Viviamo
nel migliore dei mondi possibili, ma sordidi figuri, mossi da oscuro
e insanabile disagio esistenziale, ce ne guastano il pieno godimento
alternando molesta lagnanza a rabbioso
malcontento. Che fare? «Serve un grande manifesto
dell’ottimismo»,
propone Claudio Cerasa (Il Foglio, 24.1.2017),
rammentandoci che la vita è bella, e che la globalizzazione l’ha
resa tale anche a centinaia di milioni di individui che solo fino a
qualche anno fa morivano letteralmente di fame.
Come
dargli torto? Dove ieri regnava la più nera miseria, oggi ci sono
moltitudini che guadagnano trenta, quaranta, talvolta perfino cento
dollari al mese, per dieci, dodici, talvolta pure quattordici ore di
lavoro al giorno, che sarà pure sfruttamento, ma come negare che
costituisca un notevole miglioramento delle loro condizioni di vita? Niente
da fare, «mercanti delle paure,
signori dell’apocalisse,
prìncipi del disfattismo» si
ostinano a dire che tutto va a catafascio, rifiutandosi di «osservare
il mondo, e dunque la globalizzazione, nella sua meravigliosa
complessità».
Davvero
un peccato, questo richiamo di Claudio Cerasa a considerare la
complessità della globalizzazione, perché una generica esortazione
all’ottimismo
ci avrebbe consentito di non mettere da parte l’ironia
con la quale si è fin qui potuto evitare di dargli dello stronzetto.
E dunque andiamola a considerare, questa complessità.
Da
cosa nasce questo improvviso, ancorché assai relativo, benessere che
piove addosso a centinaia di milioni di individui che solo
fino a qualche anno fa morivano letteralmente di fame? Dalla logica
che impone al capitalismo di abbattere i costi della produzione per
massimizzare il profitto, cosa che può essere ottenuta solo in due
modi, peraltro non alternativi l’uno
all’altro:
sostituendo quanto più possibile al lavoro degli uomini quello delle
macchine e procacciandosi manodopera al più basso costo possibile. (In realtà, fra i costi
della produzione andrebbero considerati anche quelli relativi alla
materia prima, alla distribuzione del prodotto finito e alle tasse,
ma al momento teniamoli da parte.)
Dopo
poco più di mezzo millennio lungo il quale questa logica ha
trionfato, a che punto siamo? In altri termini, cosa possiamo
attenderci dal fatto che il costo del lavoro tenderà inevitabilmente
ad aumentare anche laddove ora è bassissimo, come d’altronde
è sempre accaduto nel corso della storia con la sola eccezione dei
casi in cui il lavoro era affidato a schiavi cui era negata ogni
rivendicazione? Per meglio dire: quale sarà la situazione quando non
sarà più possibile tenere alti i profitti avendo a disposizione
sempre nuova manodopera da pagare meno di quella già precedentemente
impiegata? E quanto tempo manca ancora perché questa situazione si
realizzi continuando a ritenere senza alternative un capitalismo senza regole e senza freni?
Anche
ammettendo che possa essere globalmente uniformato un regime di bassi
compensi, il che ovviamente potrebbe ottenersi solo mediante l’uso
della forza, verrebbe inevitabilmente meno la domanda dei beni
prodotti, e con ciò si arriverebbe a un crollo della produzione. Ma
anche ammettendo che il profitto possa mantenersi alto con la
riduzione delle tasse, c’è da chiedersi come tale espediente possa
risultare efficacemente stabile nel tempo dovendone comunque
rimettere la perdita a carico della collettività. In quanto a
cercare di ridurre il costo delle materie prime, è credibile possa
risultare possibile a fronte della loro progressiva riduzione o della
progressiva difficoltà a reperirle?
Pare evidente che, anche a
voler perpetuare il sistema entro il quale la logica capitalistica ha
fin qui potuto trovare brillanti soluzioni alle sue cicliche crisi,
si debba mettere in conto una sua crisi di sistema, che potrà
evitare il blocco delle forze produttive e il suo crollo solo grazie
ad un’accumulazione del capitale
su basi sempre più ristrette, il che comporterà un inevitabile
innalzamento delle tensioni sociali.
Certo, non deve darsi per
scontato che la logica del capitale porti a una sterminata
moltitudine di schiavi sulla quale imperi una sola potentissima
multinazionale che, dopo aver eliminato ogni concorrente, prenderà il
controllo totale sulla vita del pianeta, né che questa
rappresentazione un po’
fumettistica di un futuro che solo un ingenuo può pensare già
scritto preveda giocoforza una rivolta violenta che porti al caos o,
a piacere, a una dittatura del proletariato. E che diamine, Claudio
Cerasa ci invita a considerare la complessità della globalizzazione,
non possiamo cavarcela a questo modo.
E allora diciamo che quasi certamente non andrà così. Chi fin qui ha potuto trarre profitto da una globalizzazione senza regole potrà anche cedere alla tentazione di approntare soluzioni a breve termine, le solite, alternando concessioni a repressioni, ma poi si farà strada, e probabilmente siamo già a buon punto, la convinzione che un crollo del sistema può essere evitato solo cambiando tutto, perché tutto resti uguale. Occorreranno enormi risorse perché la transizione possa essere avvertita come tollerabile, o addirittura attraente, ma queste sono già disponibili, pronte ad essere spese per reclutare migliaia e migliaia di stronzetti che ci inviteranno a guardare il futuro con ottimismo.