazioni: le lettere di Paolo erano indirizzate a illetterati, erano bollettini propagandistici nei quali un termine oscuro o ambiguo poteva tornare buono proprio perché oscuro o ambiguo. La comunità cristiana di Tessalonica smaniava perché sentiva prossima la fine dei tempi, che ovviamente era destinata a farsi attendere, e voilà, da genio, Paolo se ne esce con la supercazzola della dilazione che verrà meno «a suo tempo», e che accadrà ognun lo dice, ma cosa sia nessun lo sa. Si dirà che è l’impero romano, che poi cade, ma l’Anticristo non arriva. E allora un’altra supercazzola: il katechon è la Chiesa. Ma poi la secolarizzazione fa alla Chiesa più di quanto Odoacre riesca a fare all’impero romano, e allora c’è bisogno di un’altra supercazzola: il katechon è l’amministrazione corrente, lo Stato laico. Sempre katechon rimane, ma con scappellamento a destra.
«Guerra civile»
«Ne
cherchez jamais à faire autre chose que l’opéra buffa, ce serait forcer votre
destinée que de voulir réussir dans un autre genre… L’opéra seria, cela n’est
pas la nature des Italiens». Non è certo che Beethoven abbia detto proprio così
a Rossini (pare che le memorie di Edmond Michotte siano un po’ romanzate), ma
ogni volta che sento parlare di «guerra civile» in Italia – e ultimamente se ne
riparla, anche con qualche compiaciuta insistenza – penso che le cose stiano proprio a questo modo: il dramma non è categoria che si
attaglia a les Italiens, siamo plebe che dà il meglio di sé quasi
esclusivamente nella farsa.
Sarà che hanno tutte carattere esogeno, le «guerre
civili» che si sono combattute in Italia, almeno così dice Virgilio Ilari
(Guerra civile, Ideazione editrice 2001), e argomenta in modo convincente. D’altra
parte non è fine darne una ragione appellandosi al «carattere nazionale», o
comunque non è scientifico (se vogliamo difendere la dignità di scienza che in
tanti negano alla storia), peggio ancora tirare in ballo la «destinée» (il
revival spengleriano si è esaurito già da anni).
Niente, siamo costretti a
sentirci dire che c’è in atto una «guerra civile» – la recrudescenza di
una antica «guerra civile», per meglio dire – e in scena sfilano solo maschere grottesche,
caricature belliche, grugni feroci che vorrei vederli a tentare quello che
minacciano: un ceffone, e Brunetta comincia a strepitare «mamma, mammina, m’han
fatto la bua!»; alla prima raffica di mitra al polpastrello della Santanché viene
la vescichetta, se non si spezza l’unghia o
l’intonaco del soffito non la seppellisce; Verdini e Capezzone si arrendono al
primo attacco; Schifani sviene prima; Cicchitto somatizza e corre al cesso; finisce
che il vero eroe sarà il barboncino, che abbaierà fino alla fine (sull’elicottero
non c’era posto, e pure la Pascale l’ha trovato a stento, ché come fidanzata del
satiro che è riuscito a mettere la testa a posto già non serviva più da mesi).
Non che nel campo avverso spicchi un Cuordileone. Ma ve lo immaginate Civati
sulle barricate? E Scalfarotto? Roba di carta, la «guerra civile».
[...]
«Non è
un addio», ho scritto al cosiddetto «passo indietro» che
Berlusconi fece il 25 ottobre dell’anno scorso. «Non è un addio e non è neppure una rinuncia alla
leadership, ma solo l’annuncio che la eserciterà in modo obliquo, perciò ancor
più spregiudicatamente, se possibile»; e concludevo: «Rimango dell’idea che ho
ripetutamente espresso su queste pagine: era necessaria la sua eliminazione
fisica, ora è troppo tardi». Nel caso ci fosse stato un rischio reale di «guerra
civile», ovviamente, ma non c’è mai stato, dunque non è mai stato necessario toglierlo di mezzo.
