martedì 19 ottobre 2010

Pot-pourri


Quasi dimenticato, pochissimo citato, Arrigo Cajumi è uno dei cervelli che più amo. Se riuscite a procurarvi il suo Pensieri di un libertino – io ne ho un’edizione della Einaudi del 1950, non so se abbia mai avuto ristampe, non mi meraviglierei se no – leggetelo, e poi mi fate sapere. Ancor più che in quello, però, Arrigo Cajumi è delizioso nei suoi articoli su Il Mondo, massimamente nella sua rubrica Pot-pourri, che somigliava alla homepage di un blog: una mezza dozzina di post assortiti su temi vari (filosofia, politica, costume, lettere), metà diario e metà pensatoio. Inciso: quando penso al fatto che Malaparte era una star e Cajumi era un quasi nessuno destinato a rimanerlo, mi spiego perché questo Paese dovesse finire com’è finito. Ecco, ieri sera leggevo i suoi Pot-pourri e m’è sembrata che l’Italia non meritasse altro che Malaparte. 

Sta’ tranquilla, mamma



[Prima di tutto vorrei tranquillizzare mia madre: sta’ tranquilla, mamma, non ho ripreso a scrivere letterine a Il Foglio, questa chissà come mi è scappata di mano e comunque – giuro – non ricasco nel vizio.]

È che Giuliano Ferrara m’era sembrato sbarellare più del solito nel suo editoriale di lunedì 18 ottobre e in un post (“Vendere allegramente” – Malvino, 18.10.2010 [04:54]) ho spiegato perché. Ho scritto che per colmare un debito pubblico di 1.800 miliardi allo Stato non basterebbe alienare “qualche caserma dismessa”, ciò che per Giuliano Ferrara parrebbe fare un “patrimonio immobiliare pubblico pari al 130 per cento di debito” (2.400 miliardi) e ho scritto che anche chi proponeva di “vendere, vendere, vendere”, però con qualche competenza in più di Giuliano Ferrara (Fondazione Magna Carta e Istituto Bruno Leoni), non nascondeva la necessità di vendere anche il Colosseo per colmare un tal debito (semmai, però, non iniziando proprio da quello).
Poche ore dopo aver scritto questo post, il topos letterario della messa in vendita del Colosseo tornava nel commento che Massimo Bordin faceva all’editoriale su Il Foglio in edicola (Stampa & Regime – Radio Radicale, 18.10.2010 [08:12:00-08:12:48]), per riportare la questione nei termini che Giuliano Ferrara aveva eluso, e m’è sembrato di far opera di bene nel richiamarglieli.
La sua risposta (qui sopra) è delle solite di quando non ha argomenti: ammette di essere incompetente in materia ma di essere assai convinto di ciò che dice, anche perché, ad uopo interpellati, esperti di fiducia lo avallerebbero (Idee e numeri per “vendere, vendere, vendere” un po’ di Stato – Il Foglio, 19.10.2010 [pag. 3]).

[Capito perché mia madre si rattrista nel sapere che mi intrattengo in questi passatempi assurdi?]

E dunque: gli esperti avallerebbero l’ideona di Giuliano Gerrara. Il condizionale è d’obbligo, perché sul punto – vendere o no il Colosseo? – gli esperti non si sbilanciano: “Il patrimonio pubblico, secondo i calcoli di Ricolfi, è dello stesso ordine di grandezza del debito (1.800 miliardi)”, che dunque non è – com’era scritto su Il Foglio di ieri – “largamente inferiore al valore”. Ma facciamo finta che questa sia una bazzecola, e andiamo avanti: “Venderne una parte non basterebbe a portarci al 60 per cento del pil, come vorrebbe il nuovo Patto europeo di stabilità in fieri, ma «scendere sotto il 100 per cento sarebbe già un grande risultato»”. Venderne una parte – è chiaro – servirebbe a colmare solo un terzo del debito pubblico, ma nel suo editoriale Giuliano Ferrara contava di ricavarci pure un extra “per finanziare cultura, sapere, ricerca, crescita”. Non basterebbe Tremonti, ci vorrebbe Gesù in vena di miracoli.
Questo primo esperto, dunque, non avalla un tubo: implicitamente afferma che per arrivare a 1.800 miliardi bisognerebbe vendere tutto il patrimonio immobiliare pubblico, non demaniale e demaniale. Ergo – adhuc – etiam Coliseum.
“La proposta di Ricolfi, che parla di quote collocabili sul mercato, ricalca per diversi aspetti l’idea lanciata nel 2005 dall’ex ministro Giuseppe Guarino, che propose una superholding in cui far confluire beni statali e società pubbliche da quotare in Borsa, incassando almeno 450 miliardi”. Idem con patate. Come si arriva a 1.800? Cosa ci vendiamo? Se non il Colosseo, gli Uffizi?
Per Edoardo Reviglio, un altro esperto interpellato da Il Foglio, “vendere, vendere, vendere” comporta un sacco di problemi: “«A differenza di altri più ottimisti di me – dice Reviglio – dopo aver studiato e osservato il patrimonio nelle sue varie sfaccettature per una decina d’anni, sono arrivato alla conclusione che il riordino del patrimonio sia una grande opportunità per il territorio, e più in generale per lo sviluppo del paese. Tuttavia, considerata la natura complessa, dispersa e granulosa, e le rigidità giuridiche e amministrative, la sua dismissione non può rappresentare la soluzione alla riduzione del debito pubblico in tempi brevi». Secondo Reviglio, «può dare un contributo (pari allo 0,2-0,4 di pil all’anno per i prossimi due/tre decenni), può contribuire a finanziare investimenti secondo il ‘principio di sostituzione’, ovvero dismetto un asset che non serve e con i proventi ne costruisco uno che serve». Va ricordato, inoltre, che il patrimonio non è fatto solo di immobili ma anche di partecipazioni locali, di crediti, di concessioni e di reti e infrastrutture: «Alcune di queste possono e devono dare maggiori redditi (sul fronte dei flussi) altre possono invece essere privatizzate». [Conclude Reviglio:] «Nessun miracolo ma piuttosto un’azione graduale di riordino. L’avvio di un grande processo che durerà decenni»”. E questo sarebbe un avallo?
Non va meglio con altri due esperti interpellati, Emilio Barucci e Federico Pierobon, che addirittura “stimano il valore nominale degli attivi immobiliari [non demaniali] dello Stato in 194 miliardi di euro”, ma “«il dato – aggiungono – non comprende molti immobili per i quali non è disponibile un inventario completo (parte del demanio militare e quelli ubicati all’estero) o è difficile effettuare una valutazione (musei e monumenti)»”. E siamo ancora agli Uffizi e al Colosseo. E io su cosa chiedevo franchezza?
Finiti, gli esperti? No, ce n’è un altro, Gianfranco Polillo, che però è il più scettico di tutti: “«Ad oggi – dice – lo Stato – dice – non sa esattamente di che cosa è proprietario»”. E che ti vendi, se non lo sai?

