giovedì 6 giugno 2013

Appunti


È da tempo che mi chiedo cosa riesca a trattenere un paese dalla rivolta per accontentarsi del mugugno, tutt’al più dell’urlo. Non di un paese normale, dico, ma di un paese come il nostro, che ha sempre guardato con sospetto alla coerenza tra il dire e il fare. Sì, è vero, qualcuno spara, ma a cazzo di cane, e qualcun altro si dà fuoco, ma brilla giusto per due ore sulla homepage dei siti d’informazione, ripuliscono l’asfalto e la parola passa allo psichiatra. Poi, sì, ci sono cortei, si grida, si schiuma, parte qualche manganellata, qualche poliziotto riporta una contusione, ma insomma si tratta di robetta, tanto per scaricare un poco i nervi. Meglio così, ovviamente, perché la violenza è sempre brutta brutta brutta, lo dicono un po  tutti, e si sa come s’inizia e non si sa come si finisce. E poi autorizza alla repressione e alla restrizione delle libertà civili, e poi apre la via alle soluzioni autoritarie, cui finiscono per dare il maggior sostegno proprio quelli che hanno fatto più casino.
Perché tanti poveri e nessuna rivoluzione? Perché tanti arrabbiati e le pallottole viaggiano solo in busta? Ogni puntata di Piazza Pulita o di Servizio Pubblico o di Report sembra dover fare da innesco, e tuttal più si risolve in una figura di merda di Di Pietro o nella scoperta che la Santanché forse è lesbica. Perché gli straccioni insultano Franceschini che cena pacificamente e non devastano il ristorante?  
Scarto le ipotesi che mi paiono ridicole – quella di Grillo, per esempio, che continua a millantare: «Se non scoppia la violenza, è perché c’è il M5S» – e dando uno sguardo al passato, passando in rassegna i pochissimi episodi che nel corso dei secoli hanno visto le nostre piazze riempirsi di esasperati più o meno organizzati, quasi sempre nient’affatto organizzati, non riesco a trovare un’altra risposta: la rivolta non ci è congeniale e comunque non siamo esasperati al punto giusto. Probabilmente la violenza scoppierà se e quando alla maggioranza degli italiani che sono con un piede o entrambi nell’indigenza mancherà il denaro per ricaricare il cellulare o per tentare la botta di culo al Gratta&Vinci e al Superenalotto. Se e quando scoppierà, comunque, quasi certamente non avrà profilo insurrezionale: stingerà nel vandalismo, nel saccheggio, nella rabbia che s’accanirà sui simboli, cose e persone che delle cause potranno dirsi al massimo espressione. Non sono ancora nelle condizioni di poter meditare pubblicamente su quello che ci attende, tanto meno per guardare nelle viscere della carogna e trarne aruspici, mi prende una specie di pudicizia e mi limito a vergare appunti. 

mercoledì 5 giugno 2013

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Ho smesso di seguire Pierluigi Battista su Twitter, ho cominciato ad evitare i suoi articoli, cambio canale quando è ospite di un talk show. Sennò divento grillino, e chi mi conosce sa cosa io pensi di Grillo. Non che fosse ’sto tabernacolo di intelligenza e simpatia, prima, ma da quando gli è morta la moglie, sarà mera coincidenza, sarà che il lutto gli ha tolto la scorza, pare si compiaccia a fare lo stronzo. L’impressione è che il suo referente sia il cinismo della residua classe media che non è stata ancora sensibilmente toccata dalla crisi economica e coltiva la certezza che possa farla franca appiattendosi sugli interessi di chi ne ha tratto vantaggio. Più lo guardo, più lo sento, più lo leggo, e più mi pare stia tra Roberto D’Agostino e Giuliano Ferrara, terza posizione tra due modi uguali e diversi di parassitare il marcio. Ovviamente è probabile chio sia in errore, e chissà che personcina deliziosa sia. Ma il fastidio che mi ha cominciato a dare è diventato enorme.  

domenica 2 giugno 2013

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Per salvare Beatriz


Un quarto dei feti anencefali muore in utero o nel venire alla luce, altri due quarti muoiono entro le prime 6-24 ore dopo il parto e non si ha notizia, dalla notte dei tempi a oggi, di un anencefalo che sia vissuto più di una settimana. Parliamo di una malformazione data dall’assenza di gran parte della massa cerebrale, spesso perfino dei nuclei della base, talvolta addirittura del mesencefalo e del bulbo spinale, condizioni che realizzano, pur nella enorme differenza del substrato organico, un quadro clinico analogo, ma assai più grave, a quello che si osserva nella cosiddetta morte cerebrale, che da almeno una dozzina d’anni la Chiesa cattolica si è persuasa ad equiparare alla morte di fatto.
Ce n’è abbastanza per affermare che l’interruzione di gravidanza non è omicidio quando il feto è anencefalo? Anche recependo integralmente la logica sulla quale regge la dottrina cattolica, dove sarebbero gli estremi per poter parlare di persona, o di coscienza, nel caso di un feto anencefalo? È pur vero che, in caso di conflitto tra la vita della gravida e quella del feto, la morale cristiana fa fermo divieto di ogni discriminazione di valore, e tuttavia un’eccezione è contemplata proprio quando non vi sia alcuna possibilità di salvare la vita del feto e il protrarsi della gravidanza metta in serio pericolo la vita della gravida. Proprio come nel caso della gravidanza di Beatriz. 
Bene, non le hanno concesso di abortire. Hanno deciso di farle un taglio cesareo a 25 settimane, che nella stragrande maggioranza dei casi porta alla morte del feto estratto prematuramente, anche quando non sia malformato, anche quando la gravida goda di ottima salute. In pratica, si è trattato dell’aborto di un feto che non avrebbe avuto alcuna speranza di sopravvivere, anche se fosse venuto alla luce al termine della gravidanza, ma a questo aborto si doveva dare la parvenza di un parto, per salvare il mero involucro formale della morale cattolica e forse, chissà, visto che il caso aveva già sollevato un bel polverone, per non trovarsi il cadavere di Beatriz sul groppone. È che aveva chiesto di poter abortire, non poteva tornare buona come santa. 


sabato 1 giugno 2013

Non hanno paura di niente


[Allego in coda a questo post quanto andrebbe bene qui in premessa, ma appesantirebbe troppo il testo: si tratta della risposta che ho dato l’anno scorso a chi mi muoveva l’accusa di essere un malpensante. Mi è stata mossa anche oggi, ma il tono era piacevolmente ironico, per ciò che ho scritto nel post precedente a questo, col quale sollevavo il sospetto che il ddl oggi annunciato dal governo e che reca al Titolo I la dicitura «Disciplina del finanziamento dei movimenti e partiti politici» – anche così com’è in bozza, anche senza gli immancabili emendamenti che vi apporterà il Parlamento – sia una solenne presa per il culo. Riproporre oggi quel post ha il fine eminentemente pratico di risparmiarmi ogni risposta a chi volesse sollevare nella pagina dei commenti l’obiezione che la mia riflessione sia viziata da un pregiudizio ostile a questo governo, ai partiti che lo appoggiano, ecc. E dunque...] 