Un treppiede, una statuina del Duomo di Milano, ma in fondo erano gesti di affetto. Era in programma la farsa, l’opera buffa che va in scena in questi giorni, non potevamo perdere un protagonista, il protagonista. Ma dobbiamo crederci: dobbiamo credere che questa sia davvero una cruenta faida fratricida, sennò ci scapperebbe da ridere.
mercoledì 31 luglio 2013
venerdì 26 luglio 2013
«Mi pare che in Beethoven manchi il ritmo»
Albert Willem
de Groot ha segnalato una cinquantina di significati diversi del termine «ritmo»
(Der Rhythmus) ed Edgar Willems è arrivato a contarne ben quattrocento (Le
rythme musical). E dunque a cosa fa riferimento, Giovanni Allevi, quando
afferma: «Mi pare che in Beethoven manchi il ritmo»? Parla della strutturazione,
dello sviluppo o della periodicità? Fa forse riferimento al «metro», che però è solo
uno degli elementi dell’organizzazione della durata? «Il ritmo non è un
concetto univoco, ma un termine generico – scrive Paul Fraisse (Le structures
rythmiques) – sicché solo l’analisi del testo musicale può individuarne le
componenti dando ad esse unità gerarchica», e Allevi non cita una composizione in
particolare, dice «in Beethoven», come se la mancanza di «ritmo» sia una
caratteristica di tutta la sua produzione: forse vuol dire che in lui non
riesce ad individuare equivalenza di durata tra le parti che confluiscono nella
linea melodica? Può darsi, perché aggiunge che «il ritmo è elemento che manca [anche]
nella tradizione classica [complessivamente presa in considerazione(?)]» e che ha
pienamente afferrato cosa sia, il «ritmo», solo dopo aver lavorato con
Jovanotti. L’avesse detto Guia Soncini, la questione non si porrebbe, ma Allevi
ha studiato in conservatorio e dovrebbe sapere che quel dum-dum che amplifica
il tic-tac del metronomo è peculiarità di certa musica – volendola considerare
tale – ma che ce n’è altra che il battito, il respiro, l’onda di vita che l’attraversa
e la muove, l’ha dentro, e da lì dentro le dà forma e andamento, anche facendo
a meno di una linea di bass & drum. E allora che cazzo significa –
esattamente – «mi pare che in Beethoven manchi il ritmo»? Domande
che nessuno gli ha rivolto. D’altronde la sua uscita fa il paio con le reazioni
che ha suscitato in chi di Beethoven conosce tutt’al più le prime cinque battute
della V Sinfonia, l’An die Freude della IX nell’arrangiamento di Wendy Carlos
per Clockwork Orange (Stanley Kubrick, 1971) e forse – dico forse – l’attacco
di Für Elise e qualche passaggio della Mondscheinsonate. Il tutto s’incastona
a meraviglia in un’Italia in cui solo l’analfabetismo musicale è più diffuso
della propensione a polemizzare senza argomentare: solo in Italia un
compositore come Giovanni Allevi poteva essere dapprima salutato come un genio,
e poi trattato peggio di un cane rognoso, per essere eventualmente
riconsiderato un genio dopo la morte, se mai morisse presto, meglio se per leucemia o per overdose; e solo in Italia l’ignoranza riesce a farsi così bene scudo dei
luoghi comuni, dichiarandoli territori sacri, intangibili e dunque
impenetrabili, perciò da rispettare, ma tenendosene alla larga. Avesse detto
che in Hummel manchi il ritmo, affermazione assai più temeraria di quella
analoga che Allevi ha fatto per Beethoven, chi lo avrebbe contestato? Ma Beethoven
è Beethoven: per la plebe cui da almeno vent’anni la scuola d’obbligo non dà
più alcun rudimento di educazione musicale, Beethoven è intoccabile. Nessuno
che abbia chiesto ad Allevi di spiegare cosa intendesse per ritmo, visto che si
tratta di uno dei concetti più controversi e dibattuti nella storia della
musica: tutti a saltargli addosso come furie, come se di Beethoven fossero
consumatori a colazione, a pranzo e a cena. Peggio, come se fossero sentinelle
di guardia al suo mausoleo. Il punto più basso, poi, si è toccato col video che il
maestro Giuseppe Maiorca ha dedicato, in mutandoni da combattimento, «a tutti
quei cretini che pensano che Beethoven non abbia ritmo»: un’esecuzione del
quarto movimento della Sonata n. 18 che per svergognare Allevi sembrava suonata
da Jovanotti. Roba che avrebbe fatto esclamare a Richter:
«Basta! Questo Beethoven ha troppo ritmo!».
giovedì 25 luglio 2013
Perdenti, dunque vincitori
Vent’anni
fa veniva dato alle stampe The Culture of Complaint, che l’anno dopo arrivava
in Italia, per i tipi di Adelphi, con un titolo che già dava un’idea del tipo
di fortuna che cercava qui da noi, e che in sostanza prefigurava la differenza
di stile tra la polemica mossa al «politicamente corretto» di qua e di là dall’Atlantico.
