Si ha
il diritto di essere severi con gli errori altrui, quando si sa
essere spietati con i propri, come mi tocca fare con quello da me
commesso nel post qui sotto, segnalatomi da un lettore che nella
pagina dei commenti ha prodotto argomenti solidi e ben documentati a
smentire la perentorietà con la quale ho dato per certa l’identità
del «rivoltoso sconosciuto» che il fermo immagine di un video della
rete britannica Itn ha immortalato a icona dei sanguinosi eventi di
piazza Tienanmen: la sua identità è tutt’altro che certa, sono
stato precipitoso nel ritenere che lo fosse, peraltro appoggiandomi a
una fonte che ho interpretato in modo superficiale. Nella risposta al
commento del lettore, che si firma DKS, ho cercato di dare una
spiegazione dell’errore nel quale sono incorso, evitando di
acconciarla ad attenuante, e porgendo le mie scuse, ringraziando per
la segnalazione. Giacché, però, l’errore è stato fatto in
homepage, ritengo sia necessario che in homepage ne sia riportata
l’ammissione, estendendo anche a voi le mie scuse, con l’impegno
a sorvegliare con maggiore attenzione i dati che daranno spunto alle
mie riflessioni, cui darò corso appena avrò superato l’imbarazzo.
giovedì 6 giugno 2019
martedì 4 giugno 2019
Signoroni della nostra molto sussiegosa informazione
Nel
trentennale degli incidenti di piazza Tien An Men, doppio paginone de
la
Repubblica,
a firma di Ezio Mauro. Tra le foto, immancabile, quella che è
diventata il simbolo della protesta che fu affogata nel sangue,
l’uomo
in camicia bianca che sfida la colonna di carrarmati: il «rivoltoso
sconosciuto»,
così nella didascalia.
Il
Corriere
della Sera
ci aveva pensato ieri, articolo di Marco Del Corona e boxino ad
annunciare per oggi, in allegato al giornale, Piazza
Tienanmen,
raccolta di saggi e reportage a cura di Marcello Flores, in copertina una rielaborazione grafica della foto (XxYstudio). Lo sfoglio:
normale non trovare il nome di quell’uomo
da pag. 48 a pag. 232, si tratta di articoli coevi ai fatti, ma non
ve n’è
traccia neppure in quelle che precedono (presentazione di Marcello
Flores, articoli di Fabio Lanza e Guido Santevecchi), scritte al più
una settimana fa.
La
Stampa,
invece, aveva anticipato a domenica il ricordo del massacro del 4
giugno 1989: Gianni Vernetti, inviato a Hong Kong, intervistava Han
Dongfang, uno dei capi della protesta. Anche lì, la «foto
simbolo»;
anche lì, il protagonista non trovava un nome.
Come
d’altronde
non lo trovava sulle pagine de Il
Fatto Quotidiano,
che nello stesso giorno mandava in pagina un articolo a firma di
Roberta Zunini e la foto d’obbligo,
però in bianco e nero, un po’
sgranata: chi è quell’uomo?
«Il
ribelle sconosciuto».
Non
diversamente con il
Giornale,
che lunedì 3 giugno, a corredo di un articolo a firma di Roberto
Fabbri, pubblicava la foto, dove al
«tank
man»
non riusciva a dare un nome: anche qui era il «rivoltoso
sconosciuto».
Ben
quattro pagine, invece, su il
manifesto
oggi in edicola (articoli di Tommaso Di Francesco ed Alessandro
Russo, con due reprint dell’epoca,
Rossana Rossanda ed Edoarda Masi); anche qui la foto, anche qui non
si ha modo di sapere chi sia l’eroe
che sbarra la strada ai quattro blindati.
Giornaloni, giornalini e giornaletti on line? Idem con patate.
Ora,
non è per star qui a rompere il cazzo a qualcuno in particolare, ma
agli eccellentissimi direttori di queste testate vorrei chiedere:
su Mark Caltagirone avete sguinzagliato intere redazioni e un po’
di pace l’avete
trovata solo quando avete potuto avvertire i vostri lettori che il
tizio non esisteva, Pamela Prati v’aveva
preso per il culo, eccetera, eccetera, possibile che il ditino vi si
anchilosava a cliccare qua e là per scoprire che il ribelle, o
rivoltoso che dir si voglia, un nome ce l’ha
e, se lo onorate dandogli il titolo di
«icona»,
meriterebbe pure fosse scritto in pagina?
Si
chiama Wang Lianxi, e per giunta è ancora vivo (*). Fu arrestato nelle
settimane successive al massacro di piazza Tienanmen e condannato a
morte, ma poi la pena gli fu commutata in ergastolo perché «malato
di mente».
Ospedale psichiatrico, ma poi nel 2007 fu rilasciato. Tornò a casa,
trovò che i genitori erano morti e la casa era stata distrutta. Un
comitato di quartiere gli procurò un posto dove dormire. Poi, nel
2008, alla vigilia delle Olimpiadi tenutesi a Pechino, fu di nuovo
arrestato e internato nell’ospedale psichiatrico Pingan nel
distretto Xizhimenwai, a Pechino, dove nel 2009 un’associazione
per i diritti umani in Cina, la Chinese
Human Rigths Defenders,
ebbe modo di incontrarlo, trovandolo un po’
intontito per gli psicofarmaci, ma in discrete condizioni fisiche. Più
in salute di Mark Caltagirone, insomma, signoroni della nostra molto sussiegosa informazione.
lunedì 3 giugno 2019
[...]
Ieri:
«Non metto il link per risparmiarvi la pubblicità di un
preservativo che si piglia un terzo della pagina, il banner sotto la
testata sul quale scorrono i prezzi di caffè, prosecco e detersivo
distribuiti da un ipermercato e il pop-up che reclamizza una società
di spedizioni, che è quello che dà il maggior fastidio perché
bisogna chiuderlo due volte ogni dieci secondi, però volevo
segnalarvi lo stesso...» (Malvino,
5.12.2014).
Da
oggi in poi, non più: nel caso dovessi commentare un post de Il
Post, potrò linkarvelo
tranquillamente, perché, andando di là, non troverete più
l’impiastro
che descrivevo quattro anni e mezzo fa. Prima, però, c’è
da sbrigare una piccola formalità: 80 euro. Proprio così, per
soli 80 euro all’anno
(in alternativa, 8 euro al mese) Il Post
vi sarà offerto «senza nessun annuncio».
[Qui immagino che al solito grammar-nazi venga d’istinto:
«Semmai “senza alcun annuncio”».
A torto, stavolta, perché a «senza nessun annuncio»
segue «salvo in qualche occasione particolare»:
la doppia negazione, dunque, qui non casca male, via.]
Com’è
venuta, ’st’ideona?