Il ddl approvato ieri dal governo e che reca al Titolo I la dicitura «Disciplina del finanziamento dei movimenti e partiti politici» è disonesto fin dal primo comma del primo articolo: «È abolito il finanziamento pubblico dei partiti». In realtà, almeno formalmente, il finanziamento pubblico dei partiti è già stato abolito nel 1993, grazie a un referendum che raccolse il 90,3% dei consensi a favore dell’abolizione. Referendum tradito pochi mesi dopo, con una legge che disponeva un «contributo per le spese elettorali» (legge 515/1993). «Un rimborso di questo tipo – disse uno dei suoi promotori (gli venisse un cancro in culo, se è ancora vivo) – ha una sua autonoma ragion d’essere e non deve trasformarsi, né si trasformerà, in una nuova forma di finanziamento dei partiti come tali». A chi avesse sollevato il sospetto che fosse un modo per far rientrare dalla finestra ciò che era stato appena cacciato dalla porta, si sarebbe detto: «Via, che malpensante».
E dunque a quale «finanziamento pubblico dei partiti» fa riferimento, il ddl del governo Letta? A un finanziamento che sostanzialmente non è mai stato abolito e che anche stavolta si fa finta di cacciare dalla porta, provvedendo per tempo a spalancargli la finestra, con la più che implicita ammissione che si tratta della replica di una truffa. Un sospetto da malpensante? La logica interna al sistema dei partiti, per come è strutturato in Italia, impone lo scetticismo come un dovere. E in questo caso – vedremo – non mancano elementi per dargli legittimità di metodo, riavendone in cambio prove ampiamente argomentate: siamo dinanzi agli stessi luridi parassiti di ventanni fa, sono solo cambiati i volti, e ci rifilano lo stesso trucco, ma gli hanno trovato un altro nome, stavolta è «contribuzione volontaria privata». Bugia enorme, tanto più sfacciata quanto più si procede nella lettura del ddl, che «assicura, in favore dei partiti e dei movimenti politici […] la disponibilità, in almeno ciascun capoluogo di provincia, di idonei locali per lo svolgimento delle attività politiche, nonché per la tenuta di riunioni, assemblee e manifestazioni pubbliche» (art. 5), dando loro il «diritto ad accedere, al di fuori dei periodi della campagna elettorale […] a spazi televisivi messi a disposizione a titolo gratuito dalla concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo» (art. 6). In pratica, logistica e comunicazione sono a carico dello Stato, con quanto si troverà modo di spremere facendo la cresta su queste voci e quelle che senza dubbio saranno aggiunte con gli immancabili emendamenti (energia elettrica, telefonia, posta, ecc.). Oltre al contributo del duexmille e a quello volontario dei privati, che potranno in buona misura detrarlo in sede di dichiarazione dei redditi, e quindi a ulteriore carico dello Stato, i partiti trovano modo di concedersi a gratis tutto ciò che prima pesava sui loro bilanci per almeno un terzo delle spese.
Poi, il punto più ambiguo, quello del duexmille: «Ciascun contribuente può destinare il duexmille della propria imposta sul reddito a favore di un partito o movimento politico» (art. 4, comma 1) e «le destinazioni […] sono stabilite sulla base delle scelte effettuate dai contribuenti in sede di dichiarazione annuale dei redditi mediante la compilazione di una scheda recante l’elenco dei soggetti aventi diritto» (art. 4, comma 2), in barba alla segretezza del voto o delle preferenze politiche, che pure viene promessa, ma senza alcuna spiegazione su come la promessa possa essere mantenuta.   Si parla di un tetto massimo di 61 milioni di euro, ma stranamente il dato non è specificato nella bozza del ddl, che pure gronda di numeri con encomiabile spreco di virgole. Ma poi c’è il bello: «In caso di scelte non espresse, la quota di risorse disponibili […] è destinata ai partiti ovvero all’erario in proporzione alle scelte espresse» (art. 4, comma 3), e qui siamo a una variante bastarda di ciò che correntemente avviene con l’ottoxmille. 
Bastasse, ma non basta. Tutto, ammesso rimanesse come è sulla carta, entrerebbe a pieno regime fra tre o quattro anni, e nel frattempo il denaro pubblico ai partiti non diminuirebbe, anzi, c’è l’opportunità che possa quasi raddoppiare. Insomma, anche volendo tener da parte il pregiudizio che ci istiga a tener presente che merde siano, questi boiardi della partitocrazia italiana mostrano una incredibile faccia tosta. Si stanno dividendo i compiti: c’è chi lamenta che un centinaio di dipendenti e funzionari di partito potrebbero essere licenziati (e non si capisce perché dovrebbero muoverci a compassione più degli altri licenziati nel settore pubblico e in quello privato) e c’è chi invece annuncia che il ddl sarà una rivoluzione. Non hanno paura di niente. 
     



«Pensar male» e «pensar bene» (Malvino, 18.4.2012)

L’implicazione d’ordine morale è inevitabile – direi necessitata – nella definizione del «malpensante», cioè di chi è «incline a pensare male, a formulare giudizi negativi sugli altri» (Devoto-Oli), di chi «tende a vedere il male ovunque o ad avere una cattiva opinione degli altri» (De Mauro), di chi «per propria natura è incline a pensare male del prossimo e a interpretare nel senso peggiore le azioni e i comportamenti altrui» (Treccani): ogni definizione del «malpensante», infatti, non può fare a meno di usare un termine – il «male» – che non ha alcun senso fuori dall’ambito morale. In quest’ambito, com’è noto, il «male» (ma anche il «bene») pretende statuto di assoluto e nel farsi avverbio rimanda inesorabilmente al «pessimo» (e all’«ottimo») che impronta il pregiudizio «pessimistico» (o quello «ottimistico»), sicché «pensar male» (o «pensar bene») si fa strumento obbligato della costruzione di un sistema entro il quale tutto regge, ma solo se si assume che l’uomo sia «intrinsecamente cattivo» (o «intrinsecamente buono»). Il «malpensante», dunque, sarebbe chi inclina a un pregiudizio «pessimistico» sulla natura umana, facendole con ciò quel torto che difficilmente gli uomini perdonano, soprattutto se hanno bisogno di essere confortati dall’«ottimismo» del «benpensante». È del tutto ovvio, dunque, che sul «malpensante» pesi la tacita condanna di quanti hanno bisogno del conforto che è il tacito patto dei «benpensanti». È altrettanto ovvio, però, che fuori dalla tautologia sulla quale poggia ogni morale, e per la quale «il male è male» e «il bene è bene», «pensar male» non abbia alcun senso. In altri termini, solo a un «benpensante» è dato il poter rilevare un errore morale nel «malpensante»: solo chi ha bisogno di pensare che l’uomo sia «intrinsecamente buono» può permettersi di liquidare il «pensar male» come semina di ingiusto sospetto. (Qui conviene sorvolare sulla natura di questo bisogno, ma abbiamo già detto che ha per oggetto un conforto. Senza dilungarci troppo sul movente psicologico che mira a questo genere di conforto, possiamo però identificarlo come istanza difensiva e consolatoria, tra le procedure nevrotiche post-traumatiche: il «benpensante» ha bisogno di sentirsi «buono tra i buoni» per costruirsi un involucro protettivo che lo difenda dalle minacce esterne e dalle paure interne.) Ciò premesso, devo dire che non mi riconosco nel «malpensante» sul quale G. scaglia i suoi strali di «benpensante» (non lo linko e non lo cito per esteso, adeguandomi al suo canone allusivo). Dichiaro la mia estraneità a quell’ambito morale entro il quale è d’obbligo decidere se l’uomo sia «intrinsecamente buono» o «intrinsecamente cattivo» e infatti ogni volta che «penso male» di qualcosa o di qualcuno faccio esercizio di un sospetto che è metodo scettico applicato alla logica interna a un sistema: formulo un giudizio negativo o esprimo una cattiva opinione non già sul piano morale ma su quello logico, sicché non dico mai «questa tal cosa (questa tal persona) è cattiva», ma «forma o sostanza di questa tal cosa (affermazioni o azioni di questa tal persona) non mi convincono della ratio che ostentano», e dunque il mio sospetto non si appunta mai su ciò che le rivelerebbe «cattive», ma su quanto, a mio parere, sempre argomentato, le rivela intrinsecamente contraddittorie, dunque soggette ad implosione logica se sgusciate dal mallo ipocrita. Offro le mie argomentazioni ad ogni confutazione, ma non posso ritenere valida quella che pretenda di eluderle dichiarandole viziate da un pregiudizio che a ben vedere è solo la negativa di un proiettato: rigetto, infatti, le definizioni del «malpensante» con le quali ho aperto questo post, perché implicano l’uso di categorie che non ritengo efficaci nella formazione del giudizio che si sussume al «pensare».

