Sono
stato un po’
precipitoso nella decisione di oscurare i commenti fin qui lasciati
su queste pagine dai miei lettori, me lo fa presente chi, con una
email giuntami poco fa, mi ragguaglia a dovere sulla sentenza della
Corte di Cassazione che mi ha mosso a così grave passo, e di cui avevo
colpevolmente letto solo la sintesi riportata da repubblica.it, che
pure riportava il link al suo testo integrale, senza tuttavia far
cenno nel corpo dell’articolo
al punto che ritengo sia da ritenersi essenziale: la condanna è
motivata dalla mancata rimozione di un commento contenente offese ai
danni di un tizio che ne aveva fatto esplicita e diretta richiesta al
titolare del sito, non già dal fatto che costui avesse dato assenso
alla pubblicazione. In sostanza, al titolare del sito non è stato
addebitato quanto scritto dal commentatore, né il non aver censurato
il commento quand’era
in moderazione, ma il non aver provveduto a cancellarlo quando ciò
gli è stato richiesto. Almeno per quanto mi riguarda, questo cambia
in modo radicale i termini della questione, consentendomi di rivedere la mia decisione con la seguente dichiarazione d’intento:
chiunque possa sentirsi offeso dal commento che un lettore ha
lasciato su queste pagine, e che io – chissà come, poi – possa
aver pubblicato per non aver colto il suo contenuto offensivo, non ha
che da segnalarmelo, e assicuro che sarà subitamente rimosso –
entro le 24/36 ore, diciamo – quand’anche
della supposta offesa dovessi intravvedere la sola ombra.
martedì 3 gennaio 2017
lunedì 2 gennaio 2017
Avviso ai naviganti
Una
sentenza della Corte di Cassazione, di cui prendo notizia oggi da
repubblica.it, dichiara che il titolare di un blog è responsabile di
quanto contenuto nei commenti dei lettori ai suoi post.
Nell’impossibilità di assumermi
tale onere, che ritengo indebito, in ciò confortato da una pronuncia
della Corte europea dei diritti dell’uomo,
mi vedo costretto a oscurare i commenti che fin qui sono stati
lasciati su queste pagine, ancorché da me approvati solo quando mi
sembrassero esenti da contenuti illeciti. Nell’impossibilità
di fare altrettanto col blog di cui sono stato titolare su un’altra
piattaforma dal 2004 al 2010 (su Il Cannocchiale, almeno a quel
constato, la funzione che sospende i commenti non oscura quelli già
approvati), mi vedo altresì costretto a chiuderne l’accesso.
Coincidenza vuole che tutto questo accada a meno di due ore dalla
pubblicazione del post che troverete qui sotto, nel quale paventavo
gli inevitabili effetti collaterali di una crociata contro qualsiasi opinione liquidabile come post-verità da chi della verità si sente insieme servo e padrone. Sarà paranoia, sono disposto a concederlo, ma mi pare
si vada di gran passo verso l’istituzione
di un Ministero della Verità col cominciare a dargli gli
indispensabili strumenti dell’intimidazione.
Qualsiasi obiezione sollevasse quel che da oggi in poi sarà pubblicato su queste pagine mi potrà essere fatta presente via e-mail, l’indirizzo è qui a fianco: ne darò conto, con eventuale controbiezione nel caso, in un aggiornamento al post in oggetto.
Qualsiasi obiezione sollevasse quel che da oggi in poi sarà pubblicato su queste pagine mi potrà essere fatta presente via e-mail, l’indirizzo è qui a fianco: ne darò conto, con eventuale controbiezione nel caso, in un aggiornamento al post in oggetto.
Verità e post-verità
Solitamente
la fortuna di un neologismo si è sempre misurata sull’ampiezza
e sulla durata che il suo impiego riusciva a conquistare, sicché
in passato trovava registrazione solo dopo aver adeguatamente
consolidato la sua posizione nel linguaggio corrente. Si pensi, per
esempio, a «nostalgia», termine coniato
nel 1688, che deve tuttavia attendere più di un secolo per
essere trovato sulle pagine di un dizionario.
Di
pari passo a una percezione del tempo e dello spazio che si andava
sempre più rapidamente evolvendo rispetto a quella del passato, la
fortuna di un neologismo è venuta sempre più spesso a misurarsi
sulla velocità e la forza con le quali se ne diffondeva l’uso,
al punto da convincere anche i più sussiegosi difensori della
lingua a introdurre nel lemmario certi termini che, dopo un
prepotente erompere nel discorso pubblico, spesso diventano
rapidamente desueti, per poi essere rievocati quasi esclusivamente
come cifra di un particolare momento storico. Anche qui potrà
tornare utile un esempio, e il primo che mi viene in mente è quel
«cristargare» che a cavallo tra i
Settanta e gli Ottanta del secolo scorso venne a indicare il
riprodurre la targa automobilistica sui cristalli di una vettura in
modo da scoraggiarne il furto.
Se
qualcosa ci è lecito asserire riguardo al come un
neologismo trova fortuna, ancorché effimera, più
difficile è tentare di capire cosa gliela dia, e questo per la
semplice ragione che la parola solitamente si adatta alla cosa che
intende rappresentare attraverso un processo di reciproco aggiustamento, dato il continuo, seppur talvolta impercettibile, mutare
di entrambe, mentre invece il neologismo pretende di cogliere il
senso di qualcosa che spesso è tutto in fieri, spesso assegnandogli
il senso che non di rado è tutto nella previsione di quel che sarà
il factum, che mostra tutto il limite di una scommessa. Per questo,
quando qualcosa che ci appare nuovo cerca un nome altrettanto nuovo,
la fortuna premierà quello in grado di rappresentarne in modo più
efficace l’indeterminatezza
col ricorso a formule che hanno la pretesa di dare ineffabilità
al vago.
