lunedì 15 ottobre 2012
domenica 14 ottobre 2012
Consigli a gratis
La scorsa settimana ho consigliato ai radicali (Butto un’idea, ci faccio un pensierino – Malvino, 4.10.2012) di restituire quanto rimane loro in cassa dei fondi che la Regione Lazio ha erogato al gruppo consiliare della Lista Pannella per il 2010 e per il 2011 (dovrebbero essere rimasti poco più di 270.000 euro degli oltre 580.000 euro incassati, se nulla è entrato per il 2012): «darli via in banconote da 50 euro, restituirli alla gente come nel 1997», ho scritto, «con le elezioni politiche a un tiro di schioppo, sarebbe un solido investimento». Bene, la stessa idea è venuta pure ad Alessandro Capriccioli, che ieri l’ha proposta al Comitato nazionale di Radicali italiani, di cui è membro. Non si è sentita volare una mosca, come se non fosse neanche il caso parlarne. Un altro consiglio, stavolta ad Alessandro Capriccioli: non insistere, per il tuo bene non insistere.
[...]
Su la testa non è malaccio e in filigrana mostra addirittura una
sinistra intellettualmente onesta, cosa che da tempo sembrava contraddizione in
termini. Insomma, se vi considerate di sinistra, se il Pd di Bersani e di Renzi,
e più ancora il Pd di Bindi, di Fioroni e di Castagnetti, ormai vi dà la
nausea, se considerate Vendola un velleitario, se raziocinio e buon busto vi
tengono lontani da Di Pietro e Grillo, se Pannella no perché non siete
masochisti, vi consiglio di aderire. (L’avrei fatto anch’io, ma ho già
completato la mia collezione di delusioni.)
Appunto
Un anno fa ho scritto: «Se Dio c’è, se si è incarnato in Cristo, se la Chiesa è il Cristo vivente, se i preti ne sono i ministri e il laicato cattolico è il popolo di Dio, tutti i traffici della Compagnia delle Opere sono in regime di apostolato e la sua rete, già da tempo multinazionale, qualcosa in più di una lobby e poco meno di una mafia, non è altro che una falange della mano di Dio nel campo della politica e degli affari. Voglio dire che non c’è alcuna rottura tra la predicazione di don Luigi Giussani e l’impero economico dai mille tentacoli al quale i suoi ragazzi hanno dato vita: la piovra potrà avere un brutto aspetto, ma è proprio quella pensata dal pretino di Desio ne All’origine della pretesa cristiana (Jaka Book, 1992). Lì non si entrava nel dettaglio, ma c’era già tutto, anche l’incoraggiamento a non temere più di tanto la magistratura inquirente. A Dio, con un giro di affari di oltre 80 miliardi di euro, gli fai un baffo».
Sull’ultimo numero di Micromega (7/2012) lo trovo scritto meglio: «La presenza di Cristo risorto è nella concretezza di un corpo ecclesiale, quindi è solo “il metodo della compagnia” che permette di far toccare Cristo e di appartenere a Lui. […] Appartenere [a Comunione e liberazione] assume un profilo esistenziale molto marcato, coinvolge affetti, casa, lavoro, politica. I ciellini si sposano tra ciellini, lavorano coi ciellini, e in politica votano i ciellini […] Creano un mondo autosufficiente, in cui è facile entrare e difficile uscire, che garantisce ai suoi abitanti di essere nel vero, offrendo un apparato concettuale ben definito da cui attingere risposte ai quesiti della vita e un’organizzazione che accompagna dalla culla alla bara. È per questo impianto, voluto dal fondatore, e non tanto per lo stile bruto di molti dei suoi capi, che il movimento si è meritato il giudizio di “integralismo”. […] Esaltazione del carisma, del linguaggio, delle idee del leader, con […] insistenza sul “noi”».