[Ora, forse, mi spetterebbe una replica, ma mamma si preoccuperebbe. Stavolta mi faccio bastare questo post. “Non mi fido”? Siamo pari: neanche mamma.]



lunedì 18 ottobre 2010

L’uovo di Uolter


D’Alema non è mi particolarmente simpatico, ma lo diventa ogni volta che penso a Veltroni: avrà tutti i difetti possibili, Baffino, ma il fatto che per anni, decenni, ormai quasi mezzo secolo, si sia impegnato a combattere Uolter, i uolteriani e il uolterismo, prima nel Pci-Pds-Ds e adesso nel Pd, ai miei occhi mette in ombra tutti i suoi difetti d’uomo e di politico, muovendo in me – per alcune frazioni d’attimo e non troppo spesso per fortuna – un che di dalemiano dal fondo dell’umana cazzimma. Peggio di Veltroni, nel Pd, chi?
L’ultima? A Busto Arsizio, il 9 ottobre, a un’assemblea del Pd. Qui Veltroni ha fatto una proposta in tema di immigrazione, porgendo al suo partito l’idea di “una politica migratoria selettiva: l’ammissibilità legata a una valutazione delle caratteristiche degli immigrati”. Cioè? “Età, sesso, stato civile, istruzione, specializzazione, conoscenza della lingua, della cultura, dell’ordinamento del paese si combinano in un punteggio o valutazione della ammissibilità dei candidati all’immigrazione”: insomma, discriminare alla frontiera. Tempo fa la Cei ne pensò una uguale: favorire l’immigrazione dai paesi di cultura cattolica o almeno cristiana. I buoni – e Uolter è buono per definizione – hanno talvolta di queste strane declinazioni della bontà che somigliano a vere e proprie schifezze, ma tant’è...
E dunque. L’immigrato troppo anziano, maschio, analfabeta e pastore di tre capre? Lo rimandiamo a casa: pochi punti. La giovane poliglotta nigeriana nubile e con un culo da sballo? Il punteggio la premia: ammissibile (eventualmente facciamo emigrare la Madia). Abbiamo bisogno di mani delicate che sappiano innaffiare a dovere i gerani sulle terrazze romane? Ammessi i filippini, che fanno punteggio alto perché coi gerani quasi ci parlano. Abbiamo bisogno di manovali nerboruti e ci troviamo in surplus di idraulici? Facciamo entrare i marocchini e rimandiamo a casa i polacchi. È l’uovo di Colombo, l’uovo di Uolter: si tratta di applicare ai candidati l’inverso dell’art. 3 della Costituzione: “Non tutti gli immigrati hanno pari dignità sociale, né sono eguali davanti alla legge: fanno punteggio l’età, il sesso, ecc.”.
Sento un retrogusto di Santanchè in questa proposta o mi inganno? È di sinistra? È kennediana? Come definire questa proposta? Veltroni la dice “pragmatica”. E qui il post chiude, sennò devo chiudere il blog.


Giornalettismo.com








“Vendere allegramente”