Il malpensante azzarderà che la baracca stesse a far acqua, ma ci
mettiamo un niente a scornarlo: «Mi
fermavano per strada –
rivela Luca Sofri – per
chiedermi come mai non avessimo ancora lanciato gli abbonamenti».
[Forse voi no, perché siete aridi dentro, ma io non faccio alcuna
fatica a immaginarmela, la scena: «Ohilà,
Sofri, com’è
che posta a gratis? Quelle delizie di soggetto-virgola-verbo, per
esempio, non crede sia venuto il momento di farcele pagare?»;
e lì il povero Sofri a capitolare: «Ok,
ok, vedrò di accontentarla, caro fan!»;
giorni a pensarci, e infine – riverbero renziano, eureka! – 80
euro.]
Abbonamento,
dunque, ma a una versione
spot-free,
perché «dal
2010 gli articoli del Post sono sempre stati gratuiti e accessibili a
tutti, e lo resteranno: perché ogni lettore in più è una persona
che sa delle cose in più, e migliora il mondo».
Tutto sta a voi, dunque. Non avete voluto sganciare 60 euro all’anno
per continuare a far vivere Radio
Radicale,
e vabbè, avevate visto giusto, è quasi fatta, la convenzione sarà
rinnovata, e continuerete a godervela a gratis, non era il caso di
fare neanche il gesto di metter mano alla tasca. Ma qui c’è
uno che da nove anni migliora il mondo e, abbonamento sì o
abbonamento no, assicura che continuerà a migliorarlo: non vi viene
di getto un gesto di liberalità? Ma allora siete bestie, fatevelo dire.
domenica 2 giugno 2019
Morettiana
In
Isole, secondo episodio di Caro diario (Nanni Moretti,
1993), c’è un indimenticabile Antonio Neiwiller nei panni del
sindaco di Stromboli, un sindaco animato da un entusiasmo prossimo
all’esaltazione, che senza sosta partorisce visionari progetti di
valorizzazione delle bellezze paesaggistiche del luogo, robe del tipo
«chiedere a Morricone una musica da diffondere per tutto il
giorno come colonna sonora del paese», «la luce dell’isola
a cura di un grande maestro della fotografia: Storaro che cura
l’illuminazione e i tramonti di Stromboli», in un più vaste
programme che mira a «un nuovo modo di vivere, una nuova
luce, nuovi abiti, nuovi suoni, un nuovo modo di parlare, nuovi
colori, nuovi sapori, tutto nuovo», insomma, «ricostruire da
zero Stromboli», peraltro con l’aspirazione a ben più ampi
orizzonti – «ricostruire da zero l’Italia»
– fino ad offrirsi da modello al mondo, come d’altronde ben
promette il fatto che «sta
per arrivare dal Giappone l’agronomo
responsabile dei 28.000 ettari che circordano Tokyo, vuole parlare
con me, dei miei progetti, vuole capire il segreto del nostro
equilibrio tra crescita e benessere».
È un sindaco, quello interpretato da Neiwiller, che però
vive il dramma di non riuscire a trasmettere il suo entusiasmo agli
isolani, che a tanto fuoco sacro sembrano opporre un’apatia
altamente ignifuga, insensibili a tante geniali idee, forse perfino
un po’ terrorizzati da tanto anelito palingenetico: «eppure il
materiale umano ci sarebbe», ma niente, «tante potenzialità
vanno sprecate», e il poveretto deve dolorosamente prendere
atto che «qua sono tutti così ostili», ma senza riuscire a
farsene una ragione – «perché sono tutti così ostili?» –
senza poter far altro che abbandonarsi ad uno sconsolato «che
peccato!».
Cambiando
quel c’è
da cambiare, l’apologo
morettiano calza come un guanto alla parabola di Mimmo Lucano. Da
cambiare c’è
che, pur non sapendo se il sindaco di Stromboli sia poi stato
rieletto, Nanni Moretti ce ne fa fortemente dubitare, mentre la
narrazione che i media hanno costruito attorno all’ormai
ex sindaco di Riace ci rende inspiegabile perché il 26 maggio sia
stato così crudelmente trombato: chi ci ha illustrato la sua grande
passione, le sue ottime intenzioni, le sue geniali idee, chi ha
esaltato l’esempio
di accoglienza da lui realizzato a modello da adottare in tutta
Italia e in ogni paese meta di migranti, chi è arrivato addirittura
a immaginarlo come leader di un centrosinistra che aveva da espiare
la tavolata di un Salvatore Buzzi e un Giuliano Poletti, l’«aiutiamoli
a casa loro»
di un Matteo Renzi, le derive securitarie di un Marco Minniti, non ha
saputo darci neanche come lontana ipotesi che alle Comunali di Riace,
lo scorso 26 maggio, Mimmo Lucano avrebbe preso solo 21 voti, né
oggi sa darcene spiegazione. Nemmeno tenta, in realtà, e preferisce
tacere. E più di tutti tace chi di Mimmo Lucano
ci ha offerto una narrazione prossima all’agiografia
di un santo che aveva compiuto il gran miracolo di cavare una
formidabile opportunità da due enormi problemoni come l’emergenza
posta dall’arrivo
dei migranti in Italia e la drammatica crisi economica, demografica,
culturale, eccetera, di tanti paesini del profondo Sud. È a quella
fonte che ci eravamo precitati ad abbeverarci, ma siamo rimasti a
bocca asciutta.
Parlo
di Propaganda
live,
che di Mimmo Lucano ci ha offerto il dittico in gloria e in martirio.
S’apre
la puntata del 27 maggio, quella dello speciale post-elettorale, e il
duetto iniziale tra Diego Bianchi e Marco Damilano nutre qualche
speranza che la spiegazione venga data.
D.B.:
«Si
è votato, e ne dobbiamo parlare. Non vedevamo l’ora,
no? Del resto, finché le cose vanno così, ce n’è
da dire, ce n’è
da fare. Allora cominciamo con il buon vecchio spiegone di Marco
Damilano...»
M.D.:
«Sì...»
D.B.:
«...
se ancora ne ha da spiegare...»
M.D.:
«No,
spiegare no... Qualcosa...»
D.B.:
«No,
devi spiegare, bisogna spiegare un sacco di cose. Please, on stage!»
Ok
– uno si dice – da Diego Bianchi nessuna spiegazione, ma questo è
comprensibile, perché da cocchiero del carrozzone satirico
antigialloverde gli spetta di diritto limitarsi all’arguta
glossa di contorno, come da regola introdotta da Serena Dandini alla
guida dei carrozzoni antiberlusconiani, e ormai diventata canone del
bon
ton
che caramella ogni palla di letame antigovernativa. Poi Diego Bianchi è meglio non
s’azzardi
a fare l’analista,
scivolerebbe ineluttabilmente negli sdoppiamenti in cui si produceva
nei video dei suoi esordi: «ce
n’è
da dire, ce n’è
da fare»,
ma, beninteso, da topo nel formaggio. E allora porgiamo orecchio a
Marco Damilano, che non rimuove, anzi, dà conto che di Stromboli ce
n’era
più d’una, e che per tutte è stata una Riace: «Pioveva...