Così
mi pare stia accadendo con la «post-verità», dove il prefisso sta
per «dopo», ma anche per
«dietro», indicando nel contempo qualcosa che verrebbe dopo la
verità, come sua trasformazione in altro, o che le starebbe dietro,
usandola come una maschera. In entrambi i casi, dato il valore
assoluto che si tende a dare alla verità, il termine suona
inquietante, perché implica un inevitabile sminuirsi di quel valore
o, peggio, il suo usurparlo da parte di ciò che, per l’essere
anche solo in minima misura lontano dal vero, è inevitabilmente
falso, dunque scopertamente insidioso.
In
questo porsi dinanzi a un termine del genere pare diventi del tutto
secondario chiedersi se si abbia modo di avere qualche solida
certezza su cosa sia la verità: tutti riteniamo di sapere cosa sia,
almeno quando non ce n’è chiesta la definizione. Le cose si
complicano terribilmente quando siamo costretti a fornirne una, senza
la quale un termine come «post-verità» diventa ancor più
indefinibile di quello che vuol essere per illuderci di aver con esso
colto la sostanza che si vuole assegnare a una particolare e nuova
specie del falso. In altri termini, direi che vero e falso cercano
nella «post-verità» una ridefinizione che risponda al meglio ai
nuovi modi in cui essi ci si ripresentano dinanzi, senza peraltro
poter pretendere di riuscirci, perché non possono riproporsi alla
nostra attenzione senza il carico di ambiguità che li
contraddistingue in radice.
Il
fatto è (e qui riprendo una mia riflessione di qualche tempo fa) che
ogni
definizione di verità
è
una tautologia. Tautologia più o meno manifesta, ma tautologia. Si
va dalla tautologia dichiarata tale col definirla «l’essere
vero»
(De
Mauro) o «ciò
che è vero»
(Treccani), a quella che va in cortocircuito con un termine facente
funzione di sinonimo, per più con realtà,
e allora la verità diventa la «aderenza
alla realtà»
(Palazzi)
o la «rispondenza
piena e assoluta con la realtà effettiva»
(Devoto-Oli)
o, ancora, la «conformità
a una realtà obiettiva»
(Treccani),
dove questa realtà
rimanda
inevitabilmente al vero,
in quanto «qualità
e condizione di ciò che è veramente»
(Palazzi).
Quando
poi dal tentare di definire la verità
si
passa ad analizzare le sue accezioni in ambito filosofico e
scientifico, teologico e linguistico, logico e psicologico, le cose
non vanno meglio, perché «non
c’è una definizione univoca su cui la maggior parte dei filosofi
di professione e gli studiosi concordino, e varie teorie e punti di
vista della verità continuano ad essere discussi»
(Wikipedia),
e perché in ciascun ambito il termine va assumere un significato che
risulta inservibile in un altro.
Si
prenda, per esempio, il significato di verità
per
un teologo come Tommaso, che la ritiene coincidente all’Essere e in
pratica assimilabile a Dio: sarà accezione praticamente inservibile
per un epistemologo come Peirce, che la ritiene il risultato di un
accordo di un determinato gruppo di soggetti, su un determinato
assunto, in un determinato spazio, in un determinato lasso di tempo.
Oppure si prenda il suo significato per un matematico come Gödel,
per il quale non tutto ciò che è vero
è
anche dimostrabile: del tutto incompatibile con la definizione che di
verità
dà
un logico come Frege, secondo il quale il vero
è
categoria illusoria.
Non
va meglio neppure trasferendo interamente il vero
al
reale,
per tenercelo, perché la realtà
è
maledettamente sfuggente ad una percezione che voglia dichiararsi
qualitativamente e quantitativamente assoluta e tradursi in
conoscenza oggettiva: offrirà in se stessa gli strumenti per
valutare la congruenza tra un aspetto del reale e un suo
corrispettivo, in ciò che dunque avrà efficacia di mera
dimostrazione di una congruenza interna ad un sistema, del quale però
la conoscenza soggettiva è parte inalienabile. E così la realtà
sarà
comprensibile, ma mai interamente, né sarà mai possibile ridurla a
pura oggettività, perché ad essa è connaturata la frammentarietà
della percezione e della comprensione relativa, che non può mai
tradursi in conoscenza assoluta.
È
in questo punto, che poi è quello dove ci si dovrebbe arrendere
all’impossibilità dell’onniscienza, dell’impossibilità di
rappresentarci il vero
al
di fuori di uno spazio soggettivo, che nasce la trascendenza. Con
essa si fa strada in molti l’idea che l’assoluto sia una meta e
che la verità sia un fine. Tutto è promesso all’uomo in una
verità assoluta, tutto gli è chiesto in cambio di quella. Quasi
sempre, allora, accade che il soggettivo, per questa sua vorace fame
di assoluto, cerchi di imporsi come oggettivo, non di rado con mezzi
assai opinabili, assai opinabilmente giustificati dalla bontà del
fine, tutto illusorio.
È
che forse dovremmo sbarazzarci di una parola come «verità»
o usarla in modo assai più cauto, perché a darle il significato di
qualcosa indiscutibile si corre il serio rischio di conferire a
qualcuno l’autorità
di impedire ogni discussione su cosa sia vero e cosa no, il che è
già di per sé una negazione della verità, almeno a intenderla come
risultato sempre parziale, sempre imperfetto, di una conoscenza che
ha negli stessi suoi strumenti gli invalicabili limiti.
Dichiarazione
di scetticismo radicale? Tutt’altro.