L’idea di privatizzare il patrimonio immobiliare pubblico non è nuova, ogni volta che si parla di debito pubblico (ormai quasi a 1.800 miliardi di euro) c’è qualcuno che la ripropone: oggi tocca a Giuliano Ferrara (Vendere, vendere, vendere: un’idea di Tremonti per TremontiIl Foglio, 18.10.2010), vogliamo darci un’occhiatina?
Cominciamo col dire che per la sua parte non demaniale (circa il 20% è di proprietà delle amministrazioni centrali, mentre poco più dell’80% lo è degli enti locali) questo patrimonio ammonta a non più di 400-450 miliardi di euro: ne consegue che bisognerebbe metter mano anche a quella demaniale, riqualificandola come cedibile, ma andando coi piedi di piombo perché “forse sarebbe azzardato cominciare vendendo il Colosseo”, e a consigliare cautela sono i liberisti della Fondazione Magna Carta e dell’Istituto Bruno Leoni in seminario congiunto (Roma, 18.6.2008). Adelante, sì, ma con juicio: andrebbero alienati prima gli uffici pubblici, poi le università, poi i musei, il Colosseo per ultimo.
Per Ferrara è tutto più semplice: “Qualche caserma dismessa in meno”. Neanche tutte: ce ne vendiamo alcune, semmai quelle più scassate, e ricaviamo 1.800 miliardi di euro. “Che il patrimonio immobiliare sia pari al 130 per cento del debito è un numero”, scrive, e non ha torto, ma solo se in quel numero ci sta pure il Colosseo o, se non quello, gli Uffizi o il Ponte dei Sospiri o il Maschio Angioino o i Sassi di Matera: li privatizziamo? Ma sì, Tremonti dovrebbe farlo – dice Ferrara – “per finanziare cultura, sapere, ricerca, crescita”. Ma i soldi non servivano per colmare il debito? Colmano il debito e insieme finanziano tutto questo ben di Dio? E poi, colmato il debito col patrimonio immobiliare pubblico, quante volte sarà possibile rivenderlo? Venduti gli uffici pubblici ai privati, non bisognerà prenderli in affitto? La spesa non farà altro debito? Appaltiamo ai privati il minimo indispensabile di burocrazia statale? 
L’editoriale dev’essere stato scritto con una glicemia fuori controllo, conviene lasciar perdere Ferrara, che ultimamente non è neanche più divertente, e tornare all’Operazione Colosseo di Mingardi & Rebecchini: “È chiaro che si tratta di un’operazione delicata […] ma è una sfida che, nelle condizioni in cui siamo, non è possibile non tentare”. Non c’è altra soluzione, qui. Con gli zuccheri a mille, invece: “Vendere, vendere, vendere, ma vendere allegramente, orgogliosamente”.


domenica 17 ottobre 2010

La bufala della santa che fu “pioniera della lotta ai preti pedofili”



Suor Mary MacKillop, oggi santa, fu “pioniera della lotta agli abusi sui bambini” (Corriere della Sera) o “pioniera della lotta ai preti pedofili” (la Repubblica)? No, questo è quanto si vorrebbe far credere e non è difficile immaginare chi e perché. “Fu scomunicata per aver denunciato un prete pedofilo” (La Stampa)? Nemmeno, fu scomunicata per non aver obbedito al suo vescovo su tutt’altra questione (la gestione economica degli istituti scolastici gestiti dall’ordine al quale apparteneva). “Denunciò un prete pedofilo” (il Giornale)? Questo può darsi, ma in ogni caso la denuncia fu fatta solo presso le autorità ecclesiastiche, secondo l’uso che era in vigore fino all’altrieri, prima che alla fogna saltassero i tombini negli Stati Uniti, in Irlanda, in Germania, ecc.
Il prete che avrebbe commesso abuso sui bambini, in questo caso, si chiamava Patrick Keating e fino al settembre di quest’anno non si aveva notizia che suor Mac Killop l’avesse denunciato ai suoi superiori perché pedofilo, anzi, neppure si sapeva della denuncia: è cosa messa in giro da una tv australiana, non più di tre settimane fa. C’è da dire, inoltre, che la scomunica della suora avvenne ben quattro anni dopo che padre Keating fu rimosso dalla sua parrocchia, per essere mandato in Irlanda, dove peraltro continuò ad occuparsi di bambini, non ci è noto se compiendo altri abusi.
Ancora a luglio di quest’anno, intervistata da Zenit, la postulatrice della causa di canonizzazione, suor Mary Casey, non faceva alcun cenno alla faccenda: “I motivi della scomunica sono complessi. Il padre fondatore, Julian Tenison Woods, aveva lavorato come direttore per l’Istruzione Cattolica ad Adelaide e non era molto popolare tra i suoi fedeli. Istituendo nuove scuole, aumentarono i debiti. Alcune sorelle non erano poi educate come avrebbero dovuto essere, ma Mary insisteva sul fatto che non potevano esserci divisioni. Il problema finale fu che uno dei consiglieri del Vescovo disse a Mary che il presule voleva che tornasse immediatamente nella zona rurale. Mary rispose che aveva bisogno di vederlo prima di tornare lì. La sua risposta fu comunicata al Vescovo come un rifiuto alla sua richiesta. I suoi consiglieri gli raccomandarono di scomunicarla, e così fece”.
E allora come nasce questa bufala della santa “pioniera della lotta ai preti pedofili”? Con un documentario andato in onda su ABC Compass il 25 settembre scorso, dopo che era stato dato l’annuncio della prossima canonizzazione, e ritrasmesso il 10 ottobre: padre Paul Gardiner azzardava solo ipotesi al riguardo, ma il tutto tornava a fagiolo per bilanciare lo scandalo che si era sollevato negli ultimi mesi per la scoperta di innumerevoli abusi sessuali commessi da preti cattolici in diverse parrocchie australiane. E infatti le sue affermazioni venivano opportunamente cucinate da The Sydney Morning Herald, con una mezza pezza d’appoggio dell’arcivescovo di Adelaide, monsignor Philip Wilson, e di lì rilanciate a chiunque le volesse utilizzare per dare alla santa un lustro in più.

Ci sarà un solo vaticanista italiano che si premurerà di andare a controllare e precisarci la faccenda?  