“acqua di spilli fitti / dal cielo e dai soffitti”... a Lampedusa
è arrivata prima la Lega di gran lunga, con il 45%... la Lega ha
conquistato il Comune di Ventimiglia... e poi ha preso il 35% a
Rosarno... e anche nella Riace di Mimmo Lucano ha preso il 30%...».
Ok, ma perché? Niente, è che «c’è
un vento che soffia in tutta Europa e poi arriva anche nei posti dove
meno te lo aspetteresti... e allora ti dici “ma da dove arriva
tutto questo?”... perché non l’hai
sentito arrivare?...».
Capisci che neanche da Marco Damilano potrà venirti una spiegazione
seria: dice che a Riace il vento è arrivato da fuori, risulta assai più
acuto Nanni Moretti, che non si nascondeva le ostilità degli
stromboliani alle progressistissime levate di genio del loro sindaco.
Ma gli sia dato modo di spiegarci il vento e la pioggia: dove
nascono, come nascono? Zero, nessuna spiegazione, passiamo a
consolarci con lo scoppolone preso dal M5S. Che di voti ne ha persi sei milioni. Che non sono certo defluiti tutti nel Pd. Che, anzi, a dispetto
del suo 22,7%, ha perso in assoluto un bel po’
di voti rispetto alle Politiche dell’anno
scorso. Sei milioni di voti in parte andati a Salvini e in parte rifugiati nell’astensione. Per i primi, non vale la pena di darsi troppo pensiero: sottoproletariato e piccola-borghesia, roba fascistoide di suo. Per gli altri, poco male, perché è dall’astensionismo – ci assicura Wu Ming – che arriverà la rivoluzione. Tutto bene, dunque, se non sarà sereno si rasserenerà, passiamo al varietà. Ohi, gente, avreste dovuto vedere la faccia di Giggino
agli exit poll e, a seguire, proiezione dopo proiezione... Prego,
Makkox, vai con una delle tue, e che sia bella puntuta, così la Constanze può regalarci il suo squillante coccodè!
Ora, sia chiaro, non è che uno si aspetti da Propaganda live una seria e approfondita analisi di cosa sia l’Italia dell’Anno Domini 2019, di come la sinistra abbia sbagliato tutto nel declamare dai Parioli la bellezza di un’integrazione da promuovere però a debita distanza dai suoi viali alberati dove la differenziata e la paletta per la pupù dei cani sono undicesimo e dodicesimo comandamento, sì da poterne trarre grato compiacimento dal reportage di Zoro in terra di Calabria, in cui è evidente quanto il bonghetto del ghanese piaccia alla vecchina di Riace. Il guaio è che pure il re cui Propaganda live fa da giullare non sa darsi spiegazioni diverse da quelle di Marco Damilano: “acqua di spilli fitti / dal cielo e dai soffitti”, prima o poi passerà, da fuori è venuto il vento e fuori andrà.
Nanni Moretti? Un gigante. E perciò da tempo tace.
Nota Mia moglie, che è la più severa critica delle mie riflessioni ad alta voce, poi riversate in pagina, dice che ultimamente sono in preda ad uno scrupolo cui andrebbe bene la definizione di «le ragioni del nemico», me lo ripete dopo aver letto questo post, ed è da qui che preferisco risponderle: se al posto di ragione ci va ratio, accetto la critica, il «nemico» va innanzitutto capito, non lo si può liquidare come incarnazione del Male o come parentesi regressiva in un ineluttabile cammino verso un radioso avvenire.
Nota Mia moglie, che è la più severa critica delle mie riflessioni ad alta voce, poi riversate in pagina, dice che ultimamente sono in preda ad uno scrupolo cui andrebbe bene la definizione di «le ragioni del nemico», me lo ripete dopo aver letto questo post, ed è da qui che preferisco risponderle: se al posto di ragione ci va ratio, accetto la critica, il «nemico» va innanzitutto capito, non lo si può liquidare come incarnazione del Male o come parentesi regressiva in un ineluttabile cammino verso un radioso avvenire.
martedì 28 maggio 2019
[...]
La
puntata de L’aria
che tira
di lunedì 27 maggio non è stata ancora postata su Youtube,
dal website
della trasmissione non so scaricarne il video per ritagliare il
passaggio che avevo l’intenzione di riportare su questa pagina,
dunque mi rassegno a sbobinarlo.
Si tratta di Gianni Cuperlo,
leggendo non dovreste far fatica a riprodurne mentalmente la patognomonica erre
moscia da scicchissimo intellettuale di sinistra. Parla dei risultati
delle Europee, e dice: «A
me colpisce che oggi la Lega sia il primo partito in Sardegna. In
Sardegna, il 33% dei ragazzi tra i 14 e i 18 anni che frequentano la
secondaria non completerà il corso di studi».
Pochi istanti prima, alla domanda su cosa debba fare il Pd adesso per
cercare di recuperare ulteriormente tutti i voti persi in questi
ultimi anni, aveva risposto: «Trovare
gli argomenti giusti per parlare alla vita delle persone».
Nel caso della Sardegna, evidentemente, l’argomento giusto suona a
questo modo: «Sardi,
siete leghisti perché ignoranti».
Morale: c’è più sociologia in quindici secondi di tv spazzatura che nelle pagine tutte cifre e istogrammi dell’Istituto Cattaneo.
Aggiornamento Dice che forse si è espresso male, ma di certo siamo noi ad aver capito peggio: «Semplicemente non era quello il tema che ponevo. Io ho sollevato una questione del tutto diversa. E cioè che di fronte a quella statistica che dovrebbe rappresentare la priorità di un’azione di governo, l’attuale maggioranza gialloverde di cui la Lega è azionista ha tagliato le risorse per il diritto allo studio. Dunque mi limitavo a cogliere una contraddizione tra la propaganda della Lega (anche in Sardegna) e la totale inefficacia della sua politica concreta».
Mah, i gialloverdi sono al governo da poco più di un anno e il fatto che in Sardegna il 33% dei ragazzi tra i 14 e i 18 anni non finiscono le secondarie è antecedente ai tagli operati dal governo. Non sembra che Cuperlo si sia espresso male: sembra che abbia scelto un argomento che non regge e che ora tenti di arrampicarsi su uno specchio che però è andato in frantumi per l’esserci andato a sbattere contro.