Non che «piagnisteo» tradisse il senso di «compliant», infatti, ma dava una
connotazione caricaturale a «lamentela», cercando – per trovarla con facilità –
una legittimità alla «scorrettezza» come arma polemica.
I risultati sono nei
fatti: mentre negli Stati Uniti la critica al «politicamente corretto» ha
prodotto una riflessione seria anche laddove si limitasse a usare i mezzi della satira di
costume, qui da noi è diventato un esercizio coatto, spesso becero, anche
quando ad applicarvisi erano nomi d’un qualche peso. In tal senso potremmo dire
che con la morte di Giorgio Gaber, che d’altronde aveva anticipato di almeno
due o tre lustri le riflessioni di Robert Hughes, peraltro con intuizioni che
restano folgoranti anche a così lunga distanza, l’Italia ha perso il solo
critico del «politicamente corretto» che abbia mai avuto, per lasciare il campo
a incursioni squalliducce, velleitariamente
provocatorie, quasi sempre volgari, che si sono pressoché esaurite nel dare del
«frocio» a un omosessuale, nel mugugnare per l’odore di kebab nei nostri centri
storici e nel dichiararsi felicemente incompetenti dinanzi all’arte
contemporanea.
Se la critica al «politicamente corretto», insomma, era una
buona occasione per il pensiero conservatore, in Italia è stata sprecata
riducendola ad una forma intrattenimento che tradiva perfino il movente
liberatorio per insterilirsi in tic nevrotico. Questo, quando si trattava de Il
Foglio, per buttare un occhio alla stampa, perché con il Giornale o con Libero, si riusciva a scendere anche più
in basso. D’altra parte accade sempre così con quello che arriva dall’altra
sponda dell’oceano: si copia, ma male. E basta rileggere La cultura del
piagnisteo vent’anni dopo per fare una scoperta che tutto sommato è sconvolgente:
se «la nuova sensibilità decreta che i nostri eroi saranno solo le vittime»
(pag. 23), il ruolo spetta di diritto agli eroicomici disadattati alla
modernità, che dopo aver tentato invano la via del politically uncorrect come
momento di resistenza e di ribellione, possono dichiararsi perdenti, dunque
vincitori.
venerdì 19 luglio 2013
Consigli a Pippo
«Ti vergogni se ti chiamo Pippo?»
Massimo Troisi
Per
avere un’idea plastica del degrado in cui versa la politica in Italia basta
pensare al fatto che il meno peggio sulla piazza è quello schifo del Pd nel
quale quello che fa meno schifo è Pippo Civati. Dico: Pippo Civati. Ecco,
dunque, che a voler chiacchierare di politica senza essere aggrediti dalla
nausea mi tocca parlare di lui.
A pelle mi è simpatico, Pippo, molto simpatico. Anzi, direi di più, ha quasi un che di familiare, sarà che mi rammenta quel fessacchione di Mimmo Miragliuolo al quale in prima media avevamo fatto credere che normalmente il cazzo avesse l’unghia, godendo come pazzi a vederlo seriamente preoccupato che il suo non l’avesse, ma a millantarne una bella grossa, quasi un artiglio. Bene, oggi su Sette c’era un’intervista a Pippo, e su quella mi intratterrò. Non per fargli le pulci, però, piuttosto per dargli dei consigli. Come a prenderlo in disparte per dirgli: «Stai tranquillo, Mimmo, si scherzava: normalmente il cazzo non ha l’unghia».
A pelle mi è simpatico, Pippo, molto simpatico. Anzi, direi di più, ha quasi un che di familiare, sarà che mi rammenta quel fessacchione di Mimmo Miragliuolo al quale in prima media avevamo fatto credere che normalmente il cazzo avesse l’unghia, godendo come pazzi a vederlo seriamente preoccupato che il suo non l’avesse, ma a millantarne una bella grossa, quasi un artiglio. Bene, oggi su Sette c’era un’intervista a Pippo, e su quella mi intratterrò. Non per fargli le pulci, però, piuttosto per dargli dei consigli. Come a prenderlo in disparte per dirgli: «Stai tranquillo, Mimmo, si scherzava: normalmente il cazzo non ha l’unghia».
