domenica 20 febbraio 2011

Coda


“Di quella notarella tossica confezionata contro Dino Boffo, [Vittorio Feltri] non sa nulla. Gliela consegna Alessandro Sallusti, il suo secondo”, così per Giuseppe D’avanzo (la Repubblica, 14.11.2010), e in giro non trovo smentite degli interessati. Fino a stasera non lo sapevo, ero sicuro di aver letto che il decreto di condanna per molestie (Tribunale di Terni, 9.8.2004) e l’allegata Nota informativa fossero arrivati a il Giornale per posta.
Un’altra cosa che ignoravo è che Sallusti ha lavorato ad Avvenire, lo apprendo dall’intervista concessa ad Antonello Piroso (Niente di personaleLa7, 20.2.2011). Avrà conservato legami coi colleghi di Piazza Carbonari? Fra questi non ve n’è almeno uno che sapesse della querela e della condanna a carico del direttore?

Vuoi vedere che ci abbiamo perso la testa sopra, ma il siluro che ha fottuto Boffo partiva proprio da Avvenire?


“Perché noi siamo amore”


Non ho seguito il Festival di Sanremo e non mi azzardo a dire che ce ne fossero di migliori, ma la canzone di Roberto Vecchioni è davvero brutta: testo ruffiano e sciatto, linea melodica prevedibile di nota in nota, arrangiamento da Korg SAS-20, esecuzione da peracottaio dei buoni sentimenti. Dev’essere stato un premio alla carriera, che a mio modesto parere non conta più di cinque o sei brani decenti nell’arco di quarant’anni.
Stavolta si trattava di bambini affogati a due miglia da Lampedusa, operai in cassa integrazione, studenti in piazza contro la Gelmini e – in alto – stava “il bastardo che sta sempre al sole”, “il vigliacco che nasconde il cuore”, ma pure la certezza che “questa maledetta notte dovrà pur finire” e la consolazione che in fondo ci resta l’amore, “perché noi siamo amore”.
Siamo gente di cuore, noi italiani, e a questo mix appeal di dolore e speranza non potevamo rimanere insensibili: ci assicura “il sorriso di Dio in questo sputo di universo”, come potevamo negargli un gesto di simpatia? D’altronde, lasciare il povero Vecchioni senza un segno di gratitudine nazionalpopolare ci avrebbe torturato l’anima con gli scrupoli, che onestamente, a cantautore morto, è cosa che comporta sempre atroci seccature. E poi noi siamo amore, ci piace darne prova al televoto.


A milioni d’anni luce da Ventotene


La visione profetica di Altiero Spinelli e di Ernesto Rossi, uno che veniva dal Partito Comunista Italiano e l’altro dal Partito d’Azione, ci ha dato nel Manifesto di Ventotene un vero e proprio progetto di società laica, democratica e liberale. A pensarci bene, si può dirla vertigine: mentre l’Europa si consumava di totalitarismo, due cervelli pensavano un continente nuovo e stendevano un progetto – insieme – geopolitico e antropologico. Poi Spinelli e Rossi sono morti e il progetto fu affidato a Marco Pannella, almeno a quanto ci rimembra nei suoi Atti degli Apostoli.
Sul piano antropologico il progetto gli si è sgualcito in mano: la libertà è andata a prendere consulenza da Benedetto Croce e da Panfilo Gentile, l’idea di corpo s’è spiritualizzata e l’individuo-cittadino s’è preso la terzana del personalismo mounieriano, la quartana del pauperismo gandhiano, si è ridotto a eccentrico-sincretico, tra il monachesimo e la New Age.
Un po’ meglio sul piano geopolitico, ma non di troppo: immaginare Israele, Turchia e Marocco in Europa. [Anche qui in anticipo – i radicali sono sempre in anticipo – sul movimento della deriva dei continenti che ridurrà il Mediterraneo a una pozzanghera tra Egitto e Andalusia, ma con residuo profetismo, e altra vertigine.]
E poi? Poi arriviamo a Chianciano Terme, che sta a milioni d’anni luce da Ventotene, e Pannella sta lì e incanta tutti, parlando dell’“infinitezza dello spazio e del tempo”, del rorido nodo di amore e conoscenza, della buona equivalenza tra fede e mistero... E mica lo picchiano a sangue. Tutti nonviolenti.

Apoplessie




Il limite



“No, non l’ho sentito. La situazione è in evoluzione
e quindi non mi permetto di disturbare nessuno”
Silvio Berlusconi, 19.2.2011