Direi sia solo un monito a non fidarsi mai della piena
intelligibilità di un factum, tanto meno quando è ancora in fieri:
ogni sua comprensione è giocoforza incompleta, perché quello che ce
lo ridà è sempre un modello, che raramente si rivela
incorreggibile, e questo vale per tutto ciò che si fa oggetto della
conoscenza, dall’infinitamente
piccolo all’infinitamente
grande, passando per quello che c’è
in mezzo: quando la conoscenza non ha timore di abbandonare un
modello per adottarne un altro che sembri più adeguato alla
comprensione, diventa inevitabile considerare la transitorietà di
quella che fino a quel momento si era commesso l’errore di reputate
come ultima e inemendabile verità sulla tal cosa, sulla tal persona,
sul tal accadimento. Con
ciò dovrebbe apparire sufficientemente ridicolo l’uso
di un termine che è immancabilmente appiccicato a ciò che si
ritiene definitivamente acquisito, poco importa se in forza delle
nostre personali convinzioni o di quelle di un’autorità
cui conferiamo il potere di pensare per noi, e invece spesso ne
facciamo perfino abuso, per costruirci sicurezze che vengono
regolarmente spazzate via dal semplice cambiamento di prospettiva che
consegue al costante mutare del tempo e dello spazio che sono le
coordinate del nostro essere. Si dovrebbe rinunciare a parlare di
«verità» per ciò che hic et nunc ci sembra indiscutibile: sarebbe
di gran lunga meno pericoloso l’uso
di un termine come «comprovabilità», che all’assunto
altrimenti definito «vero» conferisce un valore di affidabilità
esclusivamente sulla possibilità di controllo, convalida e
condivisione che è nella facoltà di chiunque sia disposto a
rispettare le elementari leggi della logica, che trasposte sul piano
dell’argomentazione
sono le sole a poter dar ragione di ciò che è corretto, in quanto
poggia su premesse incontestabili, valido, perché rifugge da
tautologie o contraddizioni, e persuasivo, come efficace risultato
del processo che ne articola lo sviluppo in un’affermazione.
Sostanzialmente si tratterebbe di adottare il metodo scientifico per
tutto ciò che liquidiamo troppo sbrigativamente come «vero» o
«falso». Ve ne sarebbe anche per poter rinunciare a parlare di
«post-verità», che almeno a voler prendere per buona la
definizione che ne è comunemente data, sarebbe «una notizia
completamente falsa, ma che, spacciata per autentica, è in grado di
influenzare una parte dell’opinione
pubblica» (Wikipedia): c’è
già un termine che risponde a questa descrizione, ed è «fattoide».
Preferirlo a «post-verità» presenta almeno due vantaggi. Il primo
è che ci consente di evitare l’implicita
assunzione di categorie come «vero» e «falso» che pressoché costantemente esigono il ricorso a un’autorità
che è da presupporsi onnisciente. In secondo luogo, il «fattoide»
include anche quella minima deformazione del factum come
effettivamente comprovabile (sul quale, cioè, sia possibile il
controllo, dandogli convalida e perciò rendendolo condivisibile) che
comunque è in grado di alterarne il senso.
Stabilito
che una «post-verità» non è altro che un «fattoide», e che con
«fattoide» perde la pericolosità che assume nel reclutare
difensori di una «verità» che non deve mai essere messa in
discussione, c’è
da considerare perché si sia sentita la necessità di coniare –
chiedo scusa per il bisticcio – un nuovo neologismo per qualcosa
che è sempre esistito, almeno fin da quando si è spacciata per
autentica la notizia completamente falsa che l’uomo
sia un mix di fango e alito di Dio, con la conseguente influenza su
gran parte dell’opinione
pubblica. Forse è proprio il ricorso al prefisso «post-» a
potercene dare una ragione, pensando a quale funzione sia chiamato
per altri neologismi che pure lo sfruttano per dare al termine cui è
legato, quasi sempre con più efficace resa di significato, che
comunque sembra deliberatamente conservare un che di ambiguo se non
di vago, il senso di qualcosa che di quel termine indica il
superamento, la revisione, l’evoluzione
in altro che, se non ne è la negazione, ne è almeno la
riconsiderazione in chiave critica, se non addirittura polemica,
quasi sempre a decretarne la crisi («post-modernità»,
«post-democrazia», ecc.). Se questa interpretazione coglie nel
segno, diremmo che la «post-verità» viene sentita come una seria
minaccia per la «verità», con la quale concorre in persuasione.
Tanto più seria, questa minaccia, perché mostra di riuscire a
ottenere incredibili successi che resistono perfino alle
inoppugnabili smentite di quello che ha spacciato per «vero»
e poi è stato dimostrato «falso».
Come
è possibile che questo accada? La domanda assume con sempre più
frequenza toni preoccupati, muovendo a chiedersi cosa vi possa metter
freno. Giacché poi si dà per pacificamente assodato che la
«post-verità»
nasca nel web, e lì acquisti forza, fino a esorbitarne, per andare
ad adulterare la «verità»
perfino nei santuari in cui fino a poco tempo fa essa era custodita
con venerazione e difesa senza eccessiva fatica, la soluzione sembra
dover essere trovata nel ucciderla sul nascere, e lì dove prende
vita. Soluzione necessariamente violenta, questo è ovvio, ma come
non ritenerla sacrosanta, questa violenza, visto che è in difesa
della «verità»? Dando questo nome a ciò che si ritiene anteriore
e superiore all’interpretazione
del factum, la sua interpretazione consolidata può ben dirsi
trascendente. Altra cosa sarebbe chiamare «fattoide» il factum che
non regge al saggio di comprovabilità, e faticare quanto dovuto a
mostrarne l’infondatezza, e dunque l’inattendibilità:
significherebbe scendere nell’agone
fidando nella bontà dei propri argomenti, ad averne di corretti,
validi ed efficacemente persuasivi. La tentazione di usare la
violenza è comprensibile, quando non si è certi di averne o quando, pur certi che siano validi e corretti, si dispera possano essere anche persuasivi.