venerdì 31 maggio 2013

Ci staranno mica pigliando per il culo?


A quanto assomma la quota annuale dell’8xmille che per quasi l’80% va alla Chiesa cattolica, per poco più del 10% va allo Stato, e per il resto è destinato a Chiesa valdese, Unione delle comunità ebraiche, Chiesa evangelica luterana, Unione delle chiese cristiane avventiste del settimo giorno e Assemblea di Dio? Circa un miliardo e 200 milioni di euro. Faccio male i conti o il 2xmille che il ddl del governo Letta destina al finanziamento dei partiti assommerebbe a circa 300 milioni? E attualmente a quanto assomma il denaro che viene destinato ai partiti con la formula del rimborso elettorale? Quest’anno al Pd andrebbero 45 milioni, al M5S ne andrebbero 42, al Pdl 38… Insomma, per farla breve, il totale sarebbe di circa 160 milioni di euro. Che ovviamente vengono dalle tasche dei contribuenti. Ed è dalle tasche dei contribuenti che verrebbero i 300 milioni destinati ai partiti con la formula del 2xmille: 140 milioni in più di come è stato fino ad ora. 
Sicuramente avrò sbagliato a fare i conti, altrimenti non si capisce in cosa consisterebbe l’annunciata stretta di cinghia: ci staranno mica – per l’ennesima volta – pigliando per il culo?

giovedì 30 maggio 2013

Chissà se Nuzzi avrà un’altra occasione per chiederglielo

Nel corso dell’intervista concessa a Gianluigi Nuzzi, e andata in onda ieri (La7, 29.5.2013), Luigi Bisignani ha detto: «Sa chi mi presentò Mauro Moretti? Lorenzo Necci». Non è la prima volta che lo dice: «Moretti mi fu presentato da Necci» (la Repubblica, 21.6.2011). Moretti ne ha dato conferma, collocando temporalmente quel primo incontro al periodo in cui Necci era a capo delle Ferrovie dello Stato (1989-1996): «Ho conosciuto Bisignani all’epoca di Necci» (La Stampa, 21.6.2011). Dove avvenne l’incontro sarebbe questione irrilevante, se non fosse che diciassette anni fa, intervistato da Giuseppe D’Avanzo, Giuliano Ferrara diede Bisignani come «presenza fissa in casa Necci» (la Repubblica, 18.9.1996), mentre già da mesi rilanciava «il sussurro che personaggi quali Antonio Maccanico, Lamberto Dini, Carlo Azeglio Ciampi, Lorenzo Necci, Enrico Cuccia siano affratellati dalla squadra e dal compasso» (Il Foglio, 6.2.1996). Particolarmente stizzita fu la reazione di Bisignani all’insinuazione che a casa Necci fosse operativa una centrale massonica e che egli ne fosse membro.

«Frequentatore né fisso né saltuario di casa Necci». «Meno ancora ho frequentato sedi e società delle Ferrovie dello Stato». E allora dove avvenne quell’incontro? Chissà se Nuzzi avrà un’altra occasione per chiederglielo.   
 

Misteri dei potenti


La mania di Alfano per gli oroscopi, monsignor Fisichella che ospita complotti a casa sua, Statera e Moretti due stronzi ingrati, sì, sì, tutto molto, molto interessante. Ma erano gocce di sudore o di saliva, quelle che imperlavano il mento di Bisignani intervistato da Nuzzi, ieri sera? È la cosa che mi ha più colpito dell’intervista, e ancor più mi ha colpito che pareva non gli dessero fastidio, stavano lì, quasi ne grondava e non se ne tergeva, come una bavetta cui sembrava abituato. Misteri dei potenti, così uguali alle meravigliose stranezze della fauna esotica. Così umane, quasi troppo umane, invece, le cicatrici di Nuzzi.  

mercoledì 29 maggio 2013

Da mucca assassina a pecorella smarrita


Tre o quattro secoli fa l’Europa vedeva scorrere un fiume di sangue nella contesa tra cattolici e protestanti sul tema della Grazia. Difficile fare un conto di quanti si sgozzarono a vicenda nel questionare, su un ramo di quel fiume, se per essere degni d’essere in comunione con Cristo fosse necessaria o meno l’assoluzione, previa la confessione dei propri peccati a un ministro del culto.
Bene, tornando ai funerali di don Gallo, vedendo Vladimir Luxuria esser presa da un prepotente quanto estemporaneo bisogno di eucaristia, estemporaneo il tanto da escludere si fosse confessata prima, vedendo il cardinal Angelo Bagnasco soddisfare prontamente quellurgenza, senza porsi alcun problema se la figliuola fosse in regola con quanto prescrive il Catechismo della Chiesa Cattolica al punto 1385 (che riprende fedelmente quanto prescritto al punto 630 del Catechismo Maggiore di Pio X), possiamo dire che tutto quel sangue è scorso inutilmente: confessione e assoluzione sono ormai superflue, comunque non indispensabili per accostarsi all’eucaristia. E di ciò possiamo essere praticamente sicuri, perché non hanno avuto da ridire nemmeno i più zelanti tra i cattolici tradizionalisti, che solitamente gridano allo scandalo pure se la cotta dell’officiante è troppo lunga o è troppo corta, o se i grani d’incenso nel turibolo non crepitano come si deve, o un bemolle del canto gregoriano è troppo molle. 
Ne avevamo già avuto il sospetto quando vedemmo Silvio Berlusconi, a bocca aperta e ad occhi chiusi, papparsi l’ostia ai funerali di Bettino Craxi, prima, e a quelli di Raimondo Vianello, poi, però commettemmo l’ingenuità di credere che si fosse chiuso un occhio per i favori che aveva concesso al Vaticano, d’altronde erano i tempi in cui gli si scusavano anche i «porcoddio». Con l’eucaristia concessa a Vladimir Luxuria, però, occorre rettificare: alla persona che gode di notorietà, anche se pubblico peccatore, soprattutto se pubblico peccatore, una cialda di frumento non si nega mai. D’altra parte non costa che pochi centesimi, ma il ritorno d’immagine misericordiosa presso il pubblico che simpatizza per il beneficato è immenso.
Ieri c’era Ratzinger, e tornava comodo mostrarsi benevoli col puttaniere in odor di mafia che si offriva come defensor fidei. Oggi c’è Bergoglio, e torna comodo lisciare il pelo alla transgender comunista che d’un tratto pare aver scoperto la dimensione mistica. Da mucca assassina a pecorella smarrita, un apologo edificante, no? In modo diverso, certo, e in tempi diversi, ma tornano utili entrambi se in posa da resipiscenti, e allora non è il caso di star lì a sottilizzare, in fondo la dottrina è roba da ragazzini che preparano il corso per la prima comunione. Poi, diciamocela tutta, chi se ne fotte dei peccati di Berlusconi e di Luxuria? Sono più eccitanti i peccati dei ragazzini, via, è a loro che bisogna insegnare che non ci si può accostare al corpo e al sangue di Gesù senza essere passati prima per il confessionale.  