[più estesamente, domani, su Giornalettismo.com]

Update
Per questione personale, in breve: ClaudioLXXXI prende atto del fatto che sono riuscito a risalire alla primigenia fonte della bufala di una Mary MacKillop “pioniera della lotta ai preti pedofili” (dimentica di darmi il merito di essere stato il primo, ma fa niente), ma mi accusa – scrive – di aver “invertito i ruoli, facendo sembrare come se la bugia l’avessero montata quei soliti cattivoni di cattolici”. Come l’avrei ingannato il mio lettore? Nel commentare che la bufala tornasse credibile a chiunque volesse “dare alla santa un lustro in più”: ci legge un’insinuazione polemica nei confronti dei cattolici e della Chiesa. In realtà, come ho peraltro scritto nell’articolo su Giornalettismo.com (al quale qui sopra rimandavo): “Non è credibile, non è plausibile che in mezzo a tanti preti pedofili ci sia una suorina coraggiosa che ne denuncia uno, e allora la scomunicano, ma poi, tornando utile, la canonizzano? Per i cattolici è il segno di una superiore provvidenza che fa la Chiesa santa nonostante tutto, per i non cattolici è il segno della superiore ipocrisia del clero cattolico che riesce a confezionare perfetti marchingegni retorici: la bufala entra nelle coscienze di tutti con grande facilità, cattolici e non cattolici. È così facile crederci, tutti ci credono, perché il povero lettore dovrebbe rendersi la vita difficile col dubbio?”. Come è evidente, ne facevo una questione un po’ più complessa della bassa polemica anticattolica: dalla fonte primigenia della bufala tentavo di risalire alla fronte primigenia della sua credibilità. Ma – gliel’ho detto pure – ClaudioLXXXI non mi legge con attenzione.


“Anche su questo ho cambiato idea”


Il 2 novembre i californiani saranno chiamati a votare sulla Proposition 19 che legalizzerebbe l’uso della marijuana a scopo ricreativo, il suo possesso fino a 28 grammi, la sua coltivazione fino ai 2,5 metri quadrati di terrario, e che pare avere buone possibilità di passare. Viene da pensare ai due ragazzi che quest’anno si sono suicidati in carcere dove erano finiti per la Fini-Giovanardi, io me li sono immaginati penzolare con California Dreamin’ di sottofondo. Viene da pensare a Fini e a Giovanardi.

Cominciamo col Giovanardi, ci mettiamo poco. Il Giovanardi continua la sua crociata contro la Droga. Dopo aver marcato stretto Belen per impedirle di andare a Sanremo, ora propone il test antidroga obbligatorio pure ai conduttori di ogni altra trasmissione del servizio pubblico televisivo (tg, approfondimenti, talk show, ecc.). Non è la sintesi giornalistica, tanto meno il commento satirico, a far dire che qui si mira all’obbligo per Santoro di fare la pipì in apposita provetta a fine trasmissione: è lo stesso Giovanardi a esprimersi in questi termini, probabilmente con un sorriso alla Fernandel.
Paese che vai, antropologia che trovi: se passa la Proposition 19, passa pure la proposta di Giovanardi. Come gli è venuta? “Lunedì scorso il Santo Padre ha definito la droga «una bestia vorace che mette le mani sulla terra e la distrugge»…”.

Con Fini la questione è più delicata. Una destra liberaldemocratica può equiparare marijuana ed eroina? Può equiparare consumo e spaccio? Anche se liberaldemocratica, rimane affezionata allo Stato etico? Rimane ideologica e si chiude alle politiche della riduzione del danno? Sono domande che possono spaccare la cosa finiana arrivando al suo cuore: quanto è liberale? A quando una dichiarazione pubblica di Fini del tipo “anche su questo ho cambiato idea”?

sabato 16 ottobre 2010

C'è trippa per gatti


Uccisa dallo zio, sì, ma pure dalla cugina. La trama comincia a farsi arrapante.

Code del Novecento



La vita delle comunità cristiane in Medio Oriente non è delle più facili, anzi, leviamo l’eufemismo: c’è il rischio che i cristiani scompaiano dai luoghi nei quali è nato il cristianesimo. Anche se è sunnita – è consigliere politico del Gran Mufti del Libano – a Muhammad al-Sammak la cosa dispiace tanto.
Non è la prima volta che esprime la sua apprensione al riguardo: qualche mese fa, per esempio, affermava che “la diminuzione del numero e del ruolo dei cristiani in quella regione è un disastro non solo per i cristiani ma anche per i musulmani e porta alla disintegrazione di quella società e alla mancanza della ricchezza della diversità e delle competenze di carattere scientifico, economico, intellettuale e culturale dei cristiani che emigrano”; e aggiungeva che “l’emigrazione non è una perdita solamente per i cristiani quanto piuttosto una perdita per i musulmani e allo stesso tempo una sconfitta della convivenza islamo-cristiana” (zenit.org, 26.2.2010). Comprensibile, dunque, che la Chiesa lo senta amico, anzi, leviamo l’eufemismo: è normale che lo coccoli.
Est modus in rebus, ovviamente, ma in rebus del genere – parliamo del Santo Patrimonio della Santa Sede in Terra Santa – il modus non è sempre controllabile. Capita, così, che L’Osservatore Romano tolga una frase imbarazzante (quella che qui è sottolineata) dal suo intervento al Sinodo dei Vescovi sul Medio Oriente: “I cristiani d’Oriente sono parte integrante della formazione culturale, letteraria e scientifica della civiltà islamica. Sono anche i pionieri della rinascita araba moderna e hanno salvaguardato la loro lingua, quella del Sacro Corano. Come sono stati in prima linea nella liberazione e nella ripresa della sovranità, oggi sono in prima linea anche nell’affrontare e nel resistere all’occupazione, nel difendere il diritto nazionale violato, a Gerusalemme in particolare e nella Palestina occupata in generale. Ogni tentativo di affrontare la loro causa senza considerare questi dati autentici e radicati nella coscienza delle nostre società nazionali, porta a conclusioni errate, fonda giudizi errati e conduce quindi a soluzioni errate”.
I cristiani come alleati storici dei musulmani nella resistenza all’occupazione, ieri, dei francesi e degli inglesi, oggi, degli ebrei: è frase che condensa splendidamente la strategia politica della Santa Sede in Medio Oriente per tutto il Novecento, almeno a leggerla con gli occhi di un arabo che creda nelle buone intenzioni di Lawrence d’Arabia. Gianni Maria Vian ha cercato di evitare l’ennesimo scazzo diplomatico con Israele, ma non solo: ha pure messo i mutandoni all’ingenuo beduino che fida nella Riscossa Araba come a chiodo-scaccia-chiodo.