Ci sarebbe un’altra soluzione, ma imporrebbe un cambiamento di prospettiva: da «come può, il falso, sembrare vero?», la domanda dovrebbe esser posta in altro modo: «come può, l’agorà, farsi persuasa al falso più che al vero?». Superando le categorie di «vero» e «falso», la domanda non è difficile: giacché la persuasione non è che la resa alla forza di un argomento, vi sono condizioni nelle quali questa resa si può più facilmente ottenere grazie a una fallacia che a un retto argomento. Ma cosa caratterizza queste condizioni? L’alta vulnerabilità a strumenti retorici di forte impatto, ancorché invalidi e scorretti. E cosa determina tale vulnerabilità? Un perdurante stato di soggezione a «verità» che per affermarsi si sono servite proprio di tali strumenti. In conclusione, occorre riconoscere che la tendenza a credere in qualcosa che non ha i requisiti di «comprovabilità» non è altro che il prodotto di una lunga storia che si è data solco nella indiscutibilità di alcune «verità»: non si riesce a far troppa differenza tra «verità» e «post-verità» quando non si è avuta educazione a ragionare.
Ci sarebbe un’altra soluzione, ma imporrebbe un cambiamento di prospettiva: da «come può, il falso, sembrare vero?», la domanda dovrebbe esser posta in altro modo: «come può, l’agorà, farsi persuasa al falso più che al vero?». Superando le categorie di «vero» e «falso», la domanda non è difficile: giacché la persuasione non è che la resa alla forza di un argomento, vi sono condizioni nelle quali questa resa si può più facilmente ottenere grazie a una fallacia che a un retto argomento. Ma cosa caratterizza queste condizioni? L’alta vulnerabilità a strumenti retorici di forte impatto, ancorché invalidi e scorretti. E cosa determina tale vulnerabilità? Un perdurante stato di soggezione a «verità» che per affermarsi si sono servite proprio di tali strumenti. In conclusione, occorre riconoscere che la tendenza a credere in qualcosa che non ha i requisiti di «comprovabilità» non è altro che il prodotto di una lunga storia che si è data solco nella indiscutibilità di alcune «verità»: non si riesce a far troppa differenza tra «verità» e «post-verità» quando non si è avuta educazione a ragionare.
giovedì 29 dicembre 2016
Meno male, va’
Presi
come eravamo
dallo scannarci su una questione tutto sommato frivola quale era la
revisione di una quarantina di articoli della Costituzione, non
abbiamo dato la dovuta attenzione a quella che sarebbe stata la più
grave conseguenza di una vittoria del No, anzi, se proprio vogliamo
essere onesti, nemmeno l’abbiamo
presa in considerazione, e ora eccoci a doverne sopportare il peso sulla coscienza: anche se non ha tenuto fede all’impegno
di abbandonare ogni attività politica nel caso in cui la sua riforma
costituzionale fosse stata bocciata – cose che si dicono, via – a
Renzi è bastato dimettersi dalla Presidenza del Consiglio per
restare senza uno stipendio: non è parlamentare, lo statuto del Pd
non contempla una mesata per il Segretario, Nardella non può
restituirgli Palazzo Vecchio come Gentiloni gli ha promesso di fare
con Palazzo Chigi, né il babbo può riassumerlo perché intanto la
Chil post ha avuto un crac: «non
ho uno stipendio, non ho un vitalizio»
– scrive su Facebook – un esodato, insomma, ma a considerare
l’esiguità
delle misure che il suo governo ha preso in favore delle famiglie
monoreddito, la faccenda non pone alcun problema: a casa
Renzi uno stipendio arriva, perché sulla Gazzetta Ufficiale era
ancora fresco l’inchiostro
con cui era andata in stampa la Buona Scuola, quella che dà ai
presidi la discrezionalità della chiamata diretta, e l’Agnese
fu chiamata, e assunta a tempo indeterminato, per merito
naturalmente, honni soit qui mal y pense, un po’
come capitò al babbo della Boschi, che fu chiamato alla
vicepresidenza di Banca Etruria quando la figlia diventò ministro,
ma solo 3'16" dopo, a svergognare ogni malevola insinuazione.
D’altra
parte le foto di Chi danno ragione alle politiche economiche del
governo Renzi: anche con un solo stipendio, in Italia, nessuna famiglia resta
senza pandoro, a Natale. Questo in gran parte ci consola, perché è vero che, votando No, abbiamo lasciato Renzi senza stipendio, ma per fortuna il paese
ha degli ottimi ammortizzatori sociali. Non si lamentassero, ’sti disoccupati.
Pazienza
Su
queste pagine mi sono misurato in diverse occasioni con quelle
congetture più o meno balzane che di tanto in tanto propongono
letture alternative di grandi opere d’arte
del passato, per lo più con la pretesa di rivelarci messaggi che gli
autori avrebbero voluto celare in esse con tale cura da averne fin lì
impedito la lettura a intere generazioni, per ragioni che spesso
restano senza spiegazione anche dopo la rivelazione, mentre talvolta
ne vengono fornite di così bislacche da far miseramente rovinare
l’impianto
dell’ipotesi
avanzata, già di per sé assai instabile, per quanto in certi casi
di qualche indubbio fascino.