La domanda di democrazia che sale dalle piazze di Tripoli e Bengasi non ha finora avuto altra risposta che una durissima repressione: Muammar Gheddafi ha dato l’ordine di sparare ad altezza d’uomo e al momento i morti sono almeno 84. Ci si aspetterebbe una pronta, ferma e univoca reazione sul piano diplomatico da parte di quei paesi che, fino a non troppo tempo fa, dichiaravano un tal surplus di democrazia interna da ritenere indispensabile esportarne un tot. E invece non si registrano che timide proteste, e in ordine sparso, nelle quali “preoccupazione” prevale su “condanna”, come se anche per la Libia – così è per l’Egitto – la fine della dittatura sia gravida di incognite peggiori della stessa dittatura, e pare, insomma, che l’unica democrazia possibile nei paesi arabi sia quella di importazione.
Non c’è da stupirsene, perché l’esportazione della democrazia non è mai stata dichiarata operazione solo filantropica: la si esporta innanzitutto per bloccare l’importazione di terroristi protetti o addirittura finanziati da stati canaglia, ed è lì che l’affare promette un ritorno. Anche questo, però, non basta. Gli strumenti necessari all’esportazione della democrazia sono per lo più di natura bellica, e dunque assai costosi, sicché conviene rinunciare quando il costo è troppo alto: dove un dittatore dia adeguate garanzie di non costituire minaccia alla sicurezza dei paesi esportatori di democrazia, si può chiudere un occhio, eventualmente entrambi se può ricavarsene un profitto economico. E così è stato per la dittatura di Ben Alì in Tunisia, ma soprattutto per quella di Hosni Mubarak in Egitto e quella di Muammar Gheddafi in Libia, fino a ieri in ottimi rapporti con le democrazie d’occidente.
Solo avendo un’anima molto bella si può biasimare questo atteggiamento occidentale. Amiamo la democrazia, è fuor di dubbio, e la vorremmo dappertutto, perché con tutti i suoi difetti è il meno peggio che ci sia e perché tra due paesi democratici è assai raro che si arrivi a una guerra. In fondo, siamo pacifici e ricorriamo alla forza solo come ultima risorsa, solo quando ci sembra necessaria, solo quando non ci pare peggio del far niente. Ma poi c’è la ragion di stato – di ciascun stato – e questa ci costringe a fare i conti con le difficoltà sul campo. Rimaniamo democratici ma cerchiamo di intrattenere buoni rapporti diplomatici con i dittatori che ci sembrano più affidabili. Accade che tali rapporti possano addirittura diventare ottimi, con reciproco vantaggio.

È il caso della Libia, che può essere interessante considerare attraverso l’analisi che ne fa un giornale filogovernativo, e parliamo di un governo che ha sempre schierato il paese in prima fila tra gli esportatori di democrazia: “Il regime di Gheddafi ha investito molto [in Italia] […] Messi in fila questi capitali danno la somma di 6,3 miliardi di euro […] Il problema è se i libici vadano considerati degli sleeping partner – dei puri investitori appunto – o invece degli azionisti strategici. E tutto fa propendere per la seconda ipotesi. L’ingresso in Unicredit, in Finmeccanica e soprattutto nell’Eni è solo ufficialmente avvenuto attraverso normali operazioni borsistiche. In realtà è abbastanza noto che siano stati oggetto di negoziati tra governi, in particolare tra Silvio Berlusconi e Gheddafi, con il duplice obiettivo di rafforzare patrimonialmente le nostre principali banche e aziende, e di garantirne gli sbocchi su attuali e futuri mercati. L’Eni è in Libia praticamente da sempre, da quando Enrico Mattei combatteva contro le sette sorelle del petrolio americane, inglesi e francesi. Ma oggi è qualcosa di più, è partner del regime di Tripoli […] Ma certo l’Italia non è sola. La Libia è il primo produttore di petrolio africano, il quarto al mondo dietro Arabia Saudita, Emirati, Iran. Da quando nel 2004 gli Usa hanno abolito le sanzioni e, nel 2006, tolto la Libia dall’elenco degli stati canaglia, tutte le grandi major si sono precipitate a fare affari con il colonnello” (Il Tempo, 19.2.2011).
“Certo l’Italia non è sola”, ma il modo in cui l’Italia ha performato la sua ragion di stato ha prodotto vantaggi tanto consistenti al punto di dover temere gli effetti di una caduta della dittatura libica: siamo nell’imbarazzante situazione di essere esportatori di democrazia, per quanto nel ruolo di gregari degli Stati Uniti, ma di augurarci che la dittatura di Gheddafi regga. Ma non possiamo dirlo esplicitamente, perché ci guadagneremmo solo una figura di merda.

Dev’esserci evidentemente un limite tra il credere nella democrazia, da un lato, e il dover temere che essa prenda il posto di una dittatura, dall’altro. Tra il ritenere che in alcuni paesi possa essere esportata, anche ammazzando i civili, e in altri no, e qui andare a partnership strategica con dittatori che ad ammazzare i civili ci pensano da soli. Dev’esserci un limite tra il duro e necessario rassegnarsi alla ragion di stato, da un lato, e il prenderci tanto gusto da smarrire ogni altra ragione, dall’altro. Nel caso dell’Italia questo limite è stato varcato, e neanche tanto inavvertitamente, facendo della politica estera una questione di amicizia personale tra capi di stato.
Abbiamo collezionato nei confronti di Gheddafi tante e tali manifestazioni di amicizia – e non solo, perché in molte occasioni si è arrivati a molto peggio – da non poterle ritirare troppo bruscamente: il danno che ce ne verrebbe non sarebbe solo l’imbarazzo di un veloce riposizionamento strategico, com’è ad esempio per gli Stati Uniti, ma la vergogna di aver tradito un amico. Sarebbe un danno materiale e di immagine, sarebbe dover rimangiarci tutta una filosofia, che peraltro abbiamo spacciato come una delle più genuine espressioni del nostro carattere nazionale. Appena ieri gli abbiamo baciamo la mano, come potremmo mordergliela oggi, anche sapendo che è la stessa che spara sulla propria gente?
Sì, è gente che chiede democrazia, e in apparenza è la stessa democrazia che saremmo stati disposti ad esportare in Libia se solo ci fosse stato possibile, ma anche bombardando Tripoli non è stato possibile, e ci siamo dovuti rassegnare alla ragion di stato. Da italiani non ci è stato difficile: quello era il petrolio più vicino e verso l’antica colonia avevamo un gran senso di colpa che Gheddafi non si è mai fatto scrupolo di tener vivo. Andreotti e Craxi hanno incarnato questa ragion di stato, ma poi abbiamo superato il limite.