Aggiornamento Dice che forse si è espresso male, ma di certo siamo noi ad aver capito peggio: «Semplicemente non era quello il tema che ponevo. Io ho sollevato una questione del tutto diversa. E cioè che di fronte a quella statistica che dovrebbe rappresentare la priorità di un’azione di governo, l’attuale maggioranza gialloverde di cui la Lega è azionista ha tagliato le risorse per il diritto allo studio. Dunque mi limitavo a cogliere una contraddizione tra la propaganda della Lega (anche in Sardegna) e la totale inefficacia della sua politica concreta».
Mah, i gialloverdi sono al governo da poco più di un anno e il fatto che in Sardegna il 33% dei ragazzi tra i 14 e i 18 anni non finiscono le secondarie è antecedente ai tagli operati dal governo. Non sembra che Cuperlo si sia espresso male: sembra che abbia scelto un argomento che non regge e che ora tenti di arrampicarsi su uno specchio che però è andato in frantumi per l’esserci andato a sbattere contro.
lunedì 27 maggio 2019
#Salviniscappa
Erano
Europee, ma, almeno qui in Italia, in gioco era tesi che il leghismo
fosse fascismo, e dunque in campo si scendeva da fascisti
consapevoli, da fascisti inconsapevoli, da pover’ignavi
che «il fascismo non lo vedo, dov’è?»
o da antifascisti comme il faut.
Erano
solidi gli argomenti a sostegno della tesi? Qualunque fosse
l’interpretazione
del fascismo presa a riferimento, la tesi non reggeva, al fascismo
mancava sempre qualcosa di essenziale, senza la quale fascismo non
era, ma ovviamente parlo delle interpretazioni serie, anzi seriose,
quelle prodotte in sede storiografica.
Sul
modello del «fascismo eterno», però, la tesi poteva reggere,
perché, parafrasando Umberto Eco («il
termine “fascismo” si adatta a tutto perché è possibile
eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà
sempre riconoscere per fascista»), Mussolini era in Salvini già nel
sentirlo dire «tanti nemici, tanto onore».
Assumendo
il mandato allegato a questo modello («il
nostro dovere è di smascherarlo [questo fascismo] e di puntare
l’indice su ognuna delle
sue nuove forme»), chi aveva a cuore la tesi che la storia si stesse
ripetendo ha dato il meglio: «ha detto pure “chi si ferma è
perduto”», «si è affacciato dallo stesso balcone da cui si
affacciò Mussolini», «#lammerda non ha onorato il 25 aprile»,
ecc.
Dal canto suo, Salvini ha
lasciato fare. Di più, ha offerto la sua sfacciata parodia
di fascismo-movimento a un’altrettale
parodia di Biennio Rosso («l’Italia
di Giolitti è morta, largo al proletariato!», centri sociali in
piazza e bottegai terrorizzati ad abbassare le serrande),
alternandola a quella di fascismo-regime, che trovava pronta quella
di Resistenza («fuori i 49 milioni dell’oro
di Dongo, dove li hai messi?», «appendetelo a testa in giù, tra la
Verdini e il Giorgetti!»).
Come nel ’19-’22
e nel 43’-45, non c’era alternativa, almeno per chi sosteneva
la tesi: «[quel]
modo di pensare e di sentire, [quella] serie di abitudini culturali,
[quella] nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni»,
l’Ur-Fascismo di Umberto Eco, incorniciava a meraviglia la
«dittatura
terrorista aperta agli elementi più reazionari, più sciovinisti,
più imperialisti del capitale finanziario», il fascismo del
compagno Dimitrov, quello che concedeva il bollino di antifascista
doc solo a ogni sincero anticapitalista, sicché gli altri, i
sedicenti antifascisti, gli antifascisti farlocchi perché non
comunisti, sostanzialmente erano anch’essi «nemici», anche se il
compagno Togliatti si erano limitato a definirli «avversari» (Corso
sugli avversari, 1935).
Simul
stabunt, simul cadent, era destino che alla crisi dell’egemonia
culturale che accreditava ai comunisti il solo e vero antifascismo
seguisse anche la crisi di quell’antifascismo tutto strumentale
alla loro causa anticapitalista, mentre quello farlocco, quello di
chiunque comunista non fosse, era già stato delegittimato per tempo,
lungo decenni in cui «fascista» era l’epiteto affibbiato, senza
pietà e senza distinguo, a missini e democristiani, a
socialdemocratici e liberali, e poi ovviamente a Craxi, a Berlusconi
e a Renzi. Si parva licet, una volta me lo beccai anch’io. Era il ’77, in un’assemblea m’ero azzardato a dire che il «27 politico» fosse una stronzata.
E qui,
a mo’ di intermezzo, penso caschi bene un inciso.
Chi ha l’add-content di
Malvino nel suo feed-reader può legger lì per intero ogni mio post,
è una decisione mai venuta meno in questi quindici anni di blogging,
sei sul Cannocchiale (2004-2010) e nove qui, su Blogger (2010-2019),
perché lasciare lì solo tre righe e tre puntini di sospensione mi è
sempre parso fosse una forma di adescamento simile a quello della
puttana che si sente principessa e confida che qualcuno raccolga il
fazzoletto che ha lasciato cadere a terra dietro di sé sul
marciapiedi.
Questa scelta, però, ha
avuto un costo: nel feed-reader resta il testo licenziato al mio
Invia, talvolta cliccato al posto di Salva, come è accaduto con O
moesta senectus! (24.5.2019), che pensavo di aver lasciato in bozza.
Poco male in casi come questi, ma poi ci sono quelli assai più
imbarazzanti nei quali il feed-reader mi inchioda ad un refuso, ad
una svista. Accade che ne accorga quasi subito, più spesso che me lo
facciano notare, corregga il testo, ma ecco che due o tre giorni
dopo, a volte anche una settimana dopo, arriva immancabile il
commento di chi rimartella sul chiodo da cui pensavo d’essermi
schiodato: «Guarda che a “populismo” manca la “s”». Che
fare? Di solito pubblico il commento e ringrazio, ma dentro di me il
permaloso protesta: «Eccheccazzo, sai come funzionano i feed-reader:
visto che per lasciarmi questo commento hai giocoforza sotto il naso
il post, vuoi controllare prima se per caso la “s” l’ho già
messa?».
Ma
poi c’è pure il caso in cui nel testo sul feed-reader resta il
lapsus che rivela il non detto, quasi sempre indicibile. E questo è
accaduto col post senza titolo del 19 maggio, dove all’ultimo
capoverso m’è scappato un «traditori» che neanche un minuto dopo
ho tolto per metterci un «nemici»: troppo tardi, sul feed-reader
restava il «traditori», cui seguiva un «della classe operaia, in
quanto liberaldemocratici».