Quanta buona fede vi sia nel credere di
aver fatto una sconvolgente scoperta del genere è questione che si
potrebbe pure ritenere irrilevante, ma che assume il suo bel peso nel
constatare che quasi sempre l’opera
d’arte
e il suo autore sono famosissimi: mai una volta che la scoperta sia
relativa all’opera
di un autore minore, la rivelazione pretende sempre di fare il botto
su Leonardo, su Michelangelo, su Caravaggio, d’altronde
a chi mai potrebbe interessare il reale significato di quel «nemo
in patria sua aceptus»
che si legge sullo zoccolo della gabbia in cui è rinchiuso un
pappagallo nella tela di Pier Francesco Cittadini (1616-1681)
riprodotta a pag. 39 del numero di ottobre 2013 della
casa d’asta Dorotheum e messa all’incanto al vil prezzo di base
di soli 25.000 euro? Per il professor Alberto Cottino «the
inscription may refer to the sitter or the collector, possibly a
refugee from another country or italian state, who commissioned the
present painting», ma – beccatevi ’sto scoop – non è così:
posso dimostrarvi in meno di 12.000 battute spazi inclusi che il
riferimento è al Canto XIII dell’Adone
di Giovan Battista Marino, nel quale Adone è trasformato appunto in
pappagallo da Falsirena.
Scherzavo, se non si è capito. Volevo solo
farvi un esempio di come una scoperta del genere otterrebbe solo una tiepida pioggerellina di «e ’sti cazzi!». Altra cosa, converrete, se
avessi detto che ho le prove che furono gli alieni a suggerire a
Leonardo il progetto di quello che tutti fin qui hanno pensato fosse
un prototipo di carrarmato.
Molti mi manderebbero a cagare, qualche
mattocchio potrebbe prendere per buoni i miei argomenti, ma in ogni
caso avrei ottenuto l’attenzione che volevo. In questo genere di scoperte, in fondo, è attiva la stessa vis creativa che interpreta un accadimento come il risultato di un complotto: impossibile negarlo senza con ciò dimostrarsene vittima o, peggio, complice, mentre l’onere della prova inconfutabile pare che passi da chi prospetta l’ipotesi a chi la rigetta, e nessuna obiezione è mai del tutto valida a rigettarla, perché in fondo chi può portare prove inoppugnabili che gli alieni non esistano e non abbiano suggerito a Leonardo il progetto di quella che in realtà è una navicella spaziale? Perché ti ostini a escluderlo?
Così
temo sia accaduto per chi ha creduto di poter dimostrare che, nella
Creazione
di Adamo
affrescata
sulla volta della Cappella Sistina, Michelangelo Buonarroti abbia
voluto «inscrivere
il gruppo di Dio e degli angeli nella sagoma di un cervello umano».
Sulla questione mi sono già intrattenuto con un post (La
bufala di Michelangelo neurologo
– Malvino, 9.2.2014) che a oltre due anni e mezzo dalla sua pubblicazione –
così mi avverte la pagina delle statistiche di accesso al blog –
continua a esser molto letto e linkato qui e lì, ricevendo critiche
che penso possano essere ben riassunte dall’ultimo
dei commenti al post, di appena due giorni fa, che qui riporto
integralmente: «Mi
scusi, ma il fatto che una prima descrizione anatomica del cervello
sia stata pubblicata a stampa nel 1664 non significa che prima di
quella data (anche molto prima) tali studi anatomici non erano stati
fatti. Anzi, proprio perché la prima grande pubblicazione in materia
avvenne nella seconda metà del XVII secolo, mi sembra molto
probabile che gli studi fossero iniziati da almeno un secolo. È vero
non ci sono prove che Michelangelo conoscesse la forma della sezione
sagittale del cervello, ma fossi in lei non liquiderei la questione
solo avendo a disposizione come argomentazione che il Cerebre Anatome
fu pubblicato nel 1664. La
somiglianza con il cervello, una volta fatta notare è sorprendente.
Potrebbe essere pareidolia ma potrebbe anche non esserlo. Questo
fatto non andrebbe bollato come bufala, tutt’al
più come una congettura» (Boulayo). Toni civili. Argomenti che, pur trascurando molto di quanto da me ampiamente spiegato in quel post, meritano comunque di essere presi in considerazione. E dunque.
Inizierei dalla fine, perché è lì che mi pare ci sia il fondamento della questione, che poi è quella relativa al metodo che dà o non dà solidità a una congettura. «Potrebbe essere pareidolia ma potrebbe anche non esserlo», dice Buolayo. Certo, ma a chi tocca l’onere della prova per escludere che lo sia? E cosa impedisce di chiamarla bufala quando l’ipotesi non regge, e tuttavia non viene ritirata? Quando la congettura è fallace già in premessa, non assume forse modo e fine dell’affermazione ingannevole? E non è forse sulla verosimiglianza di quanto si afferma che l’inganno può sperare di andare a segno?
Mai poi è davvero così «sorprendente» la somiglianza tra le linee che compongono il disegno della Creazione di Adamo relativamente al gruppo di Dio con gli angeli e quelle che si osservano sulla sezione sagittale mediana di un cervello umano? Il manto che fa da sfondo al gruppo ha senza dubbio un forma che in parte – ma solo in parte – può essere sovrapponibile al contorno della massa cerebrale, ma, se è per questo, anche a quello della conchiglia di un lamellibranco Pecten jabobeus: cosa impedirebbe, a questo punto, di ipotizzare che Michelangelo abbia voluto dare del mollusco al Padreterno?
Nelle linee che compongono il disegno della Creazione di Adamo relativamente al gruppo di Dio con gli angeli, dove sarebbe il cervelletto? E il Ponte di Varolio? E perché l’asse del corpo calloso è spostato così in alto? Perché il bulbo mesencefalico ha forma tanto diversa?
Ma trascuriamo tutto questo, perché chi a ogni costo vuol vedere la faccia di Padre Pio in una macchia di umidità sul soffitto di una cantina difficilmente può essere convinto che si tratta di un’infiltrazione d’acqua dovuta allo scarico del bidet che perde al piano di sopra. Veniamo alla materiale possibilità che Michelangelo avesse entro il 13 ottobre del 1512, data di completamento dei suoi affreschi della volta della Cappella Sistina, nozioni di anatomia del cervello umano relativamente alla sua sezione sagittale mediana.
