lunedì 23 dicembre 2013

Urgenza morale

Amnistia, indulto e popolazione detenuta nell’Italia repubblicana (Flavio Piraino, altrodiritto.it) è un saggio che in poco più di 60.000 battute, una ventina di tabelle e un’ottantina di voci bibliografiche sintetizza la storia dei provvedimenti di clemenza emanati in Italia dal Regio decreto n. 1156 del 17 ottobre 1942 alla Legge n. 241 del 31 luglio 2006: numeri eloquenti e inequivoci che consentono all’autore di poter affermare che ad essi «seguirono aumenti del numero di delitti denunciati sempre superiori ai coefficienti espressi dalla tendenza del periodo», rendendo «lecito concludere che gli effetti negativi dei provvedimenti di clemenza generalizzata superano di larga misura gli aspetti positivi in vista dei quali sono stati adottati e si risolvono in un aumento della criminalità».
Basta questo per essere contrari a un’amnistia, oggi? Non credo. Se si ha l’onestà intellettuale di ammettere che si tratta solo di una misura emergenziale, si può dirla necessaria, basta evitare di immaginarla come soluzione definitiva del problema del sovraffollamento carcerario o, peggio, di prospettarla come tale. Senza una revisione dell’istituto della custodia cautelare, senza l’abrogazione della Fini-Giovanardi e della Bossi-Fini, le carceri tornerebbero a sovraffollarsi in due o tre anni. E tuttavia il legislatore indugia: per insanabili dissensi tra le parti non è in grado di mettere mano a una riforma della giustizia, per dar conto a un’opinione pubblica che in larga maggioranza è ostile all’idea di un’amnistia neanche prova a discuterne, mentre fatica a prender atto che tenere in carcere tossicodipendenti e clandestini non risolve il problema della dipendenza da sostanze stupefacenti né quello delle grandi migrazioni di massa. D’intanto pende sull’Italia una procedura d’infrazione in sede europea proprio per le condizioni inumane che caratterizzano la detenzione nelle nostre carceri: da ciò, e per ciò, la necessità di un’amnistia, soluzione tampone al pari di ogni altro condono, dunque soluzione odiosa, se si vuole, perché mette in discussione la certezza della pena, ma necessaria – ripeto – per evitare che, per condizione date, la pena sia tortura e venga meno alla funzione di recupero che è contemplata dalla nostra Costituzione.
Come dicevo nel post qui sotto, però, l’Italia è il paese in cui il senso del compassionevole sposa la pratica dell’irresponsabilità, per cui a chi non vuole intendere che un’amnistia è necessaria in questi termini si oppone chi la chiede come soluzione strutturale dell’intero comparto della giustizia, quasi come se, a lasciar fare al cuore, la testa seguirebbe e, con la testa, mani, piedi e il resto. Difficile dire quale tra queste opposte fazioni sia più la più idiota, né in fondo importa più di tanto, perché quando la testa è al traino, e da locomotore sta, com’è in questo caso, lo stomaco irto di peli della plebe forcaiola o il cuore fibrillante dei radicali e di qualche frangia del cattolicesimo militante, ogni questione si fa irrisolvibile in radice, dunque risolvibile come mero braccio di ferro tra due opposte forme di irresponsabilità.
Un lettore particolarmente attento al senso che nel post qui sotto volevo dare a irresponsabilità ha sennatamente rilevato che il termine è da intendere, da un lato, come «comportamento incurante delle conseguenze» e, dall’altro, come «assenza di un qualsiasi meccanismo che faccia pagare per gli errori». In questo caso, chi è contrario a un’amnistia sembra non aver chiaro che, col permanere nello stato di illegalità in cui l’Italia attualmente si trova per la patente violazione dell’art. 27 della Costituzione e dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, si arriverebbe in breve, in non più di pochi mesi, a sanzioni pesanti sul piano economico e a un ulteriore danno alla già non esaltante immagine che offriamo del nostro paese in ambito comunitario, e che tali conseguenze sarebbero a carico di tutti, di tasca e di faccia; d’altro canto, chi chiede l’amnistia come se fosse la soluzione definitiva di ogni problema relativo alla giustizia in Italia non tiene in alcun conto di ciò che il saggio di Piraino che citavo in apertura di questo post dimostra in modo irrefutabile, né sembra esser coerente con quella millantata difesa dello stato di diritto che non sta a tutela solo di Caino, ma anche di Abele, e qui la tentazione sarebbe quella di aggiungere soprattutto, giacché la vittima di un reato è parte lesa a causa di un diritto violato.
A ben vedere, dunque, e senza neanche dover vedere troppo oltre, siamo di fronte a due forme di irresponsabilità che sono facce opposte dello stesso moralismo: una ha il grugno arcigno di chi non sa intendere la pena che come ritorsione, l’altra ha il musetto pio di chi non sa intendere la clemenza che come condono. Un po’ più oltre, invece, e mi auguro non sia troppo oltre da dover trovare una qualche difficoltà a vedere, siamo di fronte alla tragicommedia delle buone intenzioni che non risolvono niente, perché in entrambi i casi si pongono a valle del problema. È perfino ovvio che qui si neutralizzino a vicenda.
Se tuttavia la posizione ostile a un’amnistia mostra evidenti i limiti che le impone il pregiudizio moralistico, e neanche mette conto il rimarcarli, una parola va spesa su quelli di chi si ostina a far forte la richiesta di un provvedimento di clemenza sollevando la questione di coscienza, e ciò tanto più paradossalmente se si tiene conto che su questa posizione vediamo confluire post comunisti come Napolitano e sedicenti crociani come Pannella, le cui rispettive scuole di pensiero concordano in un sol punto, e cioè sulla necessaria separazione tra politica e morale. Un po’ più comprensibilmente vediamo confluirvi pure alcuni cattolici, che danno un senso estensivo all’opera di misericordia corporale del visitare i carcerati. Vedremo costoro sfilare tutti insieme nella marcia di Natale promossa dai radicali, e avremo modo di contarli. Per la giornata le previsioni meteo annunciano pioggia, ma cosa volete possa contare un po’ di pioggia quando è in gioco un’urgenza morale? 


4 commenti:

  1. Quando si ha un'urgenza morale dove ci si apparta?

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  2. fantastico! nel 1990 l'amnistia riguarda reati bagatellari o poco più (per intenderci niente rapina, solo furto semplice, etc...) escono 6.000 persone e da ciò ne deriva un aumento degli ingressi per l'anno successivo di più di un terzo e l'aumento del numero dei delitti del 40 %: una spinta criminogena fortissima. Oppure c'entra qualcosa con questi aumenti l'introduzione della legge sugli stupefacenti n. 309 del 90?

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    1. Per l'appunto. Si inizi a togliere il divieto al commercio delle sostanze stupefacenti e affini (ottimo anche per rimpinguare il bilancio dello stato) e poi vediamo se le carceri non si svuotano.
      Lo ripeterò fino allo sfinimento dei miei interlocutori: il proibizionismo procurò alla criminalità organizzata americana una quantità di danaro illegale come mai se n'era vista in precedenza, tranne forse per i pirati che assalivano i galeoni spagnoli nel sedicesimo e diciassettesimo secolo. Che differenza c'è tra la tossicodipendenza e l'etilismo? Quando si arriverà a comprendere che per ogni chilo di droga sequestrato, ne sono stati distribuiti dal circuito malavitoso almeno dieci quintali? Che si tratta di una fatica di Sisifo, il cui solo risultato è quello di arricchire a dismisura tutte le varie mafie?

      Un anonimo decisamente antiproibizionista

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