In primis, dire sì a Vittorio Zincone: grosso
errore, Pippo, Zincone è cattivo come un ragazzino delle medie. E infatti, non
so se te ne sei accorto, l’intervista aveva il chiaro scopo di ridurti a
macchietta. C’è riuscito solo a metà, perché tu hai tirato fuori l’artiglio, ma
«i suoi miti giovanili?», «il film preferito?», «il libro?», «la canzone?» - non
ti sei accorto che ti trattava da adolescente al quale si chiede: «Mi fai
sfogliare la tua Smemoranda?». Mai più, Pippo, sennò ti veltronizzeranno per l’eternità.
In secondo luogo, la foto che corredava l’intervista. Cazzarola, Pippo, non sei
di primo pelo, dovresti sapere che, quando il fotografo si china per scattare
una foto dal basso verso l’alto, sorridere e incrociare le braccia fa salumiere
sulla soglia del negozio.
Il sorriso, poi. Non che un politico non debba
sorridere, per carità di Dio, ma c’è sorriso e sorriso. Hai labbro inferiore
carnoso e commissure labiali accentuate: stira di più quel cazzo di
orbicolare, quando sorridi, altrimenti sembri Winni the Pooh.
La frangetta, poi, vogliamo finalmente parlare di quella
stracazzo di frangetta? A parte il fatto che ti si confonde con la
Serracchiani, ma hai l’arcata sovraorbitaria molto accentuata e le sopracciglia chiare, non ti accorgi che il
tutto ti dà facies da microcefalo? Via la frangetta, Pippo, fronte libera,
taglio severo e basetta alta.
Per finire: le camicie a righini sono d’un triste…
giovedì 18 luglio 2013
Varie
Non so
se sia ancora in catalogo, ad ogni buon modo ve lo consiglio perché si tratta
di un libro eccezionale. Parlo de Il cono d’ombra di Franco Bandini (SugarCo,
1990), una minuziosa disamina dell’intricatissimo groviglio dei servizi segreti
italiani, sovietici, tedeschi, inglesi e francesi nel quale venne a incastrarsi
l’assassinio dei fratelli Rosselli, nel 1937. Per chi ha letto Vita di Carlo
Rosselli di Aldo Garosci (Vallecchi, 1973) sarà un duro colpo sollevare il velo
della leggenda e Il conformista di Moravia sembrerà d’un tratto un manualetto
di disinformazione sul fascismo.
Un’altra
lettura che consiglio è quella di un libricino che raccoglie i contributi di
Donatella Di Cesare, Fabio Milazzo, Laura Cervellione, Corrado Ocone, Lorenzo
Magnani e Simone Regazzoni sul Manifesto del nuovo realismo di Maurizio
Ferraris: Il nuovo realismo è un populismo (il melangolo, 2013). Una
stroncatura senza possibilità di appello. Bene, fanculo a Ferraris.
La
rivolta del vescovo Lefebvre di Ugo Ronfani (Pan Ed., 1977) contiene in
versione pressoché integrale il discorso che l’«antipapa di Ecône» tenne l’anno
prima nel Palazzo dello Sport di Lilla e che segnò la rottura con Roma. È un
riandare alla fonte primigenia di una querelle che si è trascinata per decenni
e che ora pare segnare una rottura definitiva tra la Santa Sede e la Comunità
Sacerdotale S. Pio X. Ho più volte scritto su queste pagine che le basi del
dissenso fossero insanabili e che il tentativo di ricomposizione dello scisma voluto
da Joseph Ratzinger fosse disperato: il discorso di Lefebvre, che fin qui
conoscevo solo in stralci, avrebbe dovuto scoraggiare chiunque.
Dopo
aver chiuso un post nel quale ho espresso un’opinione divergente dal comune
sentire, per quanto possa essere sereno riguardo a ciò che ho scritto, torno
spesso ad approfondire. Così è stato per ciò che ho scritto riguardo alla
Liberazione di San Pietro di Raffaello e così sono arrivato alla monografia di
Luigi Serra (Utet, 1941), che, anche se non tocca il punto relativo alla
velatura in calce sulla quale mi sono intrattenuto, conferma l’impressione
irriverente da me confessata: l’arte di Raffaello è innanzitutto artigianato.
Serra non si è esprime proprio in questi termini, ma – come per il Caravaggio
di Bernard Berenson – fa piacere accostarsi a un critico che guarda l’opera
senza farsi accecare dalla fama dell’autore.