Una decente descrizione di questa sezione si ha soltanto nel 1664, con Willis. Prima ci sono Vesalio, Varolio, Cartesio, Malpighi, ma tutti arrivano dai 30 ai 110 anni dopo la descrizione che Michelangelo ne darebbe nella Creazione di Adamo. E tuttavia, sì, gli studi anatomici sul cervello umano sono di molto antecedenti. Ve n’è, fra questi, qualcuno che possa aver fornito al Buonarroti le nozioni necessarie a «inscrivere il gruppo di Dio e degli angeli nella sagoma di un cervello umano»? In fondo non gli erano contemporanei degli studiosi che ci hanno lasciato i risultati dei loro studi di anatomia cerebrale? Quel Berengario da Carpi, per esempio. Non è che dia una descrizione della sezione sagittale mediana, ma non fornisce indicazioni per desumerla almeno con qualche approssimazione?
Sì, peccato però che pubblichi le sue scoperte solo dieci anni dopo che Michelangelo ha affrescato la volta della Cappella Sistina, e non c’è notizia che si siano mai incontrati.
Leonardo, allora. Forse che Leonardo non ha lasciato risultati dei suoi studi anatomici? I due, poi, si conoscevano.
Certo, peccato però che si detestavano. Una vecchia ruggine relativa al David. Michelangelo non perdonò mai a Leonardo di aver trattato con sufficienza, e sufficienza è dir poco, quel bel tocco di marmo. «Ohilà, messer Buonarroti, che piacere vederla qui a Roma. Perché stasera non viene a desinare meco? Ho da farle vedere i miei studi anatomici sul cerebro umano, così poi, nel caso, ci cava qualche idea pe’ le su’ cosucce, che ne dice? Se non ci si dà una mano tra noi sodomiti...». No, pare poco credibile.
Ma poi perché su questa benedetta sezione sagittale mediana del cervello non c’è uno straccio di descrizione fino a XVII secolo inoltrato? L’ho già scritto: fino alla «prima metà del Cinquecento si sapeva poco o nulla dell’anatomia del cervello, e per una semplicissima ragione: non si era ancora giunti ad approntare un valido allestimento del tessuto cerebrale in grado di consentirne lo studio macroscopico. Trattandosi di un organo che va incontro a fenomeni degenerativi in tempi brevissimi dopo il decesso, all’apertura della scatola cranica gli anatomisti dell’epoca trovavano al più solo un’informe poltiglia. Non è un caso, infatti, che fino alla metà del Seicento gli studi anatomici relativi al sistema nervoso centrale rendessero conto solo delle formazioni più resistenti ai processi putrefattivi post mortem, come i nervi cranici e il tronco encefalico, mentre il rilievo delle formazioni incluse nelle masse emisferiche trova solo riscontro occasionale e per giunta controverso». Dice niente il fatto che quanto di meno controverso v’è riguardi esclusivamente l’architettura del sistema liquorale?
Ma questo mi rendo conto che non possa bastare a dissuadere definitivamente chi abbia a cuore sostenere la solidità della congettura di un Michelangelo neurologo. Pazienza.
lunedì 26 dicembre 2016
[...]
Non
riesco a trovare sugli ultimi numeri dell’edizione
cartacea de Il
Foglio
l’articolo
datato 22.12.2016 a firma di Giuseppe Bedeschi cui mi rimanda il link
allegato a un tweet col quale @ilfoglio_it
lo segnala alle 9:20 del 26.12.2016, e già questo m’instilla un po’
d’inquietudine:
non l’ho
trovato perché so’
cecato o s’è
consumata l’imperdonabile
scostumatezza di negare l’imprimatur
a un accademico di così preclara fama? Nulla rispetto
all’inquietudine
che monta in me scorrendo l’articolo, e che provo a rintuzzare
ipotizzando che il Giuseppe Bedeschi che l’ha scritto sia un
omonimo, semmai un nipote, del cattedratico che per decenni si è interessato del pensiero
liberale. Questo qui, infatti, scrive che «la
nostra Costituzione non parla di potere giudiziario, bensì di
“ordine giudiziario” (art. 104)»,
ma quando lo stesso articolo prosegue dichiarandolo «autonomo
e indipendente da ogni altro potere»,
quell’«altro»
non
gli conferisce levatura pari a quella del potere legislativo e di
quello esecutivo? Donde nasce, d’altronde, la classica
tripartizione che sta a fondamento dello stato di diritto se non dal
distinguere e separare le tre funzioni della sovranità che invece
ogni forma di dispotismo vuole indivisibili? Ed è credibile che
questa separazione possa dirsi bilanciata, com’è fin dallo scopo
che essa si dà, con l’assegnare potere solo a due delle tre parti
in cui la sovranità va suddividersi?
Il Bedeschi che firma il
pezzo su ilfoglio.it,
omonimo o nipote che sia del Bedeschi che ha consumato tutta la sua
vita nello studio del pensiero liberale, dice che su questo tavolino
a tre gambe, di cui una dev’essere più corta delle altre due,
lo stato di diritto reggerebbe bene lo stesso, anzi addirittura meglio.
D’altra parte, aggiunge, Montesquieu non lo si è mai letto come si
deve, e «molto
erroneamente gli si attribuisce una dottrina della “divisione dei
poteri”»,
perché
ne
De
l’esprit des lois
tratta del potere giudiziario «con
molta circospezione».