L’occasione per parlare della Compagnia delle Opere mi era offerta l’anno scorso da Marco Pannella, per il quale «don Giussani si rivolterebbe nella tomba a sapere cosa è diventata Comunione e liberazione»: il brano che ho tratto da Micromega (Giovanni Colombo, Dal vento del Concilio alla tabula rasa – pagg. 25-36) mi pare dia ottima spiegazione del fatto che solo considerando benevolmente il modello settario di Cl si può ritenere che Roberto Formigoni ne sia un momento di degenerazione. Perché, allora, i ciellini muovono miliardi e i radicali hanno le pezze al culo? Perché i primi hanno dalla loro uno Spirito Santo più efficace, una Pentecoste meglio militarizzata. Sembra niente, ma fa la differenza.
venerdì 12 ottobre 2012
«Camminando su un tappeto formato da milioni di farfalle di mille colori diversi»
L’alterata facoltà di percepire attendibili dati sensoriali su noi stessi e su quanto ci circonda, pressoché costantemente associata all’impossibilità di elaborarli in una rappresentazione che regga all’evidenza dei fatti, è un elemento di comune riscontro in svariate condizioni patologiche del sistema nervoso centrale, transitorie o permanenti, che trovano causa in un ampio ventaglio di noxae (traumatiche, tossiche, degenerative, ecc.). È per questo che prestiamo poca fede a chi torna da un trip lisergico raccontandoci di aver sorvolato Atlantide in sella a uno pterodattilo, neanche gli chiediamo se per caso abbia realizzato un reportage fotografico, ed è per la stessa ragione che all’alcolizzato cronico che nel suo delirium tremens urla di essere assalito da insetti a frotte corriamo in soccorso con le benzodiazepine invece che con l’insetticida. Quando invece un tizio esce dal suo coma e ci racconta di essere stato in una specie di paradiso che peraltro non è mai lo stesso da coma a coma – mai che un comatoso raccontasse di esser stato in purgatorio o all’inferno – porgiamo l’orecchio con grande interesse. Poco importa cosa l’abbia fatto andare in coma e a quale trattamento farmacologico sia stato sottoposto mentre era in paradiso, vogliamo sapere se ha visto gli angeli, se davvero hanno le ali piumate come si dice. Se poi il tizio è uno che prima di entrare in coma non credeva nell’aldilà, le sue visioni acquistano valore di testimonianza documentale: per essere solide, le ragioni dell’ateismo devono resistere alla prova della meningite purulenta, sennò vuol dire che Dio esiste!
Questo è quanto pare dimostrare il caso del dottor Eben Alexander, 58 anni, neurochirurgo, sette giorni in coma per una meningite da Escherichia coli, che al risveglio ha raccontato di essere stato «in un mondo di nuvole bianche e rosa stagliate contro un cielo blu scuro come la notte», «popolato di esseri trasparenti e scintillanti», che, «cantando», «lasciavano dietro di sé una scia altrettanto lucente». Lì il dottore dice che, «camminando su un tappeto formato da milioni di farfalle di mille colori diversi», ha «incontrato una ragazza bionda con gli occhi blu», che, senza parlare, gli inviava messaggi che gli «entravano dentro come un dolce vento». Poi dice di aver visto una «grande sfera luminosa»… Insomma, tutta una roba tra la Divina Commedia e un b-movie di fantascienza. Poco importa in quali condizioni fosse il cervello del tizio durante il coma, molto di più che ora affermi che
«quanto [gl]i è
capitato è reale quanto e più dei fatti più importanti della [su]a vita».
Per accaparrarsi l’esclusiva c’è da attendersi aspra contesa tra Voyager e l’Anno della Fede.
Contro la legge
Su un piatto della bilancia metto lo sdegno che si è sollevato nel paese per il modo in cui dei poliziotti hanno reso esecutivo il provvedimento di un tribunale che affidava un minore in via esclusiva ad uno dei suoi genitori – parlo del video andato in onda a Chi l’ha visto due giorni fa – e sull’altro metto quello che si sollevò nel paese alla diffusione delle immagini che documentavano il massacro che dei poliziotti avevano compiuto all’Istituto Diaz di Genova nel 2001: e ancora una volta mi sento straniero in patria, un’Italia che ragiona con lo stomaco, metà del quale è delicatissimo, mentre l’altra metà è coperta da un pelo irto e fitto. Lì avemmo un’orgia di abusi, ossa e denti rotti, sangue a schizzi e a grumi, ma il paese si spaccò in due, perché ci fu chi corse in soccorso dei poliziotti, tant’è che per riconoscerne la responsabilità ci sono voluti anni, più di un lustro. Qui, invece, la condanna è pronta, unanime, vivace, i quotidiani sparano il «fattaccio» in prima pagina, il capo della polizia annuncia un’indagine interna, il governo è chiamato a relazionare in parlamento e nessuno spiega in quale altro modo si potesse procedere per dare esecuzione a ciò che un tribunale aveva disposto. Perché, è vero, non è mai bello strappare un ragazzino a un genitore per darlo all’altro, ma le ragioni per le quali può essere necessario sono contemplate da leggi dello stato.