martedì 28 maggio 2013

Il dramma della sodomia nella Diocesi di Roma

Quello che terremoto, maremoto e disastro nucleare in Giappone erano punizioni divine. Che Adamo ed Eva sono davvero esistiti, e pure il paradiso terrestre, naturalmente. Quello che le teorie di Darwin sono tutte stronzate. E che la morte cerebrale è ancora vita. Che il crollo dell’Impero Romano è tutta colpa dei froci. Sì, insomma, il professor Roberto De Mattei. Bene, occorre esprimergli solidarietà, perché è stato fatto oggetto di censura: il Tribunale Ordinario di Roma ha oscurato una pagina del suo sito. Non quella in cui c’è scritto che Giordano Bruno «fu giustamente arrestato, processato e condannato», né quella in cui c’è scritto che «l’evoluzionismo è privo di ogni connotazione scientifica», e nemmeno quella in cui si legge che il riconoscimento della parità di diritti per i gay è espressione di una «deriva anti-umana». No, gli hanno oscurato una pagina dalla quale si levava alto il lamento per «il dramma della sodomia nella diocesi di Roma». È che faceva nomi e cognomi, qualcuno si sarà sentito diffamato o si sarà sentito bruciare la coda di paglia. Boh, va’ a capire, in fondo il professore ha scelto per il suo sito un nome che è tutto un programma: Corrispondenza romana, lo stesso che dava il titolo all’agenzia del famigerato monsignor Umberto Benigni, quello cui Pio X diede mandato di stanare i subdoli modernisti che come zecche infestavano il ventre molle del Vaticano, giusto un secolo fa. Nobile intenzione, dunque, quella della denuncia della lobby gay che devasta - pardon, devasterebbe - la Curia romana, ma senza avere prove sarebbe stato meglio evitare di far nomi e cognomi. Ecco perché, oscurando quelli, ho deciso di pubblicare qui quell’articolo, che ritengo estremamente divertente. Se contenga fatti veri, a questo punto, è questione del tutto irrilevante. L’importante è il divertimento.    