Sia, passiamo a considerare in cosa consista, questa «circospezione»,
ma prima sia lecita una domanda: mentre, tutto circospetto,
Montesquieu affronta la questione, smette mai di dire che quello
giudiziario è un potere? Mai. Nel solo Capitolo VI del Libro XI, quello nel quale si affronta di petto la questione della tripartizione, l’espressione
«potere
giudiziario»
ricorre almeno quattro volte, se non so’ cecato e non me n’è
sfuggita una quinta. Ed è vero che Montesquieu lo vorrebbe, «per
così dire, invisibile o nullo»,
come l’articolo
su ilfoglio.it
ci rammenta, ma in un contesto nel quale – qui il Montesquieu lo
cito io – «uno
dei grandi inconvenienti della democrazia»
è che «il
popolo non è per nulla adatto a discutere gli affari pubblici»,
sicché «non
deve entrare nel governo che per scegliere i propri rappresentanti», precisando peraltro che «il
corpo rappresentativo non dev’essere scelto per prendere qualche
risoluzione attiva, cosa che non farebbe bene»,
ma solo «per
emettere le leggi»
e «per
vedere se sono state eseguite a dovere»,
ma sia chiaro che «adattissima
a produrre questo effetto è la parte del corpo legislativo composta
dai nobili»,
e che «il
corpo dei nobili dev’essere ereditario».
Qui sia consentito un inciso. Diciamo che il liberalismo non nasce molto democratico, né lo diventa subito, basti pensare a cosa scriverà Tocqueville cent’anni dopo: «Ho per le istituzioni democratiche un gusto della mente, ma sono aristocratico per istinto, cioè disprezzo e temo la folla. Amo con passione la libertà, la legalità, il rispeto dei diritti, ma non la democrazia» (Mon instinct, mes opinions – 1841). D’altronde, via, anche la democrazia non nasce propriamente democratica, basti pensare all’Atene del V secolo a.C., nella quale la schiavitù era la più evidente contraddizione al principio di eguaglianza di diritti e di doveri. C’è poco da stupirsi, quindi, se quello descritto da Montesquieu non ci pare affatto uno stato propriamente liberaldemocratico, tutt’al più c’è da aspettarsi che questo offra il fianco alla critica di scuola marxista che nel liberalismo vede un subdolo strumento di oppressione della borghesia e bla-bla-bla. E tuttavia si noti bene che, pure in un contesto come quello che abbiamo ritagliato dalle citazioni prese dal De l’esprit des lois, Montesquieu non nega mai la prerogativa di «potere» alla funzione giudiziaria.
Ma torniamo all’articolo. Prende spunto dall’autospensione che, in seguito a un avviso di garanzia, il sindaco di Milano si è autosomministrato per meno di una settimana: è accaduto che Il Foglio si è precipitato a scrivere che questo è «il
termometro di un’incapacità della politica a saper resistere al
potere mostruoso esercitato dalla magistratura», e il Bedeschi si precipita a ribadirlo ricorrendo all’autorità di uno dei «grandi pensatori liberali», il Montesquieu giust’appunto.
Già, ma come si porrebbe, il Montesquieu, dinanzi a un caso come quello di Milano? Semplice a dirsi: «i
grandi sono sempre esposti a invidia, potrebbero trovarsi in pericolo
se giudicati dal popolo»,
e quindi è il caso che «i
nobili non siano chiamati a comparire davanti ai tribunali ordinari
della nazione, ma davanti a quella parte del corpo legislativo che è
composto da nobili». Nemmeno davanti a tutto il corpo legislativo, ma solo davanti alla parte
composta dai suoi pari, e pari per diritto ereditario. E qui ritengo si possa evitare di andar oltre, supponendo si sia data piena giustificazione della
fama di «grande pensatore liberale» che Montesquieu si è guadagnato presso i liberali
di tipo bedeschiano.
Ultima citazione, anche in questo caso tratta dall’opera di un nobile, non barone come Montesquieu, né visconte come Tocqueville, ma addirittura principe. Di Bisanzio, per la precisione.
domenica 25 dicembre 2016
[...]
Solo
un farabutto può rimanere insensibile all’amarezza che gronda
dall’intervista che Giorgio Napolitano ha concesso a Mario Ajello
per Il Messaggero di giovedì 22 dicembre, ma per trarne
godimento, laddove dell’emerito
non si sia mai tollerato l’indebito
esorbitare dalle sue prerogative istituzionali, si dev’essere
proprio un mascalzone, e una vera carogna, poi, per goderne al punto
da lasciarsi scappare, per grata riconoscenza all’annuncio
del suo ritirarsi a vita privata, quel solenne «vafammoccammàmmete!» che
nella suburra sta a sigillo d’ogni estremo congedo. Niente di tutto questo da noi che siamo
d’animo nobile e d’indole gentile, mancherebbe altro. Letteralmente: mancherebbe altro.
sabato 24 dicembre 2016
Rectius
Spesso
rinuncio a intervenire in dibattiti che sollevano questioni sulle
quali mi sono già ampiamente espresso in precedenza, ma nel caso
posto dalla campagna che Il Foglio pare aver intrapreso per
sollecitare un tribunale a dichiarare «l’illegittimità
costituzionale del Movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto
Casaleggio»
(non si era detto che la stampa fa sempre troppa indebita pressione
sulla magistratura?) credo valga la pena tornare al punto in cui
rilevavo che «i partiti italiani – tutti, quindi non fa
differenza se rigettano la denominazione, preferendo quella di
movimento – sono enti di fatto, non persone giuridiche, e come tali
non hanno da dover render conto a chicchessia dei loro statuti, né
di come è retta la loro vita interna»
(Malvino, 9.8.2016).
Su queste pagine non si sono mai risparmiate critiche al M5S,
talvolta anche feroci, e tuttavia spesso ho dovuto respingere con
fermezza l’insinuazione che io
gli riservassi qualche simpatia solo per aver scritto che molti suoi
avversari non avevano alcun diritto a muovergliene di simili.