Mi
scrive monsignor *** chiedendomi la rimozione di un post del 2007. Senza arroganza, senza neppure un’ombra di minaccia. Sua
Eccellenza si era dichiarato gay ai microfoni di un cronista de La7, per fare
repentina marcia indietro: «Sono stato un grande ingenuo – disse allora – forse
ho peccato di superficialità. Il ragazzo di La7 è veramente entrato nel mio
studio, il personaggio ripreso sono io. Non contesto le riprese e le evidenze,
è tutto vero. Ma io non sono gay, volevo scrivere un libro, una ricerca sul
problema dell’omosessualità tra i preti, dunque mi sono messo su Internet e ho
cercato siti gay, ho contattato quel ragazzo ed è venuto da me. Fatto sta che
la televisione ha carpito la mia buona fede: in sostanza era solo un
esperimento, uno studio sul tema, e io sono caduto, ma spiegherò tutto ai miei
superiori». Non dev’esserci riuscito e ora cerca di cancellare sul web le
tracce di quella vicenda. Mi ha fatto una così struggente tenerezza che l’ho
accontentato.
Come
tutti i bimbi della sua età, anche il mio Michele adora l’effetto che fa una
cosa che cadendo si rompe. Ovviamente gli si fa presente che «non si fa», ma
non ha trovato difficoltà ad escogitare uno stratagemma che a me pare si offra
come un esemplare filogenesi della morale. Aspetta che ti volti, si assicura
che non stai guardando, getta a terra la cosa e, appena ti rigiri per
constatare il danno, si mette le mani in testa e cominciare a camminare avanti
e indietro lamentando: «Oooooh!». Come a dire: che peccato, che disgrazia, che guaio, che
sventura. Lui non c’entra, tutta fatalità.
Ho
sentito Roberto Calderoli al Senato. Di gran lunga più dignitoso di chi ne ha
preso le difese.
Prezioso volumetto, quello di Gennaro Cesaro (Benedetto Croce in pace, in guerra e in amore - Bastogi, 2012). Raccoglie testimonianze coeve e postume, anche prossime al pettegolezzo, che illustrano a meraviglia la personalità del «Padre Pio di Palazzo Filomarino» e dicono del crocianesimo più di quanto ne dica l’opera di Croce.
sabato 13 luglio 2013
La cosuccia («Strumento di democrazia diretta» / 2)
In uno
dei miei ultimi post («Strumento di democrazia diretta» - Malvino, 2.7.2013) ho
illustrato l’opinione decisamente scettica del socialista Arturo Labriola (1873-1959)
sul referendum, strumento di democrazia diretta – sosteneva – che vuol essere
un «correttivo» della democrazia rappresentativa, ma che in pratica si rileva
sempre «inutile» o «impotente». In parte ho fatto miei i suoi argomenti, che mi sono parsi convincenti, e ho
invitato il lettore a esaminare i risultati dei referendum tenutisi in Italia negli ultimi quattro o cinque decenni liberandoli dalla retorica celebrativa: quello sul divorzio e quello sull’aborto,
solitamente citati per rappresentare l’istituto referendario come il più alto
momento di partecipazione del cittadino alla gestione della cosa pubblica, si
limitarono a ratificare due leggi varate dal Parlamento, mentre la volontà
espressa nell’esito di molti altri – due per tutti, quello sull’abolizione del
finanziamento pubblico ai partiti e quello sulla responsabilità civile dei
magistrati – fu tradita senza troppa difficoltà.
Mi è stato fatto notare che l’esempio
italiano non è il migliore per saggiare potenzialità e limiti dell’istituto
referendario, invitandomi a considerare quello svizzero. È obiezione che fu
sollevata anche alla tesi espressa da Arturo Labriola, che la rigettò portando
a esempio i risultati dei 128 referendum tenutisi nel cantone di Zurigo tra il
1874 e il 1893, e concludendo – sennatamente, a mio modesto avviso – che si era
votato su questioni sostanzialmente irrilevanti. E tuttavia il modello svizzero
veniva da lui contestato nell’impianto: «Il corpo elettorale deve deliberare intorno a
questi punti e deve adottare una decisione. Ogni giudizio di insieme sfugge e
deve evitarsi. La mozione presentata si giudica per ciò che appare. Essa è
quella che è. L’elettore, deponendo nell’urna il suo bollettino, afferma
soltanto che intorno a quel punto determinato la sua volontà è questa o quest’altra.