Beccato:
rigettavo l’imputazione di «nemico», «traditore» eventualmente
sì, ma solo perché alle gloriose avanguardie della classe operaia
rammentavo «la natura socialistoide del mussolinismo», a insinuare
che certo socialismo è sempre un po’ fascista. Mi aspettavo di
doverla pagar cara, ma Olympe de Gouges, che bacchetta sempre con
affettuosa severità ogni mia bestemmia anticomunista, era
insolitamente indulgente: «Fu
immarcescibilmente anche questo, ideologicamente, ma sul piano
sostanziale fu altro: senza i danè degli industriali e degli agrari,
senza l’appoggio dell’establishment statuale e monarchico, dove
sarebbe andato il Benito Amilcare?».
Il
sollievo per l’essermela cavata a buon prezzo, m’ha fatto tacere,
ma avrei voluto dirle: «Ancora con questa storia degli industriali e
degli agrari? Il fascismo fu fenomeno di massa, reclutò un popolo
intero: davvero pensi di poterlo liquidare come cane da guardia del
capitale? Ma hai letto il Löwenthal?».
Ecco: «La concentrazione di tutti
quelli che abbandonano i partiti e le organizzazioni, in primo luogo
perché i loro interessi materiali per lo Stato superano o
sostituiscono temporaneamente il loro interesse produttivo di classe,
e poi perché le organizzazioni non sono più in grado di imporre
l’interesse di classe stesso; la concentrazione dell’agricoltura
contro l’industria, del trust dell’acciaio contro i sindacati
industriali, dei debitori contro i creditori, dei disoccupati contro
gli occupati, dei fautori dell’autarchia contro i fautori
dell’economia mondiale – tutto questo si attua in un nuovo
partito di massa, rivolto solo al potere politico: il partito
fascista. Così si spiega come questo partito recluti i suoi aderenti
in tutte le classi e come determinati ceti vi siano rappresentati e
ne formino il nucleo, ceti che sono definiti con l’imbarazzato
termine di ceti medi. La borghesia vi è rappresentata, ma si tratta
della borghesia indebitata, bisognosa di sostegno; il ceto operaio vi
è rappresentato, ma si tratta di disoccupati permanenti, incapaci di
lotta, concentrati nelle zone povere; vi affluisce la piccola
borghesia cittadina, ma quella andata in rovina; vi vengono inclusi i
possidenti, ma solo quelli spossessati dall’inflazione; vi si
trovano ufficiali e intellettuali, ma si tratta di ufficiali
congedati e di intellettuali falliti. Questi sono i nuclei del
movimento, che ha il carattere di una vera comunità di falliti, e
questo gli permette anche di estendersi, parallelamente alla crisi e
al di là di questi nuclei centrali, in tutte le classi, perché con
tutte è socialmente concatenato. […] Basandosi su una corrente
ideologica di massa, che di fatto trascina anche l’ala borghese
reazionaria, senza essere compromesso dal suo aperto carattere di
rappresentante di determinati interessi, diventando sempre più il
punto su cui si concentrano tutte le speranze, sempre in grado di
denunciare la politica d’interessi della borghesia e i resti
dell’economia di partito nella coalizione [di governo] come le
cause di insufficienti progressi, il partito fascista trova
rapidamente la strada verso il colpo di stato, che rappresenta la
vera rottura col sistema. A questo punto esso si impossessa senza
riserve dell’apparato statale...».
Basta,
cara Olympe, ad aprire gli occhi sul fatto che il fascismo ha le sue
«ragioni» ben oltre «i danè degli industriali e degli agrari»?
Un po’ in ritardo lo capì pure Togliatti e, a modo suo, cercò di
metterci una toppa con l’Appello
ai fratelli in camicia nera
del ’36. Troppo tardi, le «ragioni» del fascismo dovevano essere
comprese prima, quando la fregola dell’immancabile e imminente
rivoluzione rossa obnubilava l’analisi dell’avanguardia della
classe operaia, tant’è che ancora nel ’24 Gramsci dava il
fascismo per morto e con lui «il
semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati».
Ora come allora, ammesso e non concesso che il leghismo sia fascismo,
stramaledetta la profezia che – insieme – non ci coglie, ma si
autoinvera. Fine dell’intermezzo.
Hic
stantibus rebus, non restava altro che attendere la risposta degli
aventi diritto al voto a queste Europee, e quella – qui la frase
suoni un po’ nasale, come da speaker dell’Eiar – all’alba di
quest’oggi si è avuta schietta e fiera: il fascismo è al potere, la parodia ci ha preso gusto, chissà non provi a far sul serio.
Con
ciò dovremmo rassegnarci al fatto che di conseguenza il paese è fascista? Non sia
mai. Saldi nella convinzione che il capitalismo è all’ennesima
crisi, anzi, è a una crisi che anche stavolta è quasi certamente
quella fatale, e che, come sempre, quando è in crisi, anche stavolta
stia dando fondo alla sua intrinseca malvagità, mandando sulla scena
un demagogo bravo a stordire tanta brava gente, altrimenti pronta
alla rivoluzione, ma che la storia non possa che volgere
ineluttabilmente alla beata società senza classi e senza partiti,
«ognuno secondo le sue possibilità, a ognuno secondo i suoi
bisogni», e che chi non ci sta si autodenuncia come «nemico»
dell’umanità, con cui non si può perder tempo a dialogare –
saldi in questa articolatissima convinzione, metà purissima fede e metà indefettibile scienza – ce n’è da lottare, eccome.
Cominciare col cercare di capire dove si è
sbagliato? Macché, l’avanguardia della classe operaia non sbaglia
mai. 9.153.638
voti
di coglioni? E che importa, c’è un 44% di astenuti che cela
formidabili «riserve di energia politica», e che ci vuole a farla
tutta nostra? Non vedi? Il leghismo è già morto, e #Salviniscappa, e
dietro di lui scappano pure quei semileghisti di Bonino, Calenda, Zingaretti e Fratoianni. Prendi la
mazza, infila il casco, ché andiamo in piazza a sfondare qualche
vetrina e a farci manganellare dalla Polizia, vedrai che gli astenuti
ci verranno dietro.
venerdì 24 maggio 2019
O moesta senectus!