IL DRAMMA DELLA SODOMIA NELLA DIOCESI DI ROMA

Uno dei problemi che Papa Francesco dovrà affrontare è quello dell’immoralità dilagante del clero che dalla periferia della cristianità giunge al cuore della Curia romana. La stampa laicista mette l’accento sul fenomeno della pedofilia, fingendo di ignorare che questo male affonda le sue radici nella piaga ben più vasta e ramificata della sodomia.
Due sacerdoti, l’italiano don XXXX XXXXXXX XXXX XX XXXXXX, che nel dicembre 2011 ha dato alle stampe la sua opera X XXXXXX XX XXXX XXXXX, e il polacco don XXXXXX XXX, docente della XXXXXXXXXX XXXXXXXXXX XXXXXXXX XX di XXXXXXX, che nell’estate del 2012 ha pubblicato XXX XX XXXX XXXXX XX XXXXXXXX, hanno recentemente sollevato il dibattito sull’esistenza di una vera e propria lobby omosessuale che esercita, in maniera sempre più coercitiva, una forte influenza dentro la Chiesa, anche ai livelli più alti delle responsabilità ecclesiastiche. La piaga di quella che è stata definita omoeresia, omomafia, omosessualizzazione della Chiesa, è ormai nota e il problema comincia ad essere affrontato da diversi siti cattolici e da studiosi come lo psicologo XXXXXXX XXXXXXXXXX nella sua opera XXXXXXXXXXXXX X XXXXXXXXX XXXXX XXXXXX, in cui l’articolo di don XXX è riportato integralmente in appendice.
Lo scenario è nauseante, fatto di potenti intrecci che coinvolgono prelati e sacerdoti di dubbi costumi, seminari, abbazie, monasteri, dove è pacificamente praticata una vita sessuale tendente all’effeminatezza. In queste istituzioni, talvolta storiche, gli elementi sani rischiano di esser stritolati.
In questa situazione di drammatico degrado ecclesiale arrivano sempre più numerose le segnalazioni di seminari e case di formazioni dove si diffondono pratiche sessuali in grave e aperto conflitto con l’etica cattolica, tollerate se non favorite o perfino talora sollecitate dai superiori. Una fotografia della generale corruzione del clero ce la dà la diocesi di Roma, se è vero essa è immagine della Chiesa nella sua universalità. Il XXXXXXX XXXXXXXX XX XXX XXXXXXX sembra voler dare di sé l’immagine di persona inflessibile su certi fenomeni, ma di fatto poi, stando a quanto narrano e documentano numerosi sacerdoti e seminaristi, le punizioni esemplari ricadano solo sui deboli, mentre i potenti godono di una impunità ai più alti livelli. In un suo editoriale del 14 gennaio 2013, il direttore della XXXXX XXXXXXX XXXXXXXXXX, XXXXXXXX XXXXXXX, solleva un quesito rimasto senza risposta: «Tutti ricordiamo anche l’inchiesta del settimanale Panorama nel luglio 2010 sulle notti brave di alcuni preti gay a Roma. Fu un’inchiesta che generò giustamente scandalo e il XXXXXXX XXXXX XXXXX XXXXXXX XX XXXX, il cardinale XXXXXXXX XXXXXXX fece affermazioni durissime contro questi sacerdoti, invitandoli a uscire allo scoperto e abbandonare il sacerdozio: eppure non se ne è saputo più niente, non ci sono state sanzioni di alcun genere sebbene alcuni dei responsabili fossero identificabili».
XXXX XX XXXXXX nel suo libro, che a distanza di oltre un anno dalla pubblicazione non è stato mai smentito, ricorda, da parte sua, una denuncia, da lui presentata contro la palese immoralità del parroco di una importante basilica romana. Il  XXXXXXX XXXXX XXXXX XXXXXXX XX XXXX reagì dichiarando XXXX XX XXXXXX persona non gradita nell’ambito pastorale romano e lasciando che il prete immorale rimanesse al suo posto. Episodio che il sacerdote ha nuovamente riferito di recente in un’intervista in cui dichiara, tra l’altro, che «nella Chiesa è in atto un golpe omosessualista».
Anche il sacerdote polacco XXXXXXX XXX è dello stesso avviso del confratello italiano ed a conferma di certe dinamiche scrive nel suo articolo: «Quando un vicario tenta di difendere i giovani dalle molestie sessuali di un parroco è proprio lui, e non il parroco, ad essere richiamato all’ordine, vessato ed infine trasferito. Per aver svolto con coraggio il proprio dovere costui si ritrova a vivere esperienze dolorose». Se questi fatti, diversi dei quali resi pubblici e ancora in attesa di smentita fossero veri, la situazione ecclesiastica di Roma e delle diocesi italiane è a dir poco spaventosa.
Quel che più impressiona è che tutti, pur sapendo, tacciono, persino dinanzi a una denuncia, giungendo all’aberrazione di punire l’innocente proteggendo il colpevole. Ma se Roma è paradigma della Chiesa universale, a Roma una realtà è più di ogni altra cartina di tornasole, l’XXXX XXXXXXXX XXXXXXXXX, conosciuto per essere il più antico e prestigioso Istituto di formazione sacerdotale dell’Urbe e dell’orbe, l’unico dipendente direttamente dalla Santa Sede che provvede alla nomina del suo rettore. Già negli anni ‘70 il periodico XX XXXXXXXX pubblicò un dossier sulla generale immoralità regnante in questo Istituto; dossier che costò la testa dell’allora rettore fatto vescovo. Sostituito il rettore e placate sul momento le acque, tutto tornò però presto tale e quale a prima.
L’ultimo tentativo di moralizzazione fu fatto nei primi anni 2000 con il rettorato di uno spigoloso sacerdote marchigiano, ora in servizio presso la Santa Sede, che cercò di portare un po’ d’ordine e decenza. Si dimise dopo meno di due anni, su pressione di certi ambienti curiali che non tolleravano il suo desiderio di far pulizia. La situazione, ad oggi, non sembra cambiata.
Questo Istituto è un paradigma perfetto: una facciata di aulica nobiltà fatta di secolari tradizioni e un dietro le quinte fatto di notti brave dei seminaristi che, una volta liberi e dismesso il clergyman d’ordinanza, possono entrare e uscire a tutte le ore del giorno e della notte. Quindi incontri particolari tra seminaristi, ma anche tra prelati più o meno potenti in cerca di compagnia. Amicizie molto intime tra alunni, sia seminaristi che sacerdoti, sono all’ordine del giorno fino alla costituzione di vere e proprie coppiette omosex, il tutto senza troppo bisogno di nascondere. All’interno di questo blasonatissimo seminario basta avere un po’ di confidenza con qualche seminarista per sapere chi è “fidanzato” con chi e quali siano i nomignoli al femminile con cui è chiamato questo o quel seminarista, questo o quel sacerdote.
Per giustificare questo stato di depravazione, chi governa questo microcosmo seminariale invoca il principio dell’autoformazione della Pastores dabo vobis (n. 69) e del Direttorio su La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana, stravolti però in senso tutto quanto liberal. Il documento Orientamenti e norme per i seminari (n. 73) riconosce sì come necessaria al processo formativo la capacità all’autoformazione del candidato al sacerdozio, ma non declinata secondo una prassi libertaria che finisce col farsi poi de facto libertina.
Se poi si considera che questo ambíto istituto è una vera e propria “fabbrica” di vescovi, nunzi apostolici e cardinali, come non rabbrividire?  Si dirà: è un caso isolato dovuto a particolarissime condizioni. In realtà è molto di più: è un paradigma. Si tratta infatti del più antico e titolato istituto, direttamente dipendente dalla Santa Sede, preposto alla formazione sacerdotale. Non vogliamo generalizzare, ma viene da chiedersi: se tanta è la sporcizia nel collegio la cui direzione dipende immediatamente dalla Prima Sede, cosa accadrà negli altri dipendenti dalle sedi secondarie? Quella sporcizia denunciata dal cardinale Ratzinger durante la Via Crucis del 2005 sommerge la Roma dei seminari e dei collegi, a partire proprio dal più prestigioso ed esclusivo. Preghiamo dunque perché il nuovo Papa trovi la forza di iniziare la pulizia morale che tutti invocano dalla diocesi di cui, fin dal giorno della sua elezione, si è proclamato con fierezza vescovo.


Anche depurato, sono certo che l’articolo non perda efficacia. Se anche così meriti di essere oscurato, sono ansioso di sapere il perché.    

[...]


Non so se rammentate la scena del giorno in cui il dottor Guido Tersilli prende servizio da volontario in ospedale (Il medico della mutua – Luigi Zampa, 1969). Trova colleghi che hanno intuizione, e presto avranno prova, del suo cinismo e della sua spregiudicatezza. Non sono troppo diversi da lui, ma fiutano il pericolo di un concorrente dalle qualità superiori, e il loro disprezzo sostanzialmente è invidia.


lunedì 27 maggio 2013

La lectio magistralis della perpetua


La signora Liliana Zaccarelli meriterebbe il titolo di Dottore della Chiesa, perché con poche parole è stata in grado di illustrare la dottrina dei carismi assai meglio di Isidoro di Siviglia, che nel commentare 1 Cor 12, 7 («A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune») scriveva: «Questo avviene affinché venga favorita l’umiltà e ogni membro del corpo svolga il suo compito ammirando i doni dell’altro. In tal modo tutti i doni diventano comuni e le membra sono l’uno necessario per l’altro» (Sententiarum libri tres, II), che – mi auguro converrete – è un modo assai legnoso per dire che nella Chiesa ciascuno è chiamato a una funzione, secondando la propria indole e le proprie capacità, e tutte sono necessarie, e tutte vengono premiate, tutte sfruttate a pieno anche quando in apparenza sembrano sacrificate.
Tutti i cretini che hanno contestato il cardinal Bagnasco – non meno cretini di quanti hanno tirato fuori dai loro cassetti i coccodrilli più critici – si son mai chiesti perché don Gallo non abbia mai subìto una sanzione ecclesiastica per le sue sparate? Era necessario. Era necessario proprio a quella Chiesa che non piaceva affatto a quanti don Gallo piaceva tanto. E lo sapeva, per questo esagerava.
Sapeva  che il suo cappellaccio da anarchico bilanciava il camauro foderato in zibellino. Che i suoi drogati e le sue puttane, il suo sigaro e il suo Bella ciao, i Moni Ovadia, gli Shel Shapiro, i Vladimir Luxuria e i Gino Paoli – tutto il cast chiamato a recitare nel film della sua vita, vip e comparse altro non era che il controcanto dei pedofili coperti per decenni e decenni dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, dei mafiosi che fino a ieri usavano lo Ior per riciclare i proventi del loro narcotraffico, dei finanzieri e degli immobiliaristi che non hanno mai smesso di fare affari con la Propaganda Fide, della nobiltà nera romana che ogni domenica mattina assiste alla messa in latino. Tutti, simpatizzanti ed antipatizzanti quando era in vita, non hanno mai capito un cazzo di don Gallo: recitava la sua parte, era la spalla del cardinal Siri, che a sua volta gli faceva da spalla. E a loro, non a caso subito zittiti, la signora  Liliana Zaccarelli ha impartito una lectio magistralis da rimeditare. 