Non esamina i motivi che hanno determinato la proposta, non questiona intorno
al modo pratico come verrà eseguita, non giudica degli uomini chiamati all’ufficio
delicato di applicare e, meglio ancora, di interpretare la legge: dà un avviso
intorno alla “cosa” e nulla più. Questa è ritenuta una manifestazione di radicale
democrazia, eppure è soltanto una pericolosa illusione […] Carezzando la vanità
popolare col pregiudizio che gli uomini in fondo contino nulla in regime
apparentemente democratico, cioè soggetto alla volontà popolare, e che a nulla
riducasi il potere dei governanti dove essi siano semplici ministri e strumenti
di altrui volere, si sollevano effettivamente questi uomini al di sopra del
comune livello e si dà loro una strana supremazia».
Quand’anche sia di solo
impiego «correttivo» della democrazia rappresentativa, per Arturo Labriola, il
referendum ha in sé il pericolo che sta nella democrazia diretta: parcellizzare
la gestione della cosa pubblica in istanze disarticolate da un progetto di
società, che con ciò non è smarrito nelle contraddizioni del plebiscitarismo,
ma trasferito in modo più o meno occulto nelle mani del demagogo di turno. «Vi
furono forse democrazie più dirette e radicali di quella di Atene? Quale
corruzione vi si esercitasse è roba che si apprende nelle prime scuole. E, a
dirla come sta, e in modo che non ci si senta troppo, è stato sempre più facile
corbellare le masse e corromperle in tutte le forme, che acquistarne i corifei.
[…] Trasferire la responsabilità di un fatto dagli uomini alle masse è già un
modo facile di eliminare ogni responsabilità. […] Il concetto della
responsabilità è un concetto esclusivamente personale. Più oblitera questo
carattere e più si oblitera esso stesso».
Non si scandalizzi, il lettore, ma
questa voleva essere solo la premessa a riflettere su una cosuccia tanto piccina
che sotto tutto quanto fin qui detto rischia addirittura di rimanere
schiacciata per la sua irrilevanza: qualche giorno fa Beppe Grillo ha espresso il
suo favore ai referendum di cui si sono fatti promotori i radicali di Marco
Pannella e oggi Silvio Berlusconi ha annunciato il suo appoggio alla raccolta di firme per alcuni dei quesiti. Due cosucce, dunque? No, una sola. Infatti, a sostenere un’iniziativa referendaria
–
chi nel promuoverla, chi nell’appoggiarla in modo generico, chi nella dichiarazione d’impegno attivo (sebbene limitato ad uno solo dei due pacchetti di quesiti, quello sui temi di natura giudiziaria) – troviamo tre leader politici che tra i molti tratti in comune hanno leadership di tipo carismatico, proprietà di fatto del movimento che guidano e gravi disturbi della personalità. Si tratta della triade che Kets De Vries individua nella figura del demagogo (Leaders, fools and impostors, 1993). Ci troviamo, in sostanza, di fronte al paradigma del momento di democrazia diretta che si fa strumento di quella che per Labriola è «una pericolosa illusione».
A scanso di equivoci, però, occorre qualche chiarimento. Quasi tutti i referendum di cui si sono fatti promotori i radicali pongono questioni di rilievo e in buona sostanza propongono l’abrogazione di leggi che a mio modesto avviso sarebbe giusto abrogare. Non entrerò nel merito delle questioni poste dai dodici quesiti, mi limiterò a segnalare che su due – l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e la responsabilità civile dei magistrati – abbiamo già votato e con esito che Labriola definirebbe «inutile» o «impotente». Tentar non nuoce, e forse neppure ritentare, ma – dicevamo – qui ci interessa solo la cosuccia, perché sul fatto che gli uomini che hanno in mano le leve dello Stato, «se vogliono, possono accettare il voto popolare, ma, se non vogliono, possono vittoriosamente resistervi», abbiamo già discusso nel post che ho citato all’inizio.