Translate
Google, saprete, consente di tradurre un testo da una lingua a
un’altra delle 103 che elenca nella sua homepage, tra le
quali trovate pure il Malgascio, il Tagiko e l’Uzbeco,
l’Esperanto, il Maori e il Punjabi, ma non il
Pretenzioso e il Troglodita, il che è un vero peccato,
perché basterebbero due click per constatare quanto i pomposi
pipponi che Ferrara ci ha inflitto per anni corrispondano in tutto e
per tutto ai cupi rutti che oggi ci infligge Salvini: lingue diverse, ma idem sentire, a piacere, su famiglia tradizionale e declino
demografico, multiculturalismo e politicamente corretto, islam e
radici cristiane, «abbasso la droga!» e «giù le tasse!», la
magistratura che fa politica e la Costituzione un po’ troppo
comunista. C’è che però Ferrara riusciva a tirarsi dietro solo due dozzine di disadattati, mentre Salvini catalizza tra un quarto e un terzo del paese. Tutta colpa della lingua utilizzata, perché quello italiano è un popolo alla buona, così, se per dire che sei contro il matrimonio gay, citi il Simposio di Platone, il Liber Gomorrhianus di Pier Damiani e la Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali del cardinal Ratzinger, non puoi aspettarti l’ovazione che invece puoi essere sicuro ottieni con un bel «cazzo in culo non fa figlio, solo sugo di coniglio». A un popolo così sai quanto gliene può fregare che la religio che proponi ad instrumentum regni non è depositum fidei ma dimensione etico-estetica, collante comunitario, retaggio di cultura e gusto: guarda quanti rosari pendono dallo specchietto retrovisore delle utilitarie parcheggiate sotto casa, calcola che neppure il 5% di chi le guida saprebbe recitarti per intero un Pater noster dall’inizio alla fine, così capisci che il cattolicesimo puoi proporlo solo come feticcio, perché come feticcio funziona, non come milieu esistenziale. Poi c’è che Ferrara è venuto prima, ma dalla sua nicchietta non è riuscito mai ad uscire, un Crippa a preparargli la tisana e un Cerasa a porgergli il portapillole, e ora ecco che arriva questo zotico, incolto, irsuto e gradasso, e dai balconi gli piovono petali di rosa, sbarbine gli strusciano le tettine sulla panza, giovanottoni palestrati lo chiamano «capitano», e ingozza tutto il bendidio di lipidi e carboidrati che a te, dopo quel mezzo coccolone, hanno vietato... Un pizzico d’invidia, un velo di risentimento, via, ci sta. E allora fiato al trombone: «I
cattolici democratici ci esorcizzavano e scomunicavano
come una nuova Action française, e attribuivano oscure trame fra
trono e altare alla ricercata “rilevanza” ruiniana di una fede
capace di ragione, e ora si ritrovano sbertucciati sulla pubblica
piazza, e fischiati, da presunti cristiani devoti, in realtà
feticisti e ubriachi, che smerciano in politica le litanie dei santi
sul palco patibolare di una strana internazionale nazionalista che
porta la mozzetta del cardinale Burke»
(Il Foglio, 21.5.2019). O moesta senectus, povero Ferrara!
lunedì 20 maggio 2019
La tragica fibrillazione, la farsesca tachicardia
Nell’intervista
che Jean Ziegler ha concesso ad Aline Wüst e che Blick
ha
mandato in pagina la scorsa settimana («Die
Kinder müssen nun das System angreifen») c’è
un passaggio che mi ha inflitto un blando riverbero della
fibrillazione che l’anno
scorso m’assalì
alla rilettura delle ultime pagine del secondo di tre libroni della
Utet che non toccavo da decenni. Solo un riverbero, stavolta, e
blando, ripeto, ché con gli epigoni dei Grandi Vagolitici accade che
la tragica fibrillazione si ripresenta come farsesca tachicardia, e
tuttavia la mano a un certo punto è corsa al petto.
Un
pugno di multinazionali fa la metà del pil mondiale, dice lo
Ziegler, siamo a uno strapotere che ci mette davanti a bivio: o
distruggiamo il capitalismo o il capitalismo ci distrugge. Ok, dice
la Wüst,
vada per distruggerlo, ma poi? E qui lo Ziegler: «Boh, si vedrà! In
fondo, la mattina che fu presa la Bastiglia nessuno aveva idea di
cosa sarebbe venuto dopo...».
Bell’esempio
del cazzo, faccio tra me e me, nessuno lo sapeva quella mattina,
certo, ma noi lo sappiamo, eccome: al posto di un re si ebbe un
imperatore. E sempre tra me e me: se è lecito inferire, dove siamo
andati a finire tutte le volte che siamo
partiti
per distruggere il capitalismo? Vertigine, affanno, m’è
d’uopo un controllino: 182/84, frequenza 102, meno male, va’,
pensavo peggio. Comunque è meglio prendere qualcosa, chessò,
qualche milligrammo di Prezzolini... Dove ho messo quell’appunto?
Ah, sì, sta nel librone della Utet.
Non
fa una previsione, Prezzolini, quando dice – siamo alla fine degli
anni Sessanta – che, «se il progressista è l’uomo
del domani, il conservatore è l’uomo
del dopodomani»: non dice che a una stagione di entusiastica
adesione a un moto di rinnovamento ne segue necessariamente una di
disillusione e di pentimento (eventualmente di resipiscenza, semmai
pure operosa): niente di tutto questo (peraltro tiene a precisare che
il «conservatore» – il «vero conservatore», dice – non è un
«reazionario», né un «tradizionalista»): no, Prezzolini si
limita a evocare l’obiezione
che è in radice alla sfiducia nel progresso, quella basata sulla
convinzione, espressa in forma di timore saldamente motivato, che da
un domani migliore del presente (sospesa la questione se poi lo sarà
davvero o no) possa discendere un dopodomani che ne risulti assai
peggiore, peraltro dandola come ipotesi altamente probabile, se non
certa: è la sfiducia che non fa mistero di trovare ragione in una
visione dichiaratamente pessimistica della natura umana, stolta più
che malvagia (la via che porta all’inferno,
eccetera), considerata ineluttabilmente incline a far guai: visione
che però implica anche un giudizio di merito sul presente, qualunque
esso sia: quand’anche
sembri pessimo, perfino al punto da far credere che qualsiasi domani
diverso non possa che essere migliore, il peggio è sempre possibile,
anzi è così gravemente incombente da essere pressoché sicuro: dal
progredire, insomma, si avrebbe sempre qualcosa da perdere e, se pure
non si avesse altro da perdere che le proprie catene, se pure questo
fosse assicurato per il domani, c’è
il caso – probabilità che per il «conservatore» abbiamo
visto essere prossima alla certezza – che dopodomani ci si
possa ritrovare molto più strettamente avvinti in catene molto più
pesanti, e tutto questo – dice il «conservatore» –
trova
conferma nell’esperienza:
l’esperienza mostra che alla lunga ogni progresso tradisce sempre
le sue promesse, e spesso in modo tragico: tanto gli basta per poter
vantare merito di una lungimiranza protetta dall’insidiosa
minaccia degli entusiasmi che menano a rovina il «progressista»,
sempre incapace di vedere oltre la punta del proprio naso, e perciò
incline all’avventura,
fonte d’ogni genere di disastro.
Gesù, come m’è uscita ’sta glossa? Sembra una parafrasi speculare del Totò che sbotta: «Poi dice che uno si butta a sinistra!». Basta, basta, devo tenermi alla larga dagli Ziegler, sennò il 26 maggio finisco per votare +Europa.
* * *
«Nelle
cose economiche e sociali, la via diritta,
salvo
eccezioni rarissime, è la via falsa.