Sulla preterintenzionalità


“Hanno cominciato dentro il bar… Lei inveiva contro di lui, lui le diceva: «Ma che vuoi? Chi ti conosce?»… Lei lo ha preso ripetutamente a schiaffi… A un certo punto, lui è uscito e lei ha continuato a prenderlo a schiaffi e a calci…”. La testimonianza sembra congrua con quanto ha fatto seguito e che la videocamera della stazione Anagnina ha registrato: si è trattato del tragico epilogo di un alterco per futili motivi che la Hahaianu ha insistentemente prolungato inseguendo chi cercava di sottrarsi come possibile alle sue aggressive escandescenze e che, infine, ha reagito. La manata con la quale il Burtone cerca di allontanare da sé la donna, che ha ripreso a inveire e a spintonare, le arriva al volto e dal modo in cui la Hahaianu cade sembra evidente essersi stata la repentina perdita dei sensi da rotazione del tronco encefalico che manda al tappeto il boxeur colpito da un uppercut al mento.
Nulla di intenzionale: le lesioni che hanno portato a morte la donna sono state dovute al trauma cranico riportato nella caduta. Sulla preterintenzionalità, invece, c’è molto da discutere: da giudice – e meno male che non è il mio mestiere – io propenderei per qualcosa tra eccesso colposo di legittima difesa e omicidio colposo. Più in generale, inclinerei a condoglianze generiche e a ribadire il principio che chi alza per primo le mani si mette dalla parte del torto.

  

giovedì 14 ottobre 2010

[...]




Che editorialista, che poeta!


Noi laicisti siamo gente seria, mica ci mettiamo a mungere farfalle per quel crocifisso tatuato sul braccio di Ivan Bogdanovic. E nemmeno ci verrebbe mai in mente di imbastire una polemica sui Pater e gli Ave che Michele Misseri ha recitato per Sarah Scazzi dopo averla strangolata, eppure ci sarebbe da discutere: le preghiere sono state recitate prima o dopo aver scopato col cadavere? Ma – dicevo – siamo gente seria e solitamente glissiamo sul dettaglio da buon cristiano che impreziosisce questa o quella merda d’uomo. Il mafioso è devotissimo? Ci pare brutto approfittarne per malevoli generalizzazioni: trattiamo il credente e il criminale separatamente, al massimo ci scappa qualche innocente cenno alle analogie culturali tra le due Cupole. Siamo così, noi laicisti: non ci piace approfittare, evitiamo la reductio ad hitlerum, ci sembra poco carino far di tutta l’erba un fascio. Poi, naturalmente, può scappare l’eccezione, ma sempre quando provocati. E cos’è più provocatorio di una excusatio non petita?
Scrive il poeta Davide Rondoni, editorialista di Avvenire: “Ecco la preghiera delle nostre nonne e dei nostri figli divenire materia, elemento di cronaca nera. Divenire anche questo. Eppure, se così si può dire, proprio quelle parole, quell’inizio di preghiera, pronunciata certo da una mente ottenebrata e persa [lo zio della Scazzi], finiva per l’essere in mezzo ai titoli tutti gridanti e anche astutamente montati, una specie di pallida luce, di bava di lume come d’alba nella fittissima nebbia di quel delitto. L’aver pronunciato quelle parole - per chissà quale sperduto riflesso della mente o forse barlume di coscienza per quanto poi di nuovo sepolto e vanificato - è stato forse un confuso, ma non per questo meno necessario, primo gesto di preghiera su quel luogo e su quel corpo che poi ha meritato e chiamato la folla, lo sciame e il sacrosanto rituale di preghiere dei dolenti e dei giusti. Ma è come se da subito, come per una urgenza di fronte alla orrida realtà dell’evento, e di fronte al povero corpo di Sara derubato di vita e violato di tutto ma non della dignità, ecco, è come se da subito fosse dovuta scendere, medicamento e supplica, la preghiera semplice, la richiesta di abbraccio alla Madre dolce «ora e nell’ora della nostra morte». E non potendo esser pronunciata dai sassi, dal cielo muto, dalla terra arsa o dai rami neri di quel luogo, quella necessaria preghiera si è fatta largo proprio nel punto più nero e riarso, in lui, l’assassino medesimo, orante e non per questo meno assassino...”.
Bello, eh? Non si riesce a capire dove finisca l’editorialista e dove cominci il poeta, tanto sono amalgamati bene. E mica è tutto, perché il pezzo continua: “«Ave Maria, prega per noi peccatori, ora e nell’ora della nostra morte…». E poi sono tornate, dunque, rilanciate sui giornali; se pur agitate per fini di nuova morbosità o solo per dare altro macabro tocco, di fatto quelle parole povere e sacre sono tornate. Quelle uniche parole dicibili veramente tra tutte le parole rovesciate dai media. È come se quelle parole di supplica per lei e per tutti (sì anche per lui, più belanti, deboli ma più vere di ogni sinistra richiesta di condanna a morte) si fossero fatte avventurosamente largo, non solo sulle labbra di preti celebranti e di fedeli, ma tutto intorno, per l’aria italiana, sui tavolini del bar, tra le pagine aperte, nelle autoradio. Nate nel punto più oscuro della vicenda sono diventate poi in un certo senso la corale, la ventosa orazione mille volte rilanciata. Le parole semplici della fede...”.
Voilà, anche «orcoddio!» mi diventa una preghiera. Che editorialista, che poeta!