Con
quale faccia tosta un radicale può dare del settario a un grillino,
Forza Italia può accusare il M5S di essere un partito-azienda,
Salvini definire Grillo populista? Con quale faccia tosta un De Luca
può avere da ridire su un Di Battista, un Orfini su un Di Maio, una
Picierno su una Taverna? Con quale faccia tosta si possono sollevare
critiche sulla democrazia interna al M5S, sulla gestione del suo
simbolo, sull’amministrazione
delle sue risorse, da dirigente, militante o anche semplice elettore
di un partito che non gli è per niente diverso, e in più si pappa
ogni anno diverse milionate di denaro pubblico?
Lasciamo perdere, mi
stavo facendo prendere la mano, torniamo alla brillante idea di sciogliere il M5S perché dentro non c’è
abbastanza democrazia (per inciso: dalle pagine di un giornale
fondato da uno che nel Pantheon ci ha accatastato Togliatti, Craxi,
Berlusconi, Benedetto XVI e Renzi, che nelle rispettive ditte, si sa, hanno sempre fatto respirare democrazia a pieni polmoni).
Ripetendomi: è fattualmente
impossibile, e giuridicamente illegittimo, metter naso nella vita
interna di un partito o di un movimento fino a quando non si
procederà a ridefinirne la natura, conferendogli l’onere di persona giuridica. Fino ad allora, «la loro linea politica continuerà ad
essere tracciata a dispetto delle tesi congressuali e dei programmi
elettorali, potendo così continuare a tradire la volontà dei loro
elettori e degli stessi iscritti; ruoli e incarichi continueranno ad
essere assegnati per cooptazione, sulla base del solo merito di una
fedeltà da ottusi gregari, che è il miglior modo per selezionare la
peggior classe politica; a compilare le liste elettorali
continueranno ad essere i membri di segreteria; a disporre della
cassa, per lo più piena di denaro pubblico, continuerà ad essere
chi di fatto – e in sostanza anche di diritto – è padrone del
partito». E nel caso del M5S si potrà arrivare perfino al
paradosso che sarebbe l’ultimo a
dover esser sciolto. Può darsi che sia questa la ragione per cui in
Parlamento non è mai arrivato in discussione un disegno di legge che
conferisca l’onere di persona
giuridica ai partiti politici.
Resta tuttavia la necessità di far
fuori il M5S in qualche modo, capisco, e pare non basti rimangiarsi
l’Italicum, che adesso non va
più bene solo perché i sondaggi dicono che favorirebbe la discesa
degli Hyksos: occorre altro, e non si sa bene cosa, sicché si procede a tentativi, senza tener conto che probabilmente è proprio il non riuscire a trovarne uno efficace – rectius: democraticamente efficace – a renderlo sempre più forte.
giovedì 22 dicembre 2016
Simply clever
Quando
si è dentro al cambiamento, è pressoché impossibile aver piena
comprensione della sua portata, tanto meno prevedere quali ne saranno
i tempi e i modi, e ancor meno prospettarne gli esiti. Già è tanto
riuscire a cogliere alcune delle forze in atto, tentare di
individuarne i vettori, costruire gerarchie di probabilità, ma
nutrire convinzioni su quella che ne sarà la direttrice, o
addirittura darle solidità di visione, non è che una scommessa: ci
si può azzeccare, e allora ci si guadagna fama di profeta, oppure
no, ma almeno l’ansia
si è stemperata in letteratura di evasione.
Altra
cosa, ovviamente, è osservare il cambiamento dall’esterno,
e altra ancora è analizzarne lo sviluppo e il risultato quando il
processo può dirsi concluso, dove comunque nulla garantisce una
migliore comprensione di cosa stia cambiando o sia cambiato, e di
quanto, e di come, per limitarsi a esserne condizione minima
necessaria.
A voler essere pignoli, in realtà, nessuna osservazione
prescinde mai del tutto dall’osservatore,
che inevitabilmente altera sempre ciò che intende analizzare per il
solo fatto di doverci necessariamente metter mano. In tal senso, anche senza dover ricorrere ad esempi come l’entanglement
di Schrödinger o il controtransfert di Freud, potremmo
dire che si è sempre dentro al cambiamento che si intende
comprendere, sia quando è in atto, sia quando è già compiuto, e
nondimeno il bisogno di capire resta: la certezza di non poter mai
cogliere del tutto l’essenza
del fenomeno non può paralizzarci, abbiamo il dovere di produrre
modelli sempre migliori, pur rassegnandoci a sapere che non ne esiste
uno perfetto.
Ma quale soluzione ci è data quando il cambiamento
dentro il quale siamo ci ha sottratto ogni strumento per
produrre un modello di realtà che sia dotato almeno di una coerenza
di sistema? Non ci resta che la fierezza della contraddizione,
l’orgoglio
della confusione, l’esibizione
di un Io-ossimoro che si fa vanto di essere «poco
razionale», ma che nel saper «pensare con la sua testa» riesce a trovare, chissà come poi, garanzia di autocoscienza e di autodeterminazione.
Nessuno meglio di
un esperto in messaggi pubblicitari sa cogliere lo spirito dei tempi,
e allora ecco lo sproposito di un umanesimo «emozionalmente
pragmatico», sospeso nel vuoto lasciato dalla crisi dei «veri
valori» a urlare «sono», «posso», «voglio», senza saper dire
cosa, nella convinzione che questo basti a dargli senso,
«semplicemente».
Siamo davvero messi male, almeno questo mi pare emerga chiaramente dal monologo di uno che non sa neppure trovare il bandolo del groviglio che lo avvolge e tuttavia pare decisamente convinto che il solo agitarvisi dentro possa bastare a renderlo «clever». Consegniamo agli storici questo documento che meglio di ogni altro parla della nostra impotenza.
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