sabato 25 maggio 2013

Soldi, trasparenza e carisma


Si sa ancora poco della riforma del finanziamento pubblico ai partiti che il governo Letta intende promuovere, ma quel poco non piace a Grillo e a Pannella. Si tratterebbe – pare – di consentire il finanziamento da parte dei privati cittadini con un meccanismo analogo a quello del 5xmille, limitando l’intervento dello Stato all’assistenza in termini di strutture e servizi (spazi tv e radio, affissioni, costi di spedizione, ecc.), il tutto in regime di estrema trasparenza dei rendiconto e di controllo dei meccanismi interni ai partiti, per evitare ogni gestione padronale delle risorse. Boh, chissà se sarà possibile, e come, poi non dimentichiamo che in Italia ogni riforma nasce zoppa e col verme dentro, però lo stesso non si capisce il no di Grillo e di Pannella. Cioè si capisce bene solo se si conviene sul dato, peraltro di pacifica evidenza, che la leadership carismatica non regge senza il controllo pieno ed autocratico delle risorse finanziarie. La trasparenza sulle entrate e sulle uscite va bene come slogan contro la partitocrazia, ma di fatto un movimento politico a guida carismatica senza gestione proprietaria della cassa è una contraddizione in termini, sia che il denaro pubblico sia rifiutato di fatto, com’è nel caso di Grillo, sia che lo sia solo a chiacchiere, com’è nel caso di Pannella. Ecco perché li troviamo insieme a dire no, sebbene il primo, col 25% dei consensi elettorali, intaschi meno – praticamente niente – rispetto al secondo, che ne raccoglie solo lo 0,2%. Ma ne riparleremo, perché in questione è la natura dello statuto di un partito. 

venerdì 24 maggio 2013

[...]


Sì, ho capito che a Bologna si vota. Ho capito pure su cosa si vota. Quello che non ho capito è perché si vota. 


Sappiamo che la fisiognomica...


Sappiamo che la fisiognomica è disciplina pseudoscientifica, tuttavia bisogna ammettere che non è facile resistere agli odiosi pregiudizi che ci ha ficcato in testa per secoli e secoli. Lo dico con un certo orgoglio: a me non costa alcuna fatica. Così, dinanzi ai tratti che per due millenni, da Polemo di Laodicea a Cesare Lombroso, sono stati sempre attribuiti al coglione, io non ho cedimenti: distolgo lo sguardo e porgo l’orecchio, fuggo la suggestione e mi concentro su ciò che dice.
Beppe Severgnini, per esempio: «Ingrid Loyau-Kennett, 48 anni, due figli, ex insegnante e capo scout, […] è scesa dal bus quando ha visto un corpo in mezzo alla strada: pensava ci fosse stato un incidente. Poi ha capito: una persona era stata uccisa. Anzi, macellata. La donna non ha esitato ad avvicinarsi agli assassini. “Meglio che le armi fossero puntate verso una persona come me, e non verso i bambini che cominciavano a uscire da scuola”». E qui si chiede: «Perché l’ha fatto? Capiva quanto stava accadendo?»
Cazzarola – dico – la signora è stata limpida come il cristallo. Ha detto che è scesa dall’autobus perché pensava si trattasse di un incidente: è capo scout, così strano che l’abbia fatto? Solo dopo ha capito cosa stesse accadendo, e lì ha pensato bene di fare la sola cosa che fosse in suo potere, cioè impedire che gli assassini puntassero verso la scuola, distraendoli. «Ammirevole, certamente – concede Beppe Severgnini – ma la domanda resta: perché l’ha fatto, Ingrid? Aveva capito quanto stava accadendo? O una parte del cervello le suggeriva: “Ehi, è solo un film”?».
Ecco, è qui che la fisiognomica mostra tutta intera la sua irrilevanza. Perché domande del genere può porsele anche un coglione senza tutto quell’esagerato prognatismo.

Come un parente stretto di cui ci si vergogna a morte


Ho scritto che le idee di Dominique Venner «non erano poi tanto diverse da quelle che in Italia hanno trovato megafono ne Il Foglio di Giuliano Ferrara», ma forse sarebbe stato meglio accostare brani tratti da dominiquevenner.fr e da ilfoglio.it, evitando ogni commento. Poco male, perché a conferma di quanto affermavo torna utile Giulio Meotti, che maltratta Dominique Venner come un parente stretto di cui ci si vergogna a morte (Il Foglio, 23.5.2013).
Nulla, infatti, gli è rimproverato del suo dna: «la destra di Venner ha avuto premonizioni giuste, dal tracollo della natalità in Europa alla rampante islamizzazione delle sue principali città», e si tratta di «una destra che vive di risentimenti anche fondati», perché chi può negare «la decomposizione dell’Europa sotto la minaccia dell’islamizzazione e gli eccessi del postmoderno fra cui il matrimonio gay»? E allora? Cos’è che fa la differenza tra le battaglie culturali di Venner e quelle de Il Foglio? Ovvio, Venner si è suicidato, e il suo suicidio le dichiara perdenti.
Sta di fatto che si tratta delle stesse piccole grandi pugne che esaltano Il Foglio, e dunque come la mettiamo? «Venner faceva parte di una destra torva, non tanto politicamente scorretta, quanto, piuttosto, cupa», «una destra che si nutre di immagini fosche», insomma, non s’è mai visto Venner tenere un dibattito pubblico su un palco pieno di mutande appese a un filo, né improvvisarsi rapper, né gorgheggiare arie del Rigoletto con una parrucca rossa in testa, e sì che la «destra segnata dalla lettura dei testi situazionisti della scuola di Guy Debord» era la sua, mica quella di Ferrara.
La sua, ahilui, era «una destra inservibile e nutrita di paure», mica quella servile e nutrita di denaro pubblico de Il Foglio. Il suo, ahilui, era «un pensiero marginale e scorbutico», mica centrale e accattivante come quello di Ferrara. Poi, diciamola tutta, «Venner ha rivolto l’arma contro se stesso, mentre il killer norvegese [Ander Breivik] ha decapitato la futura classe dirigente laburista di Oslo» (sottinteso: «almeno»).  

giovedì 23 maggio 2013

Panorama, 14 dicembre 1967


Al momento ritengo inutile parlare di questo pontificato: leggo, annoto, scuoto la testa. Quante volte la Chiesa ci è sembrata pronta alla riforma? Quante volte pareva volesse stupirci?


[...]