Un altro chiarimento necessario è relativo alle ragioni che portano a questa singolare congiunzione di astri nel firmamento della politica italiana. Ellittiche diverse, naturalmente, quelle di Pannella, di Grillo e di Berlusconi. Il primo è da almeno due decenni alla disperata ricerca di uscire dall’isolamento che peraltro ha ostinatamente cercato. Non è il caso di dilungarci troppo, su queste pagine la «cosa radicale» è stata oggetto di analisi in più occasioni. In breve, qui, possiamo limitarci a dire che lo strumento referendario era stato un po’ messo da parte dai radicali: costava energie sempre maggiori e dava risultati sempre minori. E tuttavia per Radicali Italiani, il soggetto della cosiddetta «galassia radicale» che negli ultimi anni è venuto a dar segni di sempre più manifesta insofferenza al settarismo di Pannella, il referendum è parso il solo tentativo possibile per rompere l’isolamento, e la scelta di sei temi sui quali i sondaggi danno da tempo il favore di larga parte dell’opinione pubblica nazionale è parsa la via più sicura. Non era quello che Pannella voleva. Trovandosi a dover accettare il fatto compiuto, ha aggiunto al pacchetto dei sei referendum promossi da Radicali Italiani quello suo, con altri sei referendum, su temi riguardanti la giustizia. Difficile capire se l’abbia fatto per riprendere il controllo dell’iniziativa politica della «galassia» neutralizzando le velleità di autonomia montanti in seno all’area, di fatto sta che i dodici quesiti referendari per i quali i radicali si stanno spendendo a raccogliere le firme si rivolgono a sensibilità che trovano congruità solo in un liberale: nella realtà italiana, che di liberale ha poco o niente, i primi sei chiamano a raccolta la sinistra e i secondi sei la destra.
Per Grillo il discorso è completamente diverso. Innanzitutto non è affatto certo che sapesse di cosa si trattasse quando il giornalista di Radio Radicale gli ha posto la questione. Attestato da sempre su posizioni giustizialiste, il M5S appoggia il referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati o quello che pone maggiori limiti alla custodia cautelare? Bah, può darsi, di certo c’è soltanto che alla dichiarazione molto estemporanea, molto vaga e per nulla impegnativa non è seguito altro, al momento. Forte è il sospetto che Grillo fosse a conoscenza solo del primo pacchetto di quesiti referendari (abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, libertà di scelta nella destinazione dell’8xmille, introduzione del divorzio breve, abolizione della carcerazione per fatti di lieve entità relativi alle vigenti norme sugli stupefacenti, ecc.).
Diametricamente opposto il discorso per l’appoggio – attivo, in questo caso – annunciato da Berlusconi: è altamente improbabile che i suoi si impegneranno nella raccolta di firme per toccare i punti sensibili della Bossi-Fini o della Fini-Giovanardi, altamente improbabile che facciano uno sgarbo alla Cei su questioni come il divorzio breve e l’8xmille. Inutile sottolineare, inoltre, il senso strumentale che assume il suo appoggio alla campagna referendaria radicale per la «giustizia giusta» nel frangente che lo vede impegnato come mai prima nella difesa delle sue sorti di indagato e di condannato in attesa di sentenze definitive.
Se il lettore ha avuto la pazienza di arrivare fino a questo punto, potrà essere indulgente con chi ha voluto solo tratteggiare per sommi capi le vie che portano i tre a questo assai malfermo accordo su gambe entrambe zoppe: l’intenzione non era quella di delineare lo scenario politico italiano dinanzi alle variabili poste dai referendum radicali, se mai si terranno, ma di tornare – come d’altronde era annunciato dal sottotitolo del post – alla critica sollevata da Labriola.
«Strumento di democrazia diretta», il referendum. Anche quando si dà come «correttivo» di una democrazia rappresentativa, tuttavia, non perde i caratteri che rendono pericolosa la democrazia diretta fatta sistema. Strumento, dunque, non solo «inutile» o «impotente», ma anche rischioso. E il rischio – se a questo punto non è superfluo aggiungerlo – è tutto a carico dei cittadini che, illudendosi di farsi legislatori in prima persona, non fanno altro che offrirsi, più o meno coscientemente, ai disegni di chi non si fa alcuno scrupolo nel «corbellare le masse».
Aggiornamento (15.7.2013) «Forte è il sospetto che Grillo...», dicevo. Sospetto ben fondato: fa sapere che non sapeva di cosa parlava e ritira il suo appoggio.
A scanso di equivoci, però, occorre qualche chiarimento. Quasi tutti i referendum di cui si sono fatti promotori i radicali pongono questioni di rilievo e in buona sostanza propongono l’abrogazione di leggi che a mio modesto avviso sarebbe giusto abrogare. Non entrerò nel merito delle questioni poste dai dodici quesiti, mi limiterò a segnalare che su due – l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e la responsabilità civile dei magistrati – abbiamo già votato e con esito che Labriola definirebbe «inutile» o «impotente». Tentar non nuoce, e forse neppure ritentare, ma – dicevamo – qui ci interessa solo la cosuccia, perché sul fatto che gli uomini che hanno in mano le leve dello Stato, «se vogliono, possono accettare il voto popolare, ma, se non vogliono, possono vittoriosamente resistervi», abbiamo già discusso nel post che ho citato all’inizio.