Ecco, forse è questo il punto: questo è il paese dove il sentimentalismo ha sempre la meglio sulla legge. Qui le passioni, gli umori, le simpatie e le antipatie pretendono ed ottengono ragione – contro la legge.
giovedì 11 ottobre 2012
Il «neodegasperismo renziano»
La complessità di ciò che accade – tutto ciò che accade in un dato contesto e in un dato arco di tempo – ci spinge a cercare una legge che la regga, una formula che la racchiuda o almeno un’immagine che la semplifichi al meglio. Se ci riusciamo, ci pare di aver trovato la chiave del milieu, che non di rado ci illudiamo possa servirci da passepartout. Karl Popper l’ha spiegato molto bene in Miseria dello storicismo (1957), nel tentativo di dissuaderci dall’errore di pigiare i fatti in archetipi preconfezionati, peggio ancora se prefissati in modelli ciclici, peggio che mai se preconfigurati su vettori escatologici, in teorie del tutto che nella storia vedono un disegno, nel suo muoversi la cinetica di un organismo animato da una realtà trascendente, cosa sacra se non divina: l’effetto – dice – è talvolta comico, l’esito – avverte – è molto spesso tragico.
Ahinoi, l’Italia è il luogo in cui questo miserabile vizio di leggere la storia come un ripetersi di scene sempre uguali, entro le quali sempre nuovi attori si avvicendano nell’interpretare sempre le stesse dramatis personae, è considerato esercizio di memoria. Così accade che a qualcuno salti in testa di vedere in Matteo Renzi una specie di Alcide De Gasperi. Di più: di vedere negli scazzi che stanno facendo guazzabuglio nella pancia del Pd una «guerra di religione», un «conflitto a bassa intensità tra due modi di intendere la presenza dell’universo cattolico all’interno del centrosinistra», tra neodossettiani e neodegasperiani. Ancora di più: si ha la spudoratezza di proporre un’analogia tra i dispettucci e gli sgarbi che si scambiano due dei candidati alla guida del centrosinistra alle primarie e la faida che da cinquant’anni va consumandosi nella base cattolica tra quanti chiedono che sia finalmente liberato lo «spirito» del Concilio Vaticano II e quanti premono, con miglior fortuna, perché quello «spirito» sia condannato come lettura eretica di un testo che germinò troppo ambiguo e degenerò in criptoprotestantesimo.
Al netto della spocchia nel proporre questo gioco di società come una lettura intelligentosa della mediocre attualità politica italiana, siamo a un livello non più alto delle discussioni che negli anni ’80 consumavano i rotocalchi su questioni del tipo
«chi è la nuova Mina», «chi è il nuovo Pelè». Non c’è da stupirsi che a proporre il gioco sia Il Foglio, non c’è da stupirsi che prendere la parola sia, tra gli altri, Mario Adinolfi. Per il quale, sì, «il neodegasperismo renziano è uno spazio vincente per i nuovi dem».