Solo
la via storta, lungo la quale gli uomini cadono,
ritornano
sui propri passi, esperimentano,
falliscono
e ritentano e talvolta riescono,
è
la via sicura e, di fatto, più rapida»
Luigi
Einaudi,
Prediche
inutili
domenica 19 maggio 2019
[...]
Quando
il nobile decaduto porta il quadro al monte dei pegni, i contorni del
rettangolo
che sul muro rivela i tre o quattro punti di clarté
in più che la carta da parati aveva originariamente corrispondono a
quelli della cornice, non della tela. Così è accaduto con la
definizione del fascismo uscita dal XIII plenum del Comintern,
perché, caduta in disgrazia, la sinistra ha smesso di pensare al
fascismo come alla «dittatura
terrorista aperta agli elementi più reazionari, più sciovinisti,
più imperialisti del capitale finanziario» e
ha cominciato a percepirlo come «un
modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una
nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni»,
l’abietta
antropologia borghese che incorniciava il
fascismo inteso come mero strumento del capitale in funzione
antioperaia, a dar per implicito che il più genuino antifascismo
potesse essere solo anticapitalista, e cioè comunista: svenduta la
lotta di classe, sulla parete del salone in cui
il Partito invitava l’intellighenzia
a prodursi nei suoi deliziosi valzer è rimasto l’alone
della condanna
morale. Niente affatto antitetiche, d’altronde,
le due interpretazioni del fascismo, perché, dal canto suo, la
borghesia ha sempre amato darsi precursori nella natura umana più
che nella storia, pienamente convinta che il mercato sia dimensione
innata all’uomo,
che la proprietà privata stia scritta nel dna specie-specifico,
offrendosi così a chi l’avversava
come incubatrice di quel «fascismo
eterno»
che è innanzitutto metafisica della bestia.
Ora, però, c’è
chi ha raggranellato il necessario per riscattare il quadro al monte
dei pegni, me ne dà notizia il buon Luca Massaro, segnalando
l’editoriale
del n. 16 della rivista tedesca Exit
a firma di Thomas Meyer (Criseet critique de la société marchande)
e una sua traduzione in italiano a cura di Franco Senia (Capitalee Fascismo):
il salone è ancora in pessime condizioni, ma è evidente
l’intenzione
di tornare ai fasti del passato, quando un invito del Partito alla
serata di ballo era motivo di orgoglio per ogni intellettuale – sia
lode alla feconda contraddizione! – borghese.
Nemici della
classe operaia, in quanto liberaldemocratici, noi non siamo invitati.
Poco male, perché non sappiamo ballare. In quanto alla scena
mitologica ritratta in quel dipinto – il fascismo come invenzione
del capitale finanziario in risposta al Biennio rosso – ci è
sempre sembrata farlocca. Toccherà rimetter mano a Le
interpretazioni del fascismo
di Renzo De Felice per argomentare sulla natura socialistoide del
mussolinismo?
venerdì 10 maggio 2019
Pretesto imperdibile
[La
polemica che montò intorno al brano che Joseph Ratzinger trasse
dalla settima διάλεξις di Manuele II Paleologo e ficcò
nella lectio tenuta a Ratisbona nel 2006 oscurò il tema che
affrontava in quel testo con la logora riproposizione del trucchetto
tardo-ellenistico di mettere la maiuscola a λόγος
(pensiero) per farlo diventare Λόγος
(Dio) e così costringere la ragione a far la colf della fede: le
isteriche reazioni nel mondo musulmano e l’indecorosa
marcia indietro che portò a ben tre riscritture del passaggio misero
in ombra il numero da treccartaro di scuola agostiniana.
Così è
accaduto con gli «appunti»
destinati alla pubblicazione su Klerusblatt:
imputare al Sessantotto la pedofilia dei preti e ringraziare Dio per
aver fatto crepare Franz Böckle prima che potesse contestare
la Veritatis splendor hanno fatto velo alla questione
affrontata in quel testo che in buona sostanza riafferma la pretesa
del primato etico della Chiesa come indefettibile interprete del
dettato morale intrinseco all’ordine
creaturale.
Pretesto imperdibile per un quarto d’ora
di evasione da Twitter.]
Quando
parliamo dei principi cui le nostre azioni devono aderire per
perseguire il bene, siamo nel campo della morale, mentre invece siamo
in quello dell’etica, quando parliamo delle modalità con cui
questi principi devono essere messi in pratica. In entrambi i casi si
può avere la sensazione di stare a discutere di norme antecedenti e
superiori all’uomo, sennò intrinseche alla sua natura, comunque
universali ed eterne, valide per tutti, ovunque e sempre, e tuttavia
siamo costretti a fare i conti, fin dall’etimo, col fatto che i
mores che fanno la morale e l’ethos che fa l’etica
altro non sono altro che usanze, consuetudini,
abitudini: che usus è participio passato di uti,
che è trarre utilità da, servirsi di, avvantaggiarsi
da; che cum-suetum è quanto di proprio, cioè di suum,
sta in ciò che solemus, diverso da quello che in passato
altri solebant, quasi certamente diverso da quello che in
futuro altri ancora solebunt; che habitus è abito,
costume, non quello che c’è dentro. Siamo costretti,
insomma, a prendere atto della natura eminentemente culturale delle
regole che una data società in una data epoca si dà come ottimali.
Non dovrebbe darci da pensare che per quanto così spesso siamo
inclini a considerare universale ed eterno – cosa sia il bene, come
esso sia efficacemente perseguibile – abbiamo a disposizione solo
termini che rimandano al particolare e al temporaneo? Sembreremmo
essere alle prese con un assoluto, mettiamo la maiuscola a Bene, ma
le nostre parole rimandano alla relatività di un ethos che
nel suo significato originario è il posto in cui si vive (dunque
ambito, contesto, che dà un senso a ciò che, fuor
d’esso, ne ha un altro, o addirittura non ne ha alcuno) e a quella
di mores che in radice sono misure dell’agire (e
dunque ne caratterizzano il valore parametrandolo, dandogli
significato in funzione di incidenza, distribuzione, frequenza,
durata, ecc.).
Basterebbe questo a smascherare l’impostura che si
cela nella cosiddetta teologia morale, «la scienza
procedente dalla divina rivelazione che ordina gli atti umani alla
beatitudine soprannaturale», dove già la definizione mostra un
altro controsenso, perché la rivelazione cade giocoforza in un certo
posto e in una certa epoca, e dunque non può esser recepita che nei
modi dati come possibili in quel luogo e in quel tempo,
cristallizzandosi in usanze, consuetudini, abitudini,
che possono ragionevolmente trovare senso presso una tribù di
pecorai sprofondata nel medioriente di due millenni fa, ma
altrettanto ragionevolmente non trovarne alcuno altrove, né prima,
né dopo.