Un altro chiarimento necessario è relativo alle ragioni che portano a questa singolare congiunzione di astri nel firmamento della politica italiana. Ellittiche diverse, naturalmente, quelle di Pannella, di Grillo e di Berlusconi. Il primo è da almeno due decenni alla disperata ricerca di uscire dall’isolamento che peraltro ha ostinatamente cercato. Non è il caso di dilungarci troppo, su queste pagine la «cosa radicale» è stata oggetto di analisi in più occasioni. In breve, qui, possiamo limitarci a dire che lo strumento referendario era stato un po’ messo da parte dai radicali: costava energie sempre maggiori e dava risultati sempre minori. E tuttavia per Radicali Italiani, il soggetto della cosiddetta «galassia radicale» che negli ultimi anni è venuto a dar segni di sempre più manifesta insofferenza al settarismo di Pannella, il referendum è parso il solo tentativo possibile per rompere l’isolamento, e la scelta di sei temi sui quali i sondaggi danno da tempo il favore di larga parte dell’opinione pubblica nazionale è parsa la via più sicura. Non era quello che Pannella voleva. Trovandosi a dover accettare il fatto compiuto, ha aggiunto al pacchetto dei sei referendum promossi da Radicali Italiani quello suo, con altri sei referendum, su temi riguardanti la giustizia. Difficile capire se l’abbia fatto per riprendere il controllo dell’iniziativa politica della «galassia» neutralizzando le velleità di autonomia montanti in seno all’area, di fatto sta che i dodici quesiti referendari per i quali i radicali si stanno spendendo a raccogliere le firme si rivolgono a sensibilità che trovano congruità solo in un liberale: nella realtà italiana, che di liberale ha poco o niente, i primi sei chiamano a raccolta la sinistra e i secondi sei la destra.
Per Grillo il discorso è completamente diverso. Innanzitutto non è affatto certo che sapesse di cosa si trattasse quando il giornalista di Radio Radicale gli ha posto la questione. Attestato da sempre su posizioni giustizialiste, il M5S appoggia il referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati o quello che pone maggiori limiti alla custodia cautelare? Bah, può darsi, di certo c’è soltanto che alla dichiarazione molto estemporanea, molto vaga e per nulla impegnativa non è seguito altro, al momento. Forte è il sospetto che Grillo fosse a conoscenza solo del primo pacchetto di quesiti referendari (abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, libertà di scelta nella destinazione dell’8xmille, introduzione del divorzio breve, abolizione della carcerazione per fatti di lieve entità relativi alle vigenti norme sugli stupefacenti, ecc.).
Diametricamente opposto il discorso per l’appoggio – attivo, in questo caso – annunciato da Berlusconi: è altamente improbabile che i suoi si impegneranno nella raccolta di firme per toccare i punti sensibili della Bossi-Fini o della Fini-Giovanardi, altamente improbabile che facciano uno sgarbo alla Cei su questioni come il divorzio breve e l’8xmille. Inutile sottolineare, inoltre, il senso strumentale che assume il suo appoggio alla campagna referendaria radicale per la «giustizia giusta» nel frangente che lo vede impegnato come mai prima nella difesa delle sue sorti di indagato e di condannato in attesa di sentenze definitive.
Se il lettore ha avuto la pazienza di arrivare fino a questo punto, potrà essere indulgente con chi ha voluto solo tratteggiare per sommi capi le vie che portano i tre a questo assai malfermo accordo su gambe entrambe zoppe: l’intenzione non era quella di delineare lo scenario politico italiano dinanzi alle variabili poste dai referendum radicali, se mai si terranno, ma di tornare – come d’altronde era annunciato dal sottotitolo del post – alla critica sollevata da Labriola.
«Strumento di democrazia diretta», il referendum. Anche quando si dà come «correttivo» di una democrazia rappresentativa, tuttavia, non perde i caratteri che rendono pericolosa la democrazia diretta fatta sistema. Strumento, dunque, non solo «inutile» o «impotente», ma anche rischioso. E il rischio – se a questo punto non è superfluo aggiungerlo – è tutto a carico dei cittadini che, illudendosi di farsi legislatori in prima persona, non fanno altro che offrirsi, più o meno coscientemente, ai disegni di chi non si fa alcuno scrupolo nel «corbellare le masse».
Aggiornamento (15.7.2013) «Forte è il sospetto che Grillo...», dicevo. Sospetto ben fondato: fa sapere che non sapeva di cosa parlava e ritira il suo appoggio.
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