Con lui la miseria dello storicismo arriva a farsi miserrima: «Non credo – dice – che il conflitto in atto tra le diverse generazioni dei democratici d’ispirazione cristiana sia a bassa intensità». Non ci vede la tragedia che ritorna in farsa, ci vede proprio un altro Dossetti e un altro De Gasperi. Da come si struscia addosso a Renzi, «che ho avuto la fortuna di vedere crescere nel movimento dei giovani Popolari negli anni Novanta di cui sono stato presidente nazionale e lui leader fiorentino», si capisce che lui è un degasperiano da sempre. D’altronde, a chi era saltato il link? Pensi ad Adinolfi, ti viene subito in mente De Gasperi, no? Così con Renzi, che «è un degasperiano nel respiro e nella visione politica», anzi, è «nipote di De Gasperi», mentre gli altri, «i vari Marini e Castagnetti, Bindi e Letta» sono «i dossettiani», «“figurine” trasformate in foglia di fico utilizzate per coprire la matrice sostanzialmente socialista del Pd».
Non si capisce più un cazzo, eh? Avete ragione, non si capisce più un cazzo, tutto è andato gambe all’aria, sottosopra.
lunedì 8 ottobre 2012
«Prima era un libertino, poi sulla via di Damasco…»
A Otto e mezzo (La7, 8.10.2012), per sostenere la liceità del cambiare idea, Pierferdinando Casini piglia a esempio san Paolo, il quale – dice – «prima era un libertino, poi sulla via di Damasco…».
Saulo di Tarso, un libertino? Ma vogliamo scherzare? Prima della folgorazione era un ebreo tra i più zelanti, obbedientissimo alle leggi mosaiche, irreprensibile in quanto a costumi, tutto tranne un libertino.
Avrà fatto confusione con sant’Agostino? Passi, ma come ce la infila nelle Confessioni dell’Ipponate, la via di Damasco, ‘sto politico cattolico dei miei stivali?
Che cazzo ha fatto per meritare un simile trattamento?
Tra i commenti agli ultimi post trovo un off-topic che mi invita a fare qualche ipotesi sul perché monsignor Charles Scicluna sia improvvisamente caduto in disgrazia, rimosso senza preavviso, contro ogni previsione, dall’incarico di promotore di giustizia della Congregazione per la Dottrina della Fede – col quale s’era guadagnato fama di duro nella lotta agli abusi sessuali commessi dal clero cattolico ai danni di minori, dunque esibito come fiore all’occhiello della tanto reclamizzata svolta intransigente voluta da Benedetto XVI per dare una soluzione definitiva al problema – per essere sbattuto a La Valletta, degradato a vescovo ausiliare, per giunta con decreto pubblicato nel giorno in cui i riflettori erano puntati sulla sentenza del processo a Paolo Gabriele, come nel tentativo di evitare troppe chiacchiere su quella che aveva tutti i caratteri formali della punizione esemplare. Che cazzo ha fatto per meritare un simile trattamento?
[Sul blog degli «amici di Papa Ratzinger» la questione è affrontata con una venatura di sconcerto. «Perché il Papa ha ridimensionato un suo così stretto e fidato collaboratore?». «Non ho elementi per fare un commento, per ora mi limito a ringraziare monsignor Scicluna per il suo lavoro». «L’uomo simbolo della lotta agli abusi, il prelato più vicino a Joseph Ratzinger nel combattere la pedofilia clericale e la mentalità che la vuole coprire, poteva essere “promosso” senza allontanarlo dal Vaticano». «Malta è un serbatoio di fede dove la pedofilia ha fatto male, magari è stato mandato lì semplicemente come segnale di intento di pulizia anche sul territorio». «Però se ne va dopo aver criticato alcune conferenze episcopali, compresa quella italiana». «Bando alle dietrologie, monsignor Scicluna ha terminato la sua missione e ora tocca alle conferenze episcopali agire secondo le linee guida, assumendosi onori, oneri e responsabilità». Che tenerezza.]