“Cattolici ed ebrei devono imparare a conoscersi di più”



Le indimenticabili Homiliae adversus judeos di Giovanni Crisostomo sono del 404, ma bisogna aspettare il 438 perché il cristianissimo Teodosio II emani le prime Leggi antiebraiche. Da allora le persecuzioni non avranno più sosta, raggiungendo inaudita efferatezza tra il XIII e il XVII secolo (cataste e cataste di morti). Di lì in poi gli ebrei saranno sgozzati e bruciati sempre più raramente, perché i cristiani si limiteranno a discriminarli e a segregarli. L’odio antigiudaico si raffina, il giudeo diventa sempre più simbolico e diventa sempre meno deicida, per diventare sempre più nemico della società cristiana, e la violenza diventa sempre meno teologica per farsi sempre più culturale e sociale, cioè politica: l’illuminismo, il liberalismo, la massoneria, il comunismo sono perfidi strumenti ebraici per secolarizzare l’occidente cristiano. Alla perdita del potere temporale della Chiesa – siamo a poco più di un secolo fa – l’odio diventa quasi soltanto livore, la violenza quasi soltanto diffamazione, gli argomenti riciclano vecchie mistificazioni. Ultime vampate antigiudaiche: le annate della Civiltà Cattolica a cavallo tra il XIX e XX secolo (per poi passare il testimone all’antisemitismo nazista) e l’ostruzionismo alla fondazione dello Stato di Israele (la Santa Sede lo riconoscerà solo nel 1993, 45 anni dopo). Dopo tutto, sempre perfidi, ’sti giudei!
Ora, nel leggere sul giornale del papa che “cattolici ed ebrei devono imparare a conoscersi di più” (L’Osservatore Romano, 16.10.2010), le labbra mi si schiudono in un sorriso, che subito diventa obliquo. Conoscersi più di quanto già si conoscano? Il sorriso mi si raddrizza a leggere quanto segue: “Soprattutto in Terra Santa”. Tutto normale: i cattolici vogliono dare una rivincita agli ebrei e sono disposti alla partita di ritorno. Gli ebrei dovrebbero pensarci due volte. Continuano a chiamarla Terra Santa invece che Israele o Palestina?  

Apposito


L’occidente si va scristianizzando, urge rivangelizzarlo: il Papa istituisce un apposito Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione e ci mette a capo questo bel pezzo di ricristianizzatore.


Comunque vada, adesso abbiamo almeno un responsabile della secolarizzazione a venire.



Brrr



Un grande esperto di araldica aveva subito parlato di uno “stemma assurdo”, dalla “sciatta e scadente qualità artistica e grafica”, e, fra le tante “novità il cui significato non è chiaro, e che nel linguaggio araldico hanno significati confusi e forse non previsti o voluti” (il quarto non brisato, l’anomala posizione delle chiavi, l’inedito inserimento del pallio, il colore delle infule, ecc.), aveva posto la maggiore attenzione proprio alla “strana e irrimediabilmente brutta mitria” ornata da quelle tre strisce che, almeno all’apparenza, avrebbero voluto “ricordare le tre simboliche corone della tiara”, che pure si era deciso di rimuovere, contro l’uso risalente ad oltre otto secoli: giudizio estetico, ma non solo, perché “l’araldica è la precisa rappresentazione visiva e codificata di una realtà” e, “come ogni linguaggio strutturato, ha un suo vocabolario ed una sua grammatica” che non si possono eludere senza stravolgere i significati (Maurizio Bettoja, Lo stemma di Sua Santità Benedetto XVI, 2006). E tuttavia lo “stemma assurdo” piacque molto al Papa che espresse gratitudine a chi gliel’aveva disegnato.