È che, al pari della «legge di Natura», anche la
«legge di Dio», che spesso le è coincidente per la cogente
relazione tra Creatore e Creato, e che diventa addirittura inferenza
di «immagine e somiglianza» nella Creatura, è un prodotto
storico, precettistica che può pretendere obbedienza solo al
perpetuarsi delle condizioni che l’hanno resa funzionalmente
efficace quando è stata adottata. Dovrebbe bastare questo a rendere
evidente che la pretesa di un sistema morale valido per tutti, sempre
e ovunque, cela in realtà il disegno di perpetuare il tipo di
società che l’ha prodotto, a dispetto di ciò che ineluttabilmente
la trasforma.
Ma cosa la trasforma? In sostanza a trasformarla è
l’insorgenza di nuovi bisogni, individuali o collettivi, che
riescono ad acquistare forza fino a porsi come problemi, e a chiedere
soluzioni adeguate, cioè conformi a una ratio, che, prima di
essere ragione, è calcolo, misura, proporzione.
A ben vedere, tutti i momenti dell’insanabile conflitto tra fede e
ragione, cui tante anime pie si affannano vanamente a trovar rimedio,
sono già tutti in nuce a questo inevitabile conflitto tra una
morale che si pretende universale ed eterna e una morale che si
dichiara autonoma e razionale: tra una morale che si esaurisce nelle
interpretazioni della rivelazione, anzi nell’interpretazione che è
stata capace di imporsi su tutte le altre, e una morale che trae
consapevolezza (cum-sapio) interrogando la coscienza
(cum-scio). Una morale, quest’ultima, specularmente opposta
alla teologia morale, che – dicevamo – è «la scienza
procedente dalla divina rivelazione»: qui è la scientia che
procede dalla sapientia, che ovviamente è quella somma di
Dio, ma è tenuta a procedere con la permanente assistenza della
Chiesa, che «è il luogo della conoscenza dello Spirito Santo»
(Catechismo della Chiesa Cattolica, 688).
La situazione
cui Joseph Raztinger fa cenno nella prima delle tre parti di cui si
compone il testo destinato alla pubblicazione su Klerusblatt
fotografa il momento storico in cui la tradizionale soluzione del
conflitto tra ragione e fede, da Tommaso risolta nell’assegnare
alla prima il ruolo di ancella della seconda, comincia ad essere
avvertita come inadeguata perfino nel mondo cattolico e, incredibile
a dirsi, addirittura nella cerchia dei teologi morali, in particolar
modo quelli di scuola tedesca. Il più autorevole esponente di questa
scuola, Franz Böckle, sostiene che «la coscienza esige dall’uomo
un giudizio ben fondato, perciò la decisione può essere presa solo
sulla base di motivi ragionevoli [sicché] le norme morali
insegnate dal Magistero obbligano solo nella misura in cui la
coscienza viene convinta dalla ragionevolezza degli argomenti posti a
loro sostegno». In sostanza, è come dire che sono valide solo
le norme morali che la coscienza ritiene razionalmente fondate: un
cattolico potrebbe rifiutarsi di obbedire ai precetti della Chiesa di
Roma, laddove non ne fosse persuaso, in forza di quell’autonome
Moral che non è mera opinione personale, ma rifiuto
razionalmente argomentato dell’interpretazione che il Magistero dà
del dettato evangelico; oppure, pur persuaso dell’interpretazione
che ne dà il Magistero, potrebbe ritenere legittimo uno scarto tra
principi generali e norme concrete.
Non è difficile immaginare come
possano suonare questi tesi all’orecchio di chi, facendo propria la
lezione di Tommaso, trova disobbediente pure il cattolico che segua,
sì, gli insegnamenti della Chiesa, ma solo perché trova che essi
coincidano con le proprie opinioni: l’obbedienza vera si realizza
pienamente nel non averne di proprie, né prima, né dopo la
ricezione del Magistero.
Qui possiamo cedere il racconto a Joseph
Ratzinger: «Papa Giovanni Paolo II, che conosceva molto bene la
situazione della teologia morale e la seguiva con attenzione, dispose
che s’iniziasse a lavorare a un’enciclica che potesse rimettere a
posto queste cose».
Si sarebbero rimesse a posto in questo modo:
«Sono sorte le obiezioni di fisicismo e naturalismo contro la
concezione tradizionale della legge naturale: questa presenterebbe
come leggi morali quelle che in se stesse sarebbero solo leggi
biologiche. Così, troppo superficialmente, si sarebbe attribuito ad
alcuni comportamenti umani un carattere permanente ed immutabile e,
in base ad esso, si sarebbe preteso di formulare norme morali
universalmente valide. Secondo alcuni teologi, una simile
“argomentazione biologista o naturalista” sarebbe presente anche
in taluni documenti del Magistero della Chiesa, specialmente in
quelli riguardanti l’ambito dell’etica sessuale e matrimoniale.
In base ad una concezione naturalistica dell’atto sessuale,
sarebbero state condannate come moralmente inammissibili la
contraccezione, la sterilizzazione diretta, l’autoerotismo, i
rapporti prematrimoniali, le relazioni omosessuali, nonché la
fecondazione artificiale. Ora, secondo il parere di questi teologi,
la valutazione moralmente negativa di tali atti non prenderebbe in
adeguata considerazione il carattere razionale e libero dell’uomo,
né il condizionamento culturale di ogni norma morale. Essi dicono
che l’uomo, come essere razionale, non solo può, ma addirittura
deve decidere liberamente il senso dei suoi comportamenti. Questo
“decidere il senso” dovrà tener conto, ovviamente, dei
molteplici limiti dell’essere umano, che ha una condizione corporea
e storica. Dovrà, inoltre, prendere in considerazione i modelli
comportamentali ed i significati che questi assumono in una
determinata cultura. Questa teoria morale non è conforme alla verità
sull’uomo e sulla sua libertà. Essa contraddice gli insegnamenti
della Chiesa». (Veritatis splendor, 47).
Li contraddice,
perché insinua che «la Parola di Dio si limiterebbe a proporre
un’esortazione, una generica parenesi, che poi solo
la ragione autonoma avrebbe il compito di riempire di determinazioni
normative veramente “oggettive”,
ossia adeguate alla situazione storica concreta [e questo non è
ammissibile, perché] un’autonomia così concepita
comporta anche la negazione di una competenza dottrinale specifica da
parte della Chiesa e del suo Magistero circa norme morali determinate
riguardanti il cosiddetto “bene umano”»
(ibidem, 37), il quale deve essere considerato sempre
uguale a se stesso e, ciò che più conta, avere una sola possibile
interpretazione, che dunque non può essere messa in discussione
perché sussunta nel depositum fidei...
Ops, stavo sforando il quarto d’ora. Torniamo all’avvincente derby fascisti-antifascisti su Twitter.
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