Penso di avere una spiegazione. Il 4 e il 5 settembre, a Twickenham, nel Regno Unito, presso il St. Mary’s University College, si è tenuto un incontro sul tema «Redeeming Power: Overcoming Abuse in Church and Society», al quale ha preso parte anche monsignor Scicluna. Alla fine dei lavori Sua Eccellenza ha concesso un’intervista a Radio Vaticana, nella quale ha fatto un’affermazione apparentemente anodina, ma che a qualche orecchio dev’essere sembrata degna del più puzzolente tra i laicisti: ha detto che l’abuso sessuale sui minori è «conseguenza» dell’abuso di potere, che è affermazione carica di gravissime implicazioni. Perché una cosa è andare a caccia di preti pedofili, additandoli come peccatori che infangano l’abito che portano addosso, un’altra è spiegare il loro peccato come uno degli effetti indesiderati del potere che Dio ha concesso al pastore sulle sue pecore. Sarà stato uno svarione, ma ha rivelato in Scicluna un errore teologico, che la carica ricoperta avrebbe potuto rivelare pericoloso. Perché un promotore di giustizia della Congregazione per la Dottrina della Fede fa funzione di pubblico ministero, ma nella Chiesa di Roma c’è sovrapposizione e coincidenza tra il potere giudiziario, quello esecutivo e quello legislativo: un crimen tanto odioso come la pedofilia non può essere in alcun modo «conseguenza», ancorché degenerata, del potere: deve rimanere, come si è sempre detto, un delitto contro la Chiesa: mai, in nessun caso, della Chiesa.
Il governo tecnico ha commesso un errore tecnico
Volendo semplificare la complessità delle motivazioni che hanno portato il Consiglio di Stato a bocciare il decreto che dal 2013 avrebbe comportato un consistente taglio dell’esenzione fiscale fin qui goduta dal clero sui suoi immobili, potremmo dire che il governo tecnico ha commesso un errore tecnico. Delle due, una. O hanno fama di professoroni ma al governo abbiamo dei coglioni. O la fama è meritata e i coglioni sono quanti avevano creduto che l’idea di far pagare il dovuto al clero fosse questione squisitamente politica.
[...]
«In nome di Sua Santità, Benedetto XVI, gloriosamente regnante, il Tribunale, invocata la Santissima Trinità, ha pronunciato la seguente sentenza…».
Può bastarci questo: una sentenza pronunciata in nome del monarca (monarca assoluto, in questo caso), previa invocazione a Dio (chiamato ad assistere la decisione del giudice, al quale evidentemente mancava la luce necessaria a illuminare i fatti). Un salto nel passato, di secoli, da brivido.
Poi, si può sorridere, perché «gloriosamente regnante», detto di Zia Pina, ha il sapore di una feroce presa per il culo. Infine, col giudice che dice «visti gli art. 402, 403 n.1 e 404 primo comma n.1 c.p.», si può scoppiare a ridere, pancia in mano. Quel c.p., infatti, altro non è che uno Zanardelli con le toppe, un coso che all’inaugurazione dell’80° anno giudiziario, tre anni fa, nel 2009, era un sentito dire nemmeno mai messo nero su bianco: «Si provveda – fu il sollecito – a stampare l’ordinamento giudiziario, i codici di procedura civile e di procedura penale, nonché il codice penale nei testi attualmente vigenti nello Stato Vaticano».
Il giudice che ha condannato Paolo Gabriele deve avere il polpastrello sporco di inchiostro tanto il c.p. era fresco di stampa.
Se questa è la giustizia amministrata in terra dal Vicario di Cristo, il Giudizio Universale somiglierà a una sala-bingo.
domenica 7 ottobre 2012
Ladri in casa del Papa
«Si è
parlato molto, giustamente, del processo a Paolo Gabriele. Giustamente perché l’oggetto
del giudizio, a parte l’inusualità dell’evento in sé – un processo penale in
Vaticano non si vedeva probabilmente da oltre un anno – riguardava una materia,
il “furto in casa del Papa”, inaudita e, francamente, inaudibile. Nel senso di
inconcepibile, inimmaginabile, al di là della fantasia, se non fosse, com’è
effettivamente, accaduto» (Avvenire, 7.10.2012).