Bene, cinque anni e mezzo dopo, lo stemma rimane brutto, ma al posto della mitria torna la tiara: è una parziale correzione estetica (e “grammaticale”), ma per un vaticanista italiano, di quelli che stanno ai colleghi di scuola anglosassone come Porro sta a Pulitzer, è inammissibile parlare di correzione e, se la tiara torna al posto della mitria, la cosa avrebbe “un valore simbolico da non sottovalutare” (Il Foglio, 13.10.2010), come se col simbolo mutasse l’idea che questo pontificato ha di se stesso. E il nostro scrive: “L’espunzione della tiara dallo stemma fu un preciso ordine di Ratzinger che voleva dire basta agli orpelli e ai segni rinascimentali. Il segnale che per lui era giunto il tempo di un pontificato «francescano», che nello stemma ricordasse che il Papa è «unus inter pares»: il sogno ancora in vigore di una collegialità democratica. Chi è Benedetto XVI? Nel 2005 molti lo descrissero a partire dal suo stemma: un Papa bavarese e, come tale, deciso a tutelare il patrimonio di identità ripulendolo dalle tentazioni temporalistiche. Ma oggi l’antica corona è tornata sullo stemma. E di Benedetto XVI e del suo pontificato dice molto.
Cosa dovrebbe significare, dunque? Forse che Benedetto XVI voleva dar di sé l’idea di un  «unus inter pares» nel 2005, ed oggi ci ha ripensato? Giacché, “con le sue tre corone, la tiara parla del triplice potere del Papa (padre dei re, rettore del mondo, vicario di Cristo)”, Benedetto XVI intende ribadire l’incoercibile natura temporale del Papato? Brrr.
State tranquilli, è solo una ipotesi (neanche la sola) buttata lì per darvi il brivido. Anche Porro, d’altra parte, si è formato a Il Foglio.


mercoledì 13 ottobre 2010

Ammetto di nutrire pesanti pregiudizi contro il calcio



Ma poi qualcuno mi spiega perché non succede mai col rugby, col tennis, col cricket, ecc.


martedì 12 ottobre 2010

Non devo essere io, il candido



Aristotele metterebbe il candido all’opposto della faccia di culo e nel giusto mezzo metterebbe chi imbroglia ma con stile e misura. Non è questo il caso di monsignor Walter Brandmüller, che a me pare una gran faccia di culo, ma sarà che sono un candido e non vedo né stile né misura nell’articolo che firma su L’Osservatore Romano di ieri (Misteri di un viaggio).
Si avvicina il 500° anniversario del viaggio di Lutero a Roma, la “Prostituta babilonese” che gli fece venir nausea del Papato, la fabbrica di indulgenze, il supermarket delle reliquie,  e il Brandmüller comincia col lamentare che ci sarebbe altro da commemorare: il 200° della nascita di Liszt, il 300° di quella di Hume… Volendo, dico io, ci sarebbe pure il 600° della morte di Külüg Khan. Ma a volerlo proprio commemorare, questo viaggio a Roma di Lutero, si faccia onore alla verità storica: la Roma di Giulio II era davvero così prostituta? Volendo, dico io, ci si potrebbe anche chiedere: era davvero così babilonese?
Il Brandmüller – è un cognome che mi mette buonumore, scusate se lo ripeterò spesso – concede che a quei tempi, a Roma, c’era “secolarizzazione [prima di tutto secolarizzazione], lusso sfrenato, immoralità e frivolezza […] della società [prima di tutto della società] e della Chiesa”, o almeno questo pare il “giudizio pressoché unanime” della storiografia.
“Pressoché”? Chissà a chi pensa, il Brandmüller? C’è qualche storico che definisce moralmente virtuosa la Roma di Giulio II? Ce n’è qualcuno che trova il suo clero meno corrotto del mondo laico? Non risulta. E dunque, volendo essere giusti, Roma era proprio così male?
Un papa sifilitico e violento, vabbe’, ma il Brandmüller – ho capito perché mi mette buonumore: sembra un nome da operetta – invita a considerare Bramante, Raffaello e Michelangelo. Sì, sotto quegli affreschi s’inculava e si sgozzava, ma che begli affreschi! E chi era il committente? Giulio II. Corrotto forse, ma sensibile alla bellezza, e infatti aprì i Musei Vaticani. Non è da escludere che Lutero non fosse troppo sensibile all’arte.
[…]
Non devo essere io, il candido. Dev’essere il Brandmüller ad essere una gran faccia di culo.

La bicipite




“C’è chi in mezzo a questa fetida opacità si sente come a casa sua. […] La [sua] straordinaria diffusione ha un fine ultimo: diffondere l’idea che tutto è sporco e tutti sono sporchi. […] In un paese dove chi ha qualcosa da nascondere si sente più protetto quanto più si allarga il numero dei sospettabili. In termini tecnici, è un depistaggio di massa. In termini etici, è la perfetta mimesi dei disonesti”
Michele Serra, la Repubblica, 8.10.2010

“Il giornalismo è un mestieraccio sporco che partecipa dei conflitti tra poteri […] e che risente di tutte le belle e brutte opacità della lotta politica. Lo pratichiamo anche noi, questo sport, e non facciamo la morale a nessuno. Ma il senso del limite comincia seriamente a diventare un problema. […] Tutto si può fare in regime di libertà di stampa, ma «non costi quel che costi»”
Giuliano Ferrara, Il Foglio, 8.10.2010

Tutto si può fare in regime di libertà di stampa, anche il mestieriaccio sporco che partecipa dei conflitti tra poteri. Qualche dubbio sul fatto che almeno ad una delle forze in campo o anche a tutte, talvolta o sempre, torni utile diffondere l’idea che tutto è sporco e tutti sono sporchi? È un lavoro sporco per sua stessa natura: dovrebbe essere quel giornalismo che copre le spalle ai disonesti dimostrando che la disonestà è di tutti, peccato originale della carne pubblica e privata. Serra dice che questa è “fetida opacità”, Ferrara no, cioè, sarà pure fetida e opaca, ma anche il peggior fetente ha diritto di avere un avvocato, un cane che gli sia fedele e, se ha soldi per poterseli permettere, dei guardaspalle, dei pennivendoli depistatori, perfino dei poeti da brindisi che squittiscono smancerosi: “Com’è bello, il mio padrone! E come è giusto e/o come è umano!”. E tuttavia anche per Ferrara c’è un limite. Oltrepassarlo non sarà immorale, ma costituisce problema serio.