Giusto sessantasei anni fa, il 23 maggio 1947, l’Assemblea Costituente discuteva di quello che nel testo provvisorio redatto dalla Commissione per la Costituzione era il secondo comma dell’art. 50 (nella stesura definitiva sarebbe diventato l’art. 54), che così recitava: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino».
Superfluo dire che il comma fu soppresso, ma è interessante riandare all’argomento che in quella sede fu vincente in tal senso, e che in buona sostanza si riassume nell’intervento tenuto da Pietro Mastino: «Se è concepibile, sotto un punto di vista non solo dottrinario, il diritto alla resistenza e alla ribellione dell’individuo, è veramente audace fissare in una Costituzione, come diritto costituzionale, quello della resistenza e della ribellione collettiva. […] Concetti del genere sorsero sempre dopo periodi di rivoluzione, quando il popolo credette di potere trionfalmente affermare la propria vittoria. […] È ben naturale che oggi, dopo che l’Italia è risorta dal travaglio, dai sacrifici e dalla barbarie del periodo fascista, un concetto del genere riappaia anche nella nostra Costituzione. […] L’importante però è che noi questo concetto vogliamo affermarlo come diritto di resistenza politica. E io dico che dobbiamo affermarlo, ma sotto un’altra forma, e precisamente in quella che mi pare chiaramente espressa nell’emendamento che ho presentato, e cioè: “Ogni cittadino ha l’obbligo di difendere contro ogni violazione le libertà fondamentali, i diritti garantiti dalla Costituzione e l’ordinamento dello Stato”. Non è tanto un diritto, quanto un dovere; non è tanto un diritto accordato nell’interesse dell’individuo, quanto un dovere imposto nell’interesse della collettività. Soprattutto questo, onorevoli colleghi, porta ad una conseguenza pratica molto chiara, della quale dobbiamo sommamente preoccuparci: evitare la possibilità che sotto il pretesto della violazione delle libertà fondamentali e dei diritti garantiti dalla Costituzione si pretenda di sovvertire lo Stato, intendendo per Stato la Repubblica».
Ora, ciò che il secondo comma contemplava come diritto del cittadino non era l’insurrezione antirepubblicana, ma la resistenza all’oppressione dei pubblici poteri, laddove essi fossero responsabili del tradimento dei principi costituzionali: in altri termini, chiamava il cittadino all’esercizio attivo di una sorveglianza sul rispetto della Costituzione da parte dei rappresentanti dei poteri pubblici, ma non eludeva affatto il concetto che tale esercizio, per usare le parole di Pietro Mastino,«non [fosse] tanto un diritto accordato nell’interesse dell’individuo, quanto un dovere imposto nell’interesse della collettività». Non è difficile cogliere, dunque, ciò che parve «audace» in quel comma: vi era contemplata l’eventualità che il rispetto della Costituzione potesse venir meno da parte di chi aveva la possibilità materiale di violarne le norme o di disattenderne le indicazioni grazie al potere che gli era stato democraticamente conferito. Cosa possibile, ma difficile da mettere nero su bianco, e per ovvie implicazioni.
Le esplicitò Fracesco Colitto: «Non vi è dubbio che la norma si riferisce anzitutto al potere esecutivo. Ora certamente il cittadino ha sempre il diritto di opporsi al pubblico funzionario che, travalicando i limiti segnati dalla legge, conculchi il diritto del cittadino. […] Ma pubblici poteri sono anche il potere giudiziario ed il potere legislativo. Ora, in che cosa consiste il diritto di resistenza, allorché il pubblico potere è il potere giudiziario o quello legislativo? Il cittadino, secondo la norma di cui ci stiamo occupando, avrebbe non solo il diritto, ma addirittura il dovere di opporsi ad essi ove egli ritenesse di trovarsi di fronte ad una violazione di diritti garantiti dalla Costituzione? […] Contro la sentenza del magistrato io non vedo che i gravami tassativamente indicati dalla legge e contro la legge non so concepire resistenze di nessun genere. Per la legge non c’è, a mio modesto avviso, che l’obbedienza. […] Cosa significa che il cittadino ha il diritto di resistere alla legge? Può egli mai diventare il giudice del legislatore ed agire di conseguenza? […] Che interpretazione bisogna dare della norma, quando la si considera in relazione a quei particolari diritti, pure consacrati nella Costituzione? Si pensi al diritto al lavoro riconosciuto dalla Repubblica a tutti i cittadini; all’impegno, assunto dalla Repubblica, di assicurare alla famiglia le condizioni economiche necessarie, non solo alla sua formazione, ma al suo sviluppo; al diritto riconosciuto agli inabili al lavoro, sprovvisti dei mezzi necessari alla vita, di avere il mantenimento e l’assistenza sociale. Ora, nell’ipotesi in cui la Repubblica non abbia la possibilità di mantenere questi impegni, non abbia, cioè, la possibilità di pagare tante cambiali firmate in bianco, il cittadino avrà il diritto e il dovere, come dice la norma, di insorgere contro i pubblici poteri? Potrà insorgere contro il Parlamento, perché non fa le leggi, o contro il Governo, perché non le attua? A tutti questi interrogativi non avendo saputo trovare risposta convincente, noi abbiamo affermato, occupandoci di questo articolo, che ci sembra che esso consacri il diritto alla ribellione. Ed ecco perché ne chiediamo la soppressione. La sua applicazione pratica, nella realtà della vita, che è quella che è, e non quella che dovrebbe essere, potrebbe dar luogo a tali inconvenienti, a così strane ed impensate applicazioni, che certamente ne deriverebbe danno per la compagine sociale, che la Costituzione mira, invece, in ogni momento a salvaguardare».

La Costituzione è bella ma non sempre è applicabile, e poi  la vita è quella che è, vogliamo autorizzare il cittadino a prendersela con i poteri pubblici? Non sia mai detto. Non stupisce, dunque, giusto  sessantasei anni dopo, l’affermazione di Giuliano Pisapia («La violenza non è, non può mai essere di sinistra» –  la Repubblica, 23.5.2013): è sindaco, e a nessun sindaco piace affacciarsi al balcone e trovarci sotto una folla in subbuglio, meno che mai se il sindaco si dice di sinistra, e la folla pure. D’altronde non è il primo degli ultimi comunisti a ripudiare il subbuglio: «Oggi il massimo di radicalità si può esprimere solo con la nonviolenza – diceva Fausto Bertinotti – altrimenti […] diventa la fine della politica» (Nonviolenza, Fazi Editore 2004). Quell’«oggi»  ci aveva tanto intenerito: era una foglia di fico sulla tradizione marxista-leninista della violenza come «levatrice della storia». Poi, sentendolo dire che la nonviolenza non era solo possibile ma addirittura necessaria, perché, «se oggi dovessimo accettare la violenza, essa ammazzerebbe soprattutto noi», la foglia di fico era caduta: è che al marxismo-leninismo era diventato molto piccolo.
«I poteri pubblici violano le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione»? Che resta da fare a chi pensava di essere di sinistra, ma scopre che il diritto di resistenza all’oppressione dei pubblici poteri, per essere di sinistra, può essere solo nonviolenta, e, quando nonviolenta, è inefficace? «Cosa significa che il cittadino ha il diritto di resistere alla legge»? E a quale legge, eventualmente? E come?