Un furto di casa del Papa, in realtà, non è cosa inaudita. Anche se fu sempre smentito dagli organi ufficiali vaticani, è molto probabile che nel 1969 ci sia stato un precedente. Secondo alcuni si trattava di tre quadri (un Perugino, un Van der Weyden e un Mino da Fiesole), prontamente sostituiti con tre copie, ma alcuni avanzarono l’ipotesi che si trattasse di
«documenti straordinariamente importanti»
(di qui in poi quanto virgolettato è tratto dall’inchiesta che Pietro Zullino firmò per Epoca, XX/999, 16.11.1969 - pagg. 38-43). Secche, dicevamo, le smentite: don Pasquale Macchi, segretario particolare di Paolo VI, monsignor Fausto Vallainc, direttore della Sala Stampa Vaticana, e L’Osservatore Romano
(5.11.1969) reagirono prontamente, anche se con dichiarazioni non del tutto collimanti. Benny Lai, per esempio, annota nei suoi diari (Il “mio” Vaticano, Rubettino 2006 - pag. 424):
E tuttavia erano tempi in cui una smentita ufficiale della Santa Sede equivaleva all’intimazione di non insistere, c’è da comprendere la difficile situazione in cui precipita «il redattore dell’agenzia romana che ha fatto il colpo [il quale] non ha più pace:
“Il segreto professionale mi impedisce di rivelare le mie fonti – protesta – ma sono ottime fonti. Per quali ragioni dovrei rischiare un licenziamento propagando stupidaggini?”».
Le fonti gli avevano rivelato che il furto c’era stato tra la metà di luglio e la metà di settembre, mentre Paolo VI era a Castel Gandolfo e nei suoi appartamenti erano in corso dei lavori di manutenzione. Cosa fosse stato rubato, e chi l’avesse rubato, non si seppe mai. D’altra parte erano tempi in cui un furto non poteva essere acconciato, come oggi, nella pantomima della condanna a 18 mesi: a quei tempi – ci rammenta Pietro Zullino – «per il furto grave la pena vigente è ancora quella del vecchio Stato Pontificio, cioè la fucilazione».
Le fonti gli avevano rivelato che il furto c’era stato tra la metà di luglio e la metà di settembre, mentre Paolo VI era a Castel Gandolfo e nei suoi appartamenti erano in corso dei lavori di manutenzione. Cosa fosse stato rubato, e chi l’avesse rubato, non si seppe mai. D’altra parte erano tempi in cui un furto non poteva essere acconciato, come oggi, nella pantomima della condanna a 18 mesi: a quei tempi – ci rammenta Pietro Zullino – «per il furto grave la pena vigente è ancora quella del vecchio Stato Pontificio, cioè la fucilazione».
Bagattelle
L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina Editore, 2007) apriva con una lettera del cardinale Carlo Maria Martini a mo’ di prefazione, che Vito Mancuso assicura egli «scrisse sapendo che sarebbe stata pubblicata» (la Repubblica, 6.10.2012) e che invece Gianpaolo Salvini dice «non [fosse] destinata alla pubblicazione» e dunque sia stata pubblicata «con molta poca correttezza» (La Civiltà Cattolica, 3895, IV, 3-106). La polemica ha per tramite il blog di Sandro Magister, che ha ripreso l’accusa di Salvini, prima, e la replica di Mancuso, dopo. Con una significativa omissione: Mancuso scrive che il suo «blog [è] ormai diventato un avamposto del cattolicesimo più conservatore». La cosa è innegabile, sarà per questo che Magister non riporta e non contesta il giudizio. Rimane inspiegabile perché l’Espresso continui a servirsi di un vaticanista con le sue posizioni.
sabato 6 ottobre 2012
Il vizio del compromesso
Ieri, ad Assisi, Giorgio Napolitano ha tenuto un discorso nel quale i commentatori dell’attualità politica hanno cercato e trovato gli immancabili messaggi cifrati che di solito vengono intessuti nella filigrana della solenne retorica da cerimonia. Non è stato difficile individuarli e decriptarli per trovarli coerenti al ruolo che il Quirinale si è cucito addosso da poco più di un anno in qui: il Presidente della Repubblica vuole chiudere il suo settennato preparando il terreno ad una XVII legislatura da Große Koalition, con un governo di unità nazionale guidato da un garante super partes in grado di dar vita a una stagione costituente, nello spirito che non ha mai smesso di ispirare quanti hanno creduto nella convergenza dei più consistenti filoni culturali e politici italiani del Novecento.