Ecco qui: di fronte a Vittorio Feltri – i due parlano di lui – avremmo solo da decidere se costui è una merda umana senza scrupoli morali (Serra) o è uno che ha solo esagerato con lo sporco, e però troppo (Ferrara). A mio parere, non è così. Anche nella palese difformità di criterio deontologico, i due fanno lo stesso errore: vedono il peccato. Il comedovrebbessere in Serra e il cosivailmondo in Ferrara attingono allo stesso universo mentale cristiano: nell’uno prevale il Dio della Giustizia che premia i buoni e maledice i cattivi, nell’altro il Dio della Misericordia che chiude sempre un occhio, però non devi approfittarne troppo. Inutile dire che sono entrambi segnati dall’essere stati del Pci oltre i trent’anni: anche virando verso l’azionismo, l’uno, e verso il malapartismo, l’altro, l’inculturazione di quel comunismo italiano (bleah!) nell’universo mentale cristiano che da Peppone arriva a Berlinguer o ad Amendola, mentre da Don Camillo arriva a Martini o a Ruini, c’è un nervetto in comune.

Maledetto compromesso storico: ha bruciato una generazione, rendendola refrattaria al metodo liberale. (Lo stesso liberalismo italiano, peraltro, te lo raccomando: tolto Salvemini, tutti con uno zio prete.) Severo in Serra, accomodante in Ferrara, il giudice è lo stesso e non sa giudicare Feltri col metro della norma dello stato di diritto, ma solo con quello della bicipite legge del cosivailmondo e del comedovrebbessere. Si propenda per l’uno o per l’altro, a Feltri si nega il diritto di essere giudicato da un tribunale laico.


7.11.1926 - 10.10.2010



lunedì 11 ottobre 2010

Qualche dubbio sul parlare di un “metodo Boffo” per il caso Marcegaglia / Premessa


Senza l’esatta comprensione di cosa davvero muovesse il caso Boffo era inevitabile che l’attenzione andasse tutta al direttore di Avvenire e al direttore de il Giornale, alla Cei e a Berlusconi, alla tenuta delle relazioni tra la Santa Sede e il centrodestra, addirittura a temi alti come la privacy e la libertà di stampa. Col passare del tempo, invece, si è fatto sempre più evidente che Boffo e Feltri abbiano avuto solo il ruolo di pedine in una partita che si andava giocando, e ancora si va giocando, tra Cei e Santa Sede, il primo come obiettivo sensibile dei ruiniani, il secondo come ignavo strumento dei bertoniani. Già il 3 settembre 2009 mi sembrava che “chi ha scritto quella pagina [l’informativa che accompagnava il certificato del casellario giudiziario di Terni] è senza dubbio un volgare galoppino di arcivescovato”. Ci sono tornato sopra fino ad alcuni giorni fa, quando ho scritto che “il Giornale fu usato nella partita dell’Istituto Toniolo”.
Cosa è accaduto realmente? In breve. Con l’arrivo di Bertone alla Segreteria di Stato, la Santa Sede decideva di riprendere il pieno controllo del Toniolo e dell’Università Cattolica, che col suo predecessore erano finiti in mano a Ruini. Era il 2002 quando l’allora presidente della Cei era riuscito a piazzare Ornaghi al rettorato dell’Università Cattolica e fu considerato un colpo di mano. L’anno dopo, travolto dallo scandalo che lo rivelò cocainomane, Colombo fu costretto ad abbandonare i vertici del Toniolo. I ciellini di Ruini avevano preso il posto degli ex democristiani di Sodano: era guerra per bande e ogni mezzo era lecito, anche se sporco.
Si trova una spiegazione delle dimissioni di Boffo, altrimenti anche adesso senza solide ragioni, solo a leggere in questo modo il plico anonimo fatto arrivare a Feltri, dopo che averlo inviato a tutti i vescovi non aveva sortito effetto: le due bande non potevano mantenere in campo pezzi indeboliti. “Feltri non si illuda – scriveva Boffo nella sua lettera di dimissioni – c’è già dietro di lui chi, fregandosi le mani, si sta preparando ad incamerare il risultato di questa insperata operazione”; e ancora: “Io sono, da una vita, abituato a servire [chi] ha altro da fare che difendere a oltranza una persona per quanto gratuitamente bersagliata [e che] potrà sempre in futuro contare sul mio umile [ma da oggi in poi] nascosto servizio ”.
Ciò detto, è corretto parlare di “metodo Boffo” nel caso Marcegaglia? Solo a ipotizzare che in Confindustria sia in atto una guerra per bande e che anche stavolta il Giornale sia stato scelto come strumento sicuro per colpire la fazione avversa. Può darsi, non si può escludere. Ma il fatto che Feltri abbia fatto marcia indietro – che abbia preferito far credere che il dossier sulla Marcegaglia fosse solo una scherzosa millanteria di Porro – più che alla telefonata di Confalonieri è dovuto all’aver finalmente capito di non essere mai stato il regista del “metodo Boffo”, tutt’al più l’attore principale, il killer sul quale si può contare a gratis. Me ne faccio convinto dopo L’Intervista Barbarica dello scorso venerdì, della quale converrà parlare a parte.