sabato 19 febbraio 2011

Fare quadrato verso l’esterno e all’interno



“Fare quadrato verso l’esterno: contro insinuazioni e accuse che tendano a coinvolgere uomini o istituzioni della Chiesa nella vicenda di Tangentopoli. Ma fare quadrato anche all’interno: nei confronti cioè di quel movimento di opinione ecclesiale che tende a ottenere dai vescovi un’ammissione pubblica di corresponsabilità, se non altro per essere stati alleati e qualche volta conniventi con corrotti e corruttori” (Corriere della Sera, 28.9.1993). E valga come paradigma in tutte le occasioni nelle quali le gerarchie ecclesiastiche sono costrette a riposizionarsi.

Schiava di Roma


Roberto Benigni ha fatto notare a Umberto Bossi che l’analisi grammaticale dell’inno di Goffredo Mameli rivela che schiava di Roma non è l’Italia ma la vittoria (Raiuno, 17.2.2011) e Lilli Gruber lo fa notare a Mario Borghezio (La7, 18.2.2011), che obietta in modo scandaloso. Può darsi sia così – concede – ma il 99% dei padani legge la frase come la legge il Senatur e non c’è neppure bisogno di chiudere il sillogismo: Mameli ha scritto che l’Italia è schiava di Roma, e questo non è giusto, quindi fanculo all’inno.
È follia, ma ha un metodo. È su questo che conviene appuntare l’attenzione, sennò non resterebbe che farsi una risata, ma ridere dei pazzi non è bello. Il senso di una frase – secondo Borghezio – non starebbe in ciò che essa esprime nel rispetto della logica che regge la sua costruzione, ma in ciò che normalmente se ne intende, anche se proprio contro quella logica.
Non uso normalmente a caso, perché norma è regola, ma anche moda, ed è evidente che Borghezio chiami a convenire sulla norma data dalla media lasca degli ignoranti al suo livello, che in forza del numero aspirano a dettar legge. Come vedete, una risata sarebbe fuori luogo, perché siamo dinanzi a una questione delicata: la media lasca degli ignoranti non si azzardano a voler cambiare le norme che regolano la costruzione di una frase – la qual cosa sarebbe estremamente impegnativa anche se legittima – ma avanzano la pretesa di poterla leggere come meglio pare a loro. In Borghezio, insomma, non c’è pretesa di una nuova grammatica, ma di poter fare della vecchia il cazzo che gli pare. Non è posta la questione se Mameli possa essersi espresso in modo ambiguo: Mameli voleva dire l’Italia è schiava di Roma anche se non lo ha detto, perché così Bossi legge l’inno e così può ritenersi sia per il 99% dei padani.
Dico padani, ma è per cautela: non vorrei aver inteso male, ma mi pare che Borghezio possa aver detto addirittura italiani. Potremmo dover essere ignoranti per aspirare ad essere normali.

venerdì 18 febbraio 2011

La santità d’Italia


Premesso che da Televacca all’Oscar, da Arbore a Dante, Benigni non m’è mai piaciuto, dico che quello di ieri sera mi è sembrato il peggiore di sempre. Col distinguo tra patriottismo e nazionalismo sembrava aver pigliato una piega decente, ma poi, quando è arrivato a dover spremere sangue dalla rapa, la patria è diventata Roma che rade al suolo Cartagine, il nobile lignaggio dei Savoia e poco ci mancava un pensierino al culo di poter ospitare la Santa Sede.
Nel mito dell’impero romano e dei suoi surrogati e succedanei si è consumato più di un tragico frainteso e ieri sera Benigni li ha promossi tutti a destino, poco ci mancava l’apologia della stirpe afroditico-mediterranea della sinossi evoliana, e si è fermato giusto in tempo, ma non per evitare di evocare la spiritualità come radice della cittadinanza, e quasi mi sembrava il Minghi de La santità d’Italia.
Abbiamo bisogno di archi di trionfi per immaginarci degni di un futuro decente, non basta il sangue di un Mameli poco più che adolescente. Senza un fondale di cartapesta e un inno, ci è difficile pensarci nazione. Ho ripensato a Prezzolini, mi è parso un enorme galantuomo. Ho pensato che ormai ci scorre sangue solo nelle protesi.


giovedì 17 febbraio 2011

“Vada a farselo tradurre”



Nel corso dell’ultima conferenza stampa della Presidenza del Consiglio, rivolto a un giornalista di Bloomberg Tv che gli aveva chiesto: “I suoi problemi giudiziari potrebbero creare difficoltà alla candidatura di Draghi [alla presidenza della Bce]?”, Silvio Berlusconi ha detto: “Lei non è «compos sui», poi vada a farselo tradurre”. Bene, secondo Chaïm Perelman (Il dominio retorico, Einaudi 1981), quel “vada a farselo tradurre” è un sintomo: l’espressione ha avuto uso recente nei colloqui privati di Silvio Berlusconi, verosimilmente da imputato coi suoi legali, e il contesto gliel’ha fatta ritenere di quelle che chiudono una questione con la forza della formula senza appello.
È da escludersi una linea difensiva che punti a dimostrare che Silvio Berlusconi non fosse padrone di sé quando ha pagato le prestazioni sessuali di una minorenne: più probabile che si punti a dimostrare che sia Karima El Marough a non esser «compos sui». E questo sarebbe congruo con quanto ha affermato la ragazza: “Silvio mi ha detto: fai la pazza”. Assisteremo a un capovolgimento dell’ipotesi accusatoria: il nostro premier è stato vittima di una squilibrata. Accoltellato nella privacy.