Non è mia intenzione argomentare contro questa illusione, l’ho già fatto in più occasioni. Qui mi limiterò a dire che quei filoni hanno cominciato a farsi sempre più eterogenei già negli anni Ottanta, per sfilacciarsi e perdere i loro connotati sociologici negli anni Novanta (quelli culturali avevano subìto sensibili «variazioni» già negli anni Sessanta), per arrivare ad essere a formule vuote di sostanza già da parecchio prima che finisse il millennio: Giorgio Napolitano ripropone la reazione alchemica tentata già tante volte, senz’alcun esito significativo se non nell’amalgama consociativa. C’è, di più, che la Seconda Repubblica ha lasciato ai reagenti solo il loro vecchio nome, che Giorgio Napolitano fa bene a non citare. E tuttavia, sgusciandoli dal baccello, troviamo i soliti piselli gialli e grinzi: «La società italiana sta attraversando una fase di profonda incertezza ed inquietudine, nella quale sarebbe da rivisitare e più fortemente affermare la nozione di “bene comune” o quella di “interesse generale”»; «quel che in Italia acuisce l’incertezza e produce grave disorientamento è l’inadeguatezza del quadro politico ad offrire punti di riferimento, percorso come è da spinte centrifughe e tendenze alla frammentazione»; «i tanti fenomeni di degrado del costume e di scivolamento nell’illegalità, insieme ad annose inefficienze istituzionali ed amministrative, provocano un fuorviante rifiuto della politica»; «basta con contrapposizioni sterili e delegittimazioni reciproche che soffocano il nostro paese e la nostra società»; «dalla schiettezza del dialogo possono venire stimoli e un rilancio morale del paese, che oggi ne ha bisogno come in pochi altri momenti da quando ha ritrovato la libertà»; «[occorre] suscitare tra gli italiani una più diffusa presa di coscienza e mobilitazione morale e civile». Come in Gramsci, in Togliatti e in Berlinguer, è sempre un’emergenza a porre la necessità di mediare: si fa fatica a capire che ogni emergenza che ha conosciuto l’Italia era sempre il frutto di una mediazione precedentemente voluta ad ogni costo.
È qui che il portato politico del discorso che Giorgio Napolitano ha tenuto ad Assisi perde ogni specifico, rimandando l’attenzione a quel substrato culturale che è la nostra damnatio: non abbiamo avuto Riforma, non abbiamo avuto Rivoluzione.
Giorgio Napolitano ha rammentato che «l’Italia risorse, sulle rovine del fascismo, a libertà e democrazia in uno straordinario moto di avvicinamento tra ispirazioni ideali e politiche diverse e apparentemente inconciliabili, ma in effetti già incontratesi nel crogiuolo dell’antifascismo». Bene, chi può negare che fossero davvero inconciliabili? Il ritardo che ci separa dai paesi in cui il progresso fu la materializzazione dialettica dei conflitti è in larga misura dovuta proprio a quel voler conciliare a tutti costi l’inconciliabile. «Così – ha continuato – nel porre le basi di una nuova convivenza e crescita civile e sociale, nessun muro tra posizioni dei credenti e dei non credenti sbarrò la strada alle forze politiche rappresentative delle une e delle altre, come testimonia la storia dell’Assemblea Costituente». Si dovrebbe aggiungere che fu questo ad appiccicarci sul collo la zecca dell’art. 7 della Costituzione: era la premessa a quel genere di convivenza tra credenti e non credenti che ci avrebbe portato inevitabilmente ad uno Stato nello Stato. E invece è proprio nell’art. 7 che Giorgio Napolitano vede la perfetta realizzazione del…
[Questo è quanto avevo scritto ieri sera. Era la prima parte di un post che nella seconda intendeva analizzare i passi di un discorso che a mio parere è stato la summa storica degli errori che ci hanno dannato e che per Giorgio Napolitano, invece, sono scaturigine dei «valori fondamentali» della Costituzione quale «incontro tra due solidarismi, quello cristiano e quello socialista». Il Presidente della Repubblica ha citato passi di Croce, Nitti, La Pira, Marchesi, Elia e Bobbio che hanno in comune una sola cosa: la rassegnazione di un popolo che non ha avuto Riforma né Rivoluzione.