La legge – la norma, la regola – ha due soli modi per venire al mondo: scendere dall’alto, in forma di precetto, o salire dal basso, in forma di convenzione. Nel primo caso, viene al mondo indicando un modello al quale è necessario adeguarsi perché espressione di un Vero, di un Giusto e di un Bello che sono superiori e antecedenti all’uomo, eterni, immutabili, indiscutibili. Nel secondo caso, invece, nasce come patto per rendere possibile la convivenza tra individui che differiscono tra loro, anche sensibilmente, per ciò che ritengono vero, giusto e bello. Nel primo caso, dunque, la legge avrà per fine una reductio ad unum: tenderà a omologare indoli, gusti e opinioni. Nel secondo caso, lascerà che gli individui conservino la loro individualità, salvo che quanto espresso da quella di ciascuno non sia di nocumento a quella altrui.
Non è difficile capire che tipo di società sia quella che si regge sulla legge come precetto, d’altronde è quella che conosciamo meglio. Solo da pochi secoli, infatti, si va facendo largo, e a fatica, l’idea che il Vero, il Giusto e il Bello altro non siano che il vero, il giusto e il bello secondo l’indole, il gusto e l’opinione di un’oligarchia, e che il modello al quale sarebbe necessario adeguarsi per rispettarli altro non è che l’espediente per consentire a chi vi appartiene di non perdere i propri privilegi. È per questo che la legge come convenzione trova enormi resistenze, né è detto che riuscirà a vincerle, perché l’interesse del più forte trova spesso un ottimo aiuto nella soggezione del più debole, premiata per millenni dalla legge come precetto.
Siamo capitati nel bel mezzo di questo scontro, noi contemporanei: da un lato, la strenua resistenza di un’oligarchia che non sembra affatto intenzionata a rinunciare ai propri privilegi, anzi, disposta in apparenza a rinunciare a tutti i propri privilegi tranne che a quello di decidere cosa sia il Vero, il Giusto e il Bello, perché in fondo è da questo privilegio che discendono tutti gli altri; dall’altro, la sempre meno timida offensiva delle moltitudini che hanno scoperto che la democrazia è stata tradita.

mercoledì 22 maggio 2013

Performance isterica col botto


Ignoravo l’esistenza di Dominique Venner, ho recuperato leggendo i 146 post del suo blog, in gran parte editoriali e articoli pubblicati su La Nouvelle Revue d’Histoire, di cui era il direttore. Tutto in poche ore, troppo poco ovviamente per poter esprimere un giudizio articolato sulla sua persona, e tuttavia, dovendo abbozzarne uno, direi che le sue idee non fossero poi tanto diverse da quelle che in Italia hanno trovato megafono ne Il Foglio di Giuliano Ferrara (non escluse le simpatie per il cattolicesimo come ultimo saldo baluardo all’avanzare di un mondo «tout pourris»). Era un conservatore in patente disagio nei confronti della modernità, convinto della possibilità di una «révolution conservatrice» in grado di fermare la «contagion de chaos», ma questo, a mio modesto avviso, non spiega il suo suicidio come forma di protesta all’approvazione della legge che da poco autorizza in Francia i matrimoni gay, neanche a voler prendere per buona quella necessità «des geste nouveaux, spectaculaires et symboliques pour ébranler les somnolences, secouer les consciences anesthésiées et réveiller la mémoire de nos origines», ai quali faceva cenno nel suo ultimo post. D’altra parte è stato proprio il suo editore, Pierre-Guillaume de Roux, a dichiarare: «Je ne crois pas que l’on puisse lier son suicide à cette affaire de mariage, cela va bien au-delà». Senza dubbio odiava quella legge, ma il suicidio non è stato deciso come protesta estrema alla sua entrata in vigore: pensava ci fosse di meglio («Une loi infâme, une fois votée, peut toujours être abrogée»).
E allora? Com’è da interpretare il suo atto estremo senza che entri in contraddizione con l’imperativo vitalistico che lo animava («Pas un instant je n’oublie les luttes du moment. Pas un instant je n’oublie les luttes du passé qui nous ont fait ce que nous sommes. Pas un instant je n’oublie qu’exister c’est se vouer et se dévouer, mais aussi lutter»)? Penso debba leggersi come gesto – insieme – estetico e politico: una rappresentazione plastica di rifiuto, una performance isterica col botto. A parte, poi, sarebbe opportuno interrogarsi – ma tutto sommato è superfluo, perché facilmente intuibile – cosa abbia reso mediaticamente suggestivo, dunque obbligato, almeno qui da noi, in Italia, il collegamento col matrimonio gay.   

martedì 21 maggio 2013

«Per ovvie ragioni di opportunità»


Tra un cattolico che obbedisce al Papa e un cattolico che obbedisce alla propria coscienza – è distinzione che s’è venuta a creare da quando il modernismo ha illuso certi cattolici che sia possibile pensare con la propria testa rimanendo cattolici – io preferisco il primo, senza alcun dubbio. È bello vederlo arrampicarsi sugli specchi per dare un senso a quell’obbedienza che non di rado è costretta a zigzagare da papato a papato, oggi a calcare l’accento sulla verità e domani sulla carità, l’altrieri sull’evangelizzazione come progetto culturale e dopodomani come testimonianza disarmata, sempre affannato ma sempre molto motivato, come uno stercorario che per nessuna ragione al mondo molla la sua pallina di merda. Il cattolico cosiddetto adulto, invece, mi fa pena. Dovrebbe sapere bene che non conta un cazzo, che al dunque è costretto a scegliere tra l’eresia o il ficcarsi la lingua in culo, e tuttavia ci prova: è convinto di poter decidere per sé, anzi, spesso pretende di spiegare al Papa come si fa il Papa. È che ha studiato, poverino, e ha maturato opinioni in campo teologico che quasi sempre hanno il verme dentro; spontaneamente – e spesso, ahilui, incoercibilmente – gli spuntano in testa progetti di ecclesiologia che fanno orripilare le gerarchie; soprattutto – ed è il peggio – ha quasi sempre la mania dell’autonomia dei cattolici in politica, che è come dire a quelli della Segreteria di Stato Vaticano: «Silete theologi in munere alieno». Più che naturale si ritrovi con le tibie rotte. Dossetti, per esempio. Se non fosse stato cattolico, avrebbe potuto con profitto applicare il metodo leninista all’azionismo, e avrebbe fatto la sua porca figura, tra Evola e Bordiga, sull’album delle nostre patrie figurine. E invece gli andò male, com’era ovvio. Con la coda tra le gambe, via, in convento. Tutto il contrario di Andreotti, che però partiva avvantaggiato dall’avere tutte le ambizioni tranne quella di millantare una coscienza tutta sua, poi maturò del tutto con la lezione di cosa accade a un De Gasperi quando si azzarda a dire no a Pio XII.

Tornando a Dossetti. È arrivato in libreria da qualche mese un delizioso libricino di Alberto Melloni (Dossetti e l’indicibile, Donzelli Editore 2013), appassionato studio di un cattolico adulto su un cattolico adulto, indagine sul numero di Cronache sociali che doveva uscire alla vigilia dell’elezioni politiche del 1948, e non uscì mai. Sarebbe stato dirompente, pare. Avrebbe posto «in maniera tagliente» – assicura Melloni – «il nodo teologico, canonico e politico dell’autonomia dei cattolici impegnati nella vita pubblica». Puf, scomparso, c’è voluto lo scavo del Melloni per riportare alla luce una decina degli articoli che avrebbero dovuto essere su quel numero. Come mai quel numero di Cronache sociali non vide mai la luce?



Melloni non sa dare una risposta, si limita a dire che  «chi oggi legga quel quaderno» non può fare a meno di avvertire l«indicibile pressione [che quegli scritti esercitavano] sul sistema ecclesiastico». Può darsi. Di fatto, in un’antologia della rivista (Cronache sociali 1947-1951, Landi Editore 1961) trovo a pag. 1073 (vol. II) una nota della curatrice, Marcella Glisenti, figlia di quel Giuseppe Glisenti che ne fu il direttore, e che proprio a quel fascicolo fa riferimento.


Così pare che l’«indicibile pressione sul sistema ecclesiastico» causò una prudentissima autocensura: timore di premere troppo, probabilmente. O paura di ritrovarsi spremuti?