Povera Italia mia


Ho scritto: “Vedrete che il primo passo sarà la ricusazione dei giudici”, e un lettore ha commentato: “Magari la realtà supererà la fantasia”. La realtà sta in ciò che Gaetano Pecorella ha detto ieri: “Ci sono reati su cui le donne sono più attente e sensibili e anche più motivate per quel che riguarda la misura della pena. Quindi, un collegio di tre donne in un reato che riguarda atti che sono stati ritenuti violare la dignità delle donne è il peggio che si poteva pensare” (cnrmedia.com, 15.2.2011).
Già avvocato difensore di Silvio Berlusconi ed ora deputato del Pdl – curriculum dei più triti – il Pecorella s’era fatto sentire giusto un mese fa, quando era in vista il rinvio a giudizio: “Io abbasserei il limite per la maggiore età” (Il Mattino, 17.1.2011), e probabilmente l’idea era di abbassarlo di soli sei mesi, quelli che mancavano a Ruby per essere maggiorenne quando andava ad Arcore.
Una voce sola non fa coro e allora: “Ecco perché in America Berlusconi non sarebbe giudicato da tre donne” (Il Foglio, 17.1.2011), parola di Giulio Meotti, ancora un poco unto dall’olio in cui fino a qualche anno fa friggeva patatine in un McDonald’s di Arezzo. Che in conoscenza dell’America, povera Italia mia, fa punteggio.


Participio presente del verbo "dare"



Tre donne intorno al cor mi son venute,
e seggonsi di fore,
ché dentro siede Amore,
lo quale è in segnoria de la mia vita...


mercoledì 16 febbraio 2011

Un parere disinteressato

Vedo migliori argomenti in favore dell’assassinio di Silvio Berlusconi che in quelli agitati da una parte della piazza. Chi lo ritenga un tiranno che attenta alla Costituzione può sacrificarsi, se crede, e accettare la condanna all’ergastolo, in fiero ortotono, fischiettando uno stornello anarchico, sempre che riesca a sottrarsi al linciaggio: mi pare una follia, ma in essa v’è una presa di responsabilità e un’assunzione di rischio, per tacere del mero dato estetico, d’un qualche fascino solito al tragico.
Non mi si fraintenda: ritengo che ammazzare il nostro premier sia fargli un favore, per fare invece un enorme danno al paese, che si porterebbe quel cadavere sulla schiena per almeno un secolo. E tuttavia ritengo più ragionevole il tirannicida che chi chiede le dimissioni di Silvio Berlusconi richiamandolo a un dovere verso il paese e le istituzioni: è un dovere che gli pare di onorare già, proprio col rimanere dov’è.
Quando un pezzo del paese che fa forza di maggioranza assoluta (seppur molto relativa) dà a un uomo un consenso che questi si sente autorizzato a ritenere sacralizzante, e nessuno dei suoi consiglieri, sodali e servi è capace di spiegargli la differenza tra cittadino e suddito, come glielo spieghi che Palazzo Chigi non gli è stato dato in dono da Dio? Come glielo spieghi che incarnare il massimo comun divisore dei vizi morali del paese non può dargli impunità per quelli che coincidono con reati penali? Come puoi sperare di convincerlo che è soggetto alla legge al pari di tutti? Lui cambia la legge, sostenuto da un pezzo del paese: può farlo e, se la Corte Costituzionale gli rompe il cazzo, allora cambia la Costituzione. Ti lamenti? Suca.
Parliamoci chiaramente: dev’esserci un buchetto nella Costituzione che fa passare questo genere di spifferi, sennò è Silvio Berlusconi che la sta tradendo da tempo, e allora perché volete dar del pazzo a chi voglia offrirsi come tirannicida? Date del pazzo a chi ne chiede le dimissioni in nome del comune buon senso: non è più comune, s’è comprato pure quello.

Rimane solo la guerra civile, statemi a sentire, fidatevi di uno che se ne tirerebbe fuori e sarebbe subito sgozzato, non importa se dagli uni o dagli altri: è un parere disinteressato. 

martedì 15 febbraio 2011

Toghe rosse, peraltro ostentanti rughe

Il pm è una donna, il gip è una donna, i tre magistrati che dovranno giudicarlo sono donne, tutte sopra i quaranta e nessuna reca segni di Botox. Vedrete che il primo passo di Ghedini sarà la ricusazione per legittima suspicione.

lunedì 14 febbraio 2011

Le grandi strategie non si fermano davanti agli incidenti di percorso


Alessandro Gilioli riporta “le reazioni un po’ isteriche e un po’ ridicole” al “successo delle manifestazioni di ieri” e la “prova del nove” torna: “il boss e i suoi” sembrano aver sofferto davvero quel milione di donne in piazza. Sembra averlo sofferto pure Giuliano Ferrara, che però non fa l’errore di sminuirne il peso, ma anzi prova ad esagerarlo per meglio indicarlo come un pericolo del quale non è chiamato a preoccuparsi solo Silvio Berlusconi, ma tutto il mondo politico e soprattutto “Napolitano, Bersani, D’Alema, Letta, per non dire di altri politici professionali che la faccia ce la mettono, le elezioni le vincono e le perdono”, e insomma di quanti vogliono guidare la piazza e non farsi guidare da essa.
La piazza piena di gente, per Giuliano Ferrara, cova sempre tentazioni allo Stato etico e dà sempre fiato a un golem che una volta si chiama Cromwell, una volta Robespierre, una volta Khomeini… Naturalmente questo non vale quando la piazza piena di gente è San Pietro, e quando la manifestazione è il Family Day: lì il puritanesimo, il giacobinismo e la teocrazia non sono materialmente possibili, perché si tratta del popolo cattolico, e il puritanesimo è protestante, il giacobinismo è massone e la teocrazia è islamista… Orsù, eroicomiche pennine di Lungotevere Raffaello Sanzio, dateci dentro, mostrate a lor signori quanto sono tolleranti, i cattolici. Tu, Agnoli, racconta quella che le streghe le hanno bruciate sono i luterani. Gli ebrei? Meotti, scrivi che li hanno perseguitati solo i nazisti. Chi vuole deliziare il cerebro del signor direttore dimostrando che i gay sono fatti oggetto di discriminazione solo in Iran e che in fondo Buttiglione li adora?

L’invito è a un impegno comune contro questo pericolo. Un impegno comune di maggioranza e Pd, con la benedizione del Capo dello Stato. Sta al Pd, in questo caso, fare il primo passo: non deve cavalcare l’onda della piazza per non farsene travolgere verso “la comune rovina”. Di qua c’è un Mubarak, ma di là c’è il rischio di una deriva islamista: siamo sicuri che convenga lisciare il pelo alla bestia? “Abbiamo bisogno di due cose – scrive Giuliano Ferrara – per emendarci e tornare a essere una grande nazione europea capace di distinguere tra il conflitto e il regolare funzionamento delle istituzioni: che il Parlamento torni a rivendicare il suo primato politico, e con coraggio fermi la mano giudiziaria che attenta alla pace civile per ragioni squisitamente politiche, e che Berlusconi esca dall’incantesimo e ritrovi quella calma e serena visione delle cose decisiva, per uno statista come Giovanni Giolitti, al fine di governare lo Stato”.
Solo tattica con la finalità di spaccare il fronte delle opposizioni, una volta tanto unito (anche se soltanto sulla questione portata in piazza dalle donne)? Non solo, perché Giuliano Ferrara non è servo di cortile, ma domestico di stanza: parla all’orecchio del Principe, ma ispirato da una visione strategica, da un progetto di società. Da quando è morto don Gianni Baget Bozzo, i suoi consigli valgono di nuovo attenzione, tanto più che hanno il pregio di uno schema grossolano, che in fondo è grandioso: consociativismo partitocratico con un controllo differenziato del consenso e una compartecipazione agli utili di tutta la classe dirigente disposta a farsi responsabile del sistema per la parte che gli tocca in gioco, vinca o perda. È l’altrimenti detto “primato della politica”, inteso come esercizio democratico, ma tendendo conto che l’unica democrazia possibile è un’oligarchia trasversale agli schieramenti.

Questa chiamata all’inciucio non è solo da posizioni di debolezza come quella attuale – dalla lettera aperta a Bersani (Corriere della Sera, 30.1.2011) all’editoriale di questo lunedì 14 febbraio – ma anzi dà il meglio di sé quando è espressa da una posizione forte, come fu all’indomani delle elezioni politiche del 2008.


Qualcuno come andò a finire? “«Alla vigilia della presentazione del governo in Parlamento per la fiducia, il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha telefonato al leader dell’opposizione, onorevole Walter Veltroni». Così il comunicato di Palazzo Chigi. Dunque Berlusconi ha deciso di incontrare Veltroni subito dopo il voto di fiducia al governo, per «avviare un confronto continuativo tra maggioranza e opposizione». […] «Lo considero un atto che può apparire inusuale, alla luce di quello che è successo negli ultimi quindici anni, ma che è normale», dice [Veltroni] al termine della riunione del governo ombra. «Non gli darei troppa enfasi», aggiunge. […] È evidente che Veltroni deve tenere un difficile equilibrio, per evitare che le prossime scelte del Pdl sulla Rai vengano interpretate come un prezzo pagato sotto banco al tavolo delle riforme” (Il Foglio, 13.5.2008). Qualche giorno dopo: “Veltroni cita il giurista Piero Calamandrei, a tutela sì del diritto delle minoranze a controllare, però anche delle maggioranze che decidono. Strette di mano. Incontri già fissati. Non si sa quanto durerà l’età dell’oro” (Il Foglio, 15.5.2008). “Tra le proposte sul tavolo del dialogo tra maggioranza e opposizione, e forse già nel menu del pranzo di oggi tra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi, a quanto pare, non ci sono solo la soglia di sbarramento alle europee, i regolamenti parlamentari e le nomine Rai. C’è anche il federalismo fiscale. Nel Pd, infatti, sono in molti a pensare che su questo tema l’opposizione dovrebbe «sfidare la Lega». Così la pensa, per esempio, Goffredo Bettini, convinto che la linea del «barrage» sul federalismo fiscale sarebbe un errore. Il principale stratega veltroniano sostiene che il Pd dovrebbe avere il coraggio di avanzare sue proposte, anche «molto audaci»” (Il Foglio, 16.5.2008).
Era il cosiddetto CaW., ma adesso sapreste più dire di cosa si trattava? Di spaccare il Pd e intanto corteggiare Casini, in quanto a tattica; di cercare di ampliare la base del consenso consociando chi volesse starci, in quanto a strategia. Tutti complici, nessun ladro.
Non andò a finire bene: Veltroni non ebbe quello che chiedeva. “Caro Giuliano, [...] voglio dirlo a te con chiarezza: in politica i gesti hanno i loro effetti. E dunque la totale inaffidabilità politica e personale di Silvio Berlusconi ha reso impossibile la prosecuzione del cammino, il raggiungimento delle convergenze sulle riforme indispensabili per il Paese. E pensare che questo è, sarebbe, il Parlamento ideale per fare le riforme. [...] Le condizioni ci sarebbero. Ma tutto è stato vanificato per volontà di una parte” (Il Foglio, 28.7.2008). Il Cav. pensa solo ai cazzi suoi, caro Giuliano, e vorrebbe comprarci per un tozzo di pane: spiacenti, non se ne fa niente.

Colpa del Cav., se ci siamo persi un’altra Età di Giolitti, o del W.? Non lo sapremo mai, però sappiamo che le grandi strategie non si fermano davanti agli incidenti di percorso.


Insomma, vorrei dire: Ferrara fa il suo mestiere, ma com’è che finisce sempre per trovare un Violante, un D’Alema, un Veltroni e domani, chissà, un Renzi da riuscire a convincere almeno per il tempo che basta a salvare il culo quando sembra perso? E com’è che non funziona mai? E com’è che Ferrara ritenta sempre?


Mentre si asciuga la maschera all’argilla


Ho un po’ più che insinuato, qualche settimana fa, che Mario Adinolfi potesse aver usato a fini autopromozionali le botte prese in seguito ad una volgare controversia per questioni di viabilità stradale, per avere voce in capitolo sul clima teso e violento che incombe sulla politica italiana, e avercela da vittima, che è posizione di rilievo in certi talk show per casalinghe e pensionati. In risposta mi aspettavo almeno due righe dell’interessato, non importa di che tipo, e invece niente. Confesso che queste cose prima mi indispettiscono e poi mi deprimono profondamente, giungendo talvolta a sentirmi come il Povero me di Mimmo Locasciulli. Con l’aggravante che non è per ragioni di cuore, ma di milza.
Mi assalgono scrupoli feroci. Qui mi sono detto: ho fatto insinuazione così bassa che non merita neppure una diffida? La mia natura sostanzialmente candida, stolidamente ingenua, mi porta a ritenere che la noncuranza di chi potrei aver calunniato dimostra in modo inequivocabile che quello viaggia a un’altezza alla quale i miei argomenti non possono arrivare: ci ho rimediato una inutile brutta figura e nel caso in cui Adinolfi dovesse esser fatto fuori dalla squadraccia di Signorini, come Matteotti fu fatto fuori da quella di Dumini, sarei biasimato in eterno, diverrei l’antonomasia dell’infamia. Da andarsi a nascondere nello sgabuzzino delle scope fino alla fine dei propri giorni. Già mi immagino le mie figlie: “Papà, ma è vero che hai buttato merda sul martire della libertà alla vigilia del suo sacrifizio?”.
A scanso di tanto – dovesse davvero essersi trattato di un attentato alla persona di chi è destinato ad aver intestate strade e scuole, ché già mi vedo un Largo Mario Adinolfi o un Liceo Linguistico «Mario Adinolfi» – corro ai ripari: col rischio di finire nel Mi fido di te di Jovanotti, mi precipito a lodare il futuro martire. Per sovrapprezzo voglio esagerare: lo lodo tre volte.

(1) Mario Adinolfi propone Rosy Bindi come leader del centrosinistra alle prossime elezioni politiche. Non male, forse è davvero il nome che può raccogliere il massimo consenso e sotto il quale può starci la più ampia coalizione possibile.
(2) Spiega perché andare in piazza è una stronzata e, se si evita di diffondere il post a Tunisi o al Cairo, diventa una pagina di antologia in una Garzantina di politologia di fine XXI secolo.
(3) Si difende dall’aver dato del frocetto a Signorini producendo prova che Zoro gli ha dato addirittura del frocio, senza beccarsi piagnisteo dai templari del politicamente corretto. E mo vediamo se anche il Pd ha un Fisichella che mi contestualizza Zoro e il martire no. 

Figlie mie, ho fatto il possibile.

San Valentino





Sanjust



“Non siamo moralisti. Pinocchio è una delle
forme in cui si attua l’esattezza dell’errore”
Giorgio Manganelli (Paese Sera, 11.3.1978) 

A scanso di fraintendentimenti, premetto che quanto segue è solo una sintesi di quanto nell’ipotesi di un reato (abuso d’ufficio) che il Tribunale dei ministri non ha ritenuto dimostrabile nella condotta di Silvio Berlusconi. Non già la “vera storia”, dunque, ma solo il costrutto paranoico di un tizio che si è ritenuto abusato dal nostro Presidente del Consiglio, ma a torto. Estraggo questa “falsa storia” da un articolo di Peter Gomez e Marco Lillo (Decreto SanjustL’espresso, 10.7.2008), ma devo precisare che il testo originale non la dà per vera.
Faccio seguire brani da un articolo di Marco Travaglio (Caso Sanjust, Berlusconi esce indennel’Unità, 2.2.2009) che dà notizia dell’archiviazione. Qui chiamo l’attenzione del lettore sui virgolettati del dispositivo del Tribunale dei ministri.
Buona lettura, a dopo.

“Tutto inizia il 29 settembre 2003, quando il premier va in tv per illustrare il suo progetto di riforma delle pensioni. Ad annunciare il suo intervento è Virginia Sanjust, 26 anni, tre lingue parlate fluentemente, e alle spalle una famiglia di attrici (la madre è Antonellina Interlenghi) e di aristocratici romani. In quei mesi Virginia, che pure è separata, dorme spesso nella grande casa di Campo de’ Fiori che il marito [Federico Armati, dipendente del Sisde] ha preso in affitto dalla Banca di Roma e dove vive loro figlio. Berlusconi appena vede Virginia in tv le invia un mazzo gigante di gardenie e rose, accompagnato da un biglietto gentile: «Un debutto storico a reti unificate evviva e complimenti». Poi la invita a colazione a Palazzo Chigi. Dopo il pranzo con Letta e Tremonti, […] il discorso scivola su soldi e lavoro. Virginia ha qualche difficoltà economica, Berlusconi però la trova professionalmente capace e bellissima. Immediatamente le annuncia l’intenzione di farla entrare tra i portavoce di Palazzo Chigi. Convoca un segretario e fa prendere gli estremi del suo curriculum. Il decreto è pronto per la firma di Letta: «Il presidente del Consiglio dei ministri [...] vista l'esigenza di avvalersi della collaborazione della signora Virginia Sanjust di Teulada in qualità di esperto, nell’ambito dell’ufficio stampa [...] decreta: è conferito l’incarico di esperto per il periodo 20 ottobre-31 dicembre 2003. […]». […] Il premier accompagna il regalo pubblico con uno privato: un bracciale di brillanti di Damiani. I problemi nascono nel febbraio del 2004, quando Il Messaggero scrive: «Berlusconi ha proposto a Virginia di diventare la donna immagine di Forza Italia». Segue un’interrogazione parlamentare e una smentita. La notizia è imprecisa. Palazzo Chigi corre comunque ai ripari. Il decreto […] viene ritirato: un autista del Cavaliere si fa consegnare da Virginia la copia in suo possesso. L'annunciatrice, d’altro canto, non ne ha più bisogno. In Rai sta facendo carriera: è stata appena promossa a conduttrice del programma Oltremoda. E anche per lo 007 le cose si sono messe bene. Il 13 novembre 2003 il Sisde lo ha promosso. Virginia, in quei mesi, vive un mondo da favola: vede spesso Berlusconi, riceve regali su regali (a volte in denaro), e per contraccambiare prepara collezioni di cd musicali per lui. La ragazza però ha un problema: è affascinata dal mondo della new age, frequenta guru e comunità pseudo-religiose sparse tra Asia, America e Italia. […] Armati non vede di buon occhio la svolta mistica dell’ex moglie, è preoccupato per il suo stato di salute e per le troppe telefonate del Cavaliere. Nega il permesso al figlio di andare con la madre in una comunità piemontese. Nel braccio di ferro però c’è una novità: Armati è sempre stato la parte forte della coppia (ha un lavoro da 4.500 euro al mese, una casa, una famiglia solida alle spalle, un padre magistrato) e ora si ritrova improvvisamente debole. La ruota gira: il 20 marzo 2006 lo 007 è trasferito dal Sisde alla Cassazione. Lo stipendio crolla a 1.700 euro al mese. Il 30 marzo 2006 deve prendere servizio alla Corte e usa i dieci giorni rimasti per reagire contro chi, forse a torto, ritiene sia il mandante del trasferimento. Il 21 e il 28 marzo incontra la moglie e le chiede di intervenire su Berlusconi perché, se non fosse rimasto ai servizi segreti, avrebbe presentato una denuncia contro di lui rivelando anche il rapporto tra il Cavaliere e la Sanjust. […] [Le dice:] «Tutto deve essere fatto entro giovedì 30 marzo perché altrimenti denuncio tutto». Berlusconi si rabbuia. […] A 24 ore dallo scadere dell’ultimatum la questione si sistema. «Nella mattinata del 29 marzo 2006 – scrive Armati – sono stato convocato dal capo del personale del Sisde il quale mi rendeva noto che era stata richiesta la mia professionalità al Cesis». […] Lo stipendio di Armati è salvo. L’onore di Berlusconi anche. […] I rapporti tra Berlusconi e Virginia Sanjust […] continuano almeno fino all’estate [2007]”.
“Silvio Berlusconi esce indenne da un altro processo: quello aperto a suo carico dal Tribunale dei ministri di Roma per «abuso d’ufficio e maltrattamenti commessi da soggetto investito di autorità» (cioè per mobbing) ai danni di un agente del Sisde, Federico Armati […] Il 26 gennaio i giudici […] hanno archiviato il caso, accogliendo le due richieste avanzate dal pm il 13 febbraio e il 6 novembre 2008. Il processo era proseguito nonostante la legge Alfano, che copre soltanto i reati contestati alle alte cariche dello Stato al di fuori dell’esercizio delle funzioni, ma non quelli «funzionali». E il Cavaliere era indagato, appunto, per aver abusato del suo potere in veste di capo del governo. Secondo i giudici, «la notizia di reato a carico del Presidente del Consiglio in carica all’epoca dei fatti, Berlusconi Silvio, deve ritenersi nel suo complesso infondata o comunque non supportata da idonei elementi atti a sostenere l’accusa in un eventuale giudizio di merito, per cui ne va disposta l’archiviazione». La motivazione, logicamente faticosa e scritta in un italiano incerto, lardellato di errori grammaticali e sintattici, dichiara dimostrata soltanto la «stretta relazione intrecciata» dal Cavaliere con Virginia, peraltro ormai stranota da quando i giornali pubblicarono la denuncia di Armati. […] [Il dispositivo di archiviazione motivava in questo modo:] i trasferimenti di Armati furono siglati da Mori, Del Mese e Letta (peraltro «delegato dal premier»), e non da Berlusconi, anche se costoro erano «in linea puramente teorica influenzabili» dal Cavaliere. […] È vero che Berlusconi visti i suoi legami con la Sanjust, poteva aver interesse ad assecondarne i capricci; ma la nuova legge sull’abuso d’ufficio gli avrebbe imposto di astenersi dal decidere sull’ex marito della donna solo «in presenza di un interesse proprio o di un proprio congiunto», appartenente alla sua «cerchia familiare, nella quale non può essere ricompresa anche la persona che, sebbene priva di legami parentali col pubblico ufficiale, abbia con quest’ultimo instaurato uno stretto legame». […] Ergo, il Tribunale dei ministri «dichiara non doversi promuovere l’azione penale nei confronti di Berlusconi Silvio»”.
Reati diversi – abuso d’ufficio nel caso Sanjust, concussione nel caso Ruby – ma stesso movente, stessa dinamica – almeno in ipotesi – nello scavalcare gli ostacoli per arrivare alla fica e nel riparare i guai fatti. Cosa vieta di ritenere che la filosofia assolutoria che ha trionfato nel caso Sanjust non possa trionfare anche nel caso Ruby?

Devo al lettore un altro dato: Federico Armati non è stato denunciato da Silvio Berlusconi per calunnia dopo l’archiviazione della sua denuncia, né dalla Presidenza del Consiglio, e nemmeno il Tribunale dei ministri ha provveduto d’ufficio in tal senso. In palese evidenza di una notitia criminis – non è una domanda retorica – non era un atto dovuto? Per l’onore di Silvio Berlusconi e della Presidenza del Consiglio non è stato fatto alcunché da alcuno?

  

domenica 13 febbraio 2011

"Vogliamo il Berlusconi del 1994!"



Nel 1994 – come rammentava Emilio Fede (o:23-0:29) – Silvio Berlusconi vinceva anche “contro chi gli consigliava – in amicizia – di non fare questo passo”. Il riferimento dovrebbe essere a Gianni Letta e a Fedele Confalonieri, ma ci sarà chi gli consiglierà – in amicizia – di accontentarsi di fare il sindaco di Milano, ed è lo stesso che oggi urla: “Vogliamo il Berlusconi del 1994!”. “Spiacente – meriterebbe in risposta – ma io vinco solo quando non seguo i vostri consigli”.

sabato 12 febbraio 2011

In mutande ma vivi




La prossemica ci insegna


Potremmo ragionare del mutanda-party di Ferrara come evento politico, ma due autorevoli penne ci invitano a considerarlo come episodio di una anamnesi psicologica, pagina di un caso personale, eventualmente artistico, sennò clinico: “evento epico e ironico”, per Pietrangelo Buttafuoco (In ondaLa7, 12.2.2011), performance coatta a “fare quello scomodo che non siete voi che non mi invitate alle feste perché sono un bambino grasso, sono io che sono teppista e non voglio giocare con voi”, per Guia Soncini (guiasoncini.com, 12.2.2011). Due teste così belle – detto senza ironia – non possono che vedere giusto, tanto più che conoscono bene Ferrara per averlo avuto come direttore per diversi anni, e tuttavia sembrerebbero dare giudizio divergente. Solo in apparenza, perché dicono la stessa cosa. Dicono che la politica in Ferrara è solo epifenomeno di un carattere, inteso in senso casuistico o in senso apodittico, come malattia o come destino. Se è così, l’omone non sarebbe da discutere ma solo da riguardare. Bene, io penso che si tratti di visione riduttiva: la tipica visione del troppo-da-vicino.
La prossemica ci insegna che c’è una distanza intima (da 0 a 45 centimetri), che è quella tra congiunti; una personale (da 45 a 120 centimetri), che è quella tra amici; una sociale (fino ai 3 metri e mezzo), che è quella tra conoscenti che abbiano frequentazione abituale; ed una pubblica (oltre i 3 metri e mezzo), che è quella delle relazioni in cui è d’uso il lei. Ecco, io penso che di una persona si vedano molto bene alcune cose a una distanza personale, ma alcune sono sfocate rispetto a come appaiono a una distanza pubblica; e penso che Buttafuoco e Soncini soffrano di questo difetto di messa a fuoco. Vedono giusto: Ferrara è una figura tragica e un bambinone molto disturbato, ma è anche altro, e assai di più. Non è il pensatore che si ritiene, ma non è solo una maschera della nostra commedia dell’arte.
A distanza ottimale credo che si tratti – e col mutanda-party mi pare che si sia avuta ampia conferma – del migliore interprete del triste pessimismo del reazionario che è la causa del problema del quale vanta di essere l’unica soluzione: Ferrara è tutto nel suo rapporto verso il potere come violenza necessaria che fonda una ragione tautologica ed autoreferente, nel senso che è l’incarnazione del sofisma che regge la logica di quella ragione.