Ero assai indeciso se continuare il post o lasciarlo nella cartella da sempre zeppa di incompiuti. In questo caso, l’indecisione dipendeva dal fatto che su questa damnatio ho scritto centinaia di pagine negli anni passati. Inclinavo a lasciar perdere, quando su Google Reader è arrivato il feed di un post di Luca Sofri che nel discorso di Giorgio Napolitano ha letto roba – scrive – «assolutamente condivisibile e al tempo stesso assolutamente irrilevante, acqua fresca e routine insieme», trovandolo perciò «completamente inefficace», dai «contenuti troppo generici, che non indicano nessun fattore concreto di questa crisi morale, nessuna strada per superarla, nessun responsabile, nessun elemento puntuale». È evidente che deve aver letto solo gli stralci ripresi dagli organi di informazione, alla ricerca – come scrivevo in capo al post – degli «immancabili messaggi cifrati che di solito vengono intessuti nella filigrana della solenne retorica da cerimonia». Luca Sofri non li ha trovati, eppure erano bene in vista: Giorgio Napolitano indica nell’esperienza del governo Monti il preliminare – come ho detto – ad una Große Koalition, a un destra-centro-sinistra ri-costituente.
Era inevitabile, allora, che gli errori di sempre – gli errori che hanno attraversato i sessant’anni e più di vita repubblicana – venissero rievocati come eredità piuttosto che ipoteca. A Luca Sofri, invece, è sfuggito il portato e il portante, sicché ciò che ha detto il Presidente della Repubblica gli offre spunto solo per alcune considerazioni su Matteo Renzi. Si è trattato, invece, di uno dei discorsi più significativi di Giorgio Napolitano e – ahilui, ahinoi – significativo di quanto il peggio della cultura politica italiana ha saputo esprimere nella seconda metà del Novecento: il mito del compromesso, delle larghe intese, della mediazione che spegne o dilaziona i conflitti. Occorre, allora, ripetere ciò che ho scritto tante volte…
Anzi, no, è del tutto inutile. ]
giovedì 4 ottobre 2012
Quel cazzo di Mercurio in Gemelli
Non riesco a godermi niente troppo a lungo, sarà quel cazzo di Mercurio in Gemelli che mi rende volubile, sempre in cerca di nuovi stimoli. La scorsa settimana, per esempio, non mi sono perso una sola mancata messa in onda di Qui Radio Londra: alle otto e mezzo in punto ero su Raiuno per la fine del tg, il blocco pubblicitario e l’inizio di Affari tuoi. Molto bello, devo dire. Eccitante, se vogliamo. Già venerdì, però, ho sentito che la tensione calava. Ho insistito lunedì, martedì mi è scappato uno sbadiglio, ieri non sono riuscito ad arrivare alla sigla di testa di Affari tuoi: Giuliano Ferrara mi annoiava anche da assente.
Non mi quadra
«Nel
decreto di sequestro della procura di Roma sui beni di Franco Fiorito, è stato
disposto che le tre auto, la Jeep, il Bmw e la Smart, siano affidate alla
Guardia di Finanza per attività di polizia giudiziaria. Mentre il denaro dei
conti correnti italiani sarà trasferito al Fondo Unico per la Giustizia»
(ansa.it, 4.10.2012). Sarò tonto, ma non mi quadra.
Il
denaro che Franco Fiorito ha sottratto dalla cassa del gruppo consiliare del
Pdl della Regione Lazio, a chi apparteneva? Insomma, ha rubato allo Stato o al
Pdl? Se non erro, si trattava di fondi che venivano erogati al suo partito in
base ad una legge dello Stato, nella misura stabilita da un decreto della
Giunta regionale approvato a maggioranza. Allora ripeto: ha rubato allo Stato o
al Pdl? Perché il decreto di sequestro dispone che il maltolto torni alle casse
dello Stato invece che a quelle del Pdl? Forse neppure così ho reso l’idea,
provo a spiegarmi meglio.
Vi fa differenza se la banconota che vi sfilo dalla tasca con destrezza io la spendo in ostriche e champagne o per l’acquisto del biglietto aereo che mi porterà in una capitale europea dove si tiene un meeting internazionale contro la tortura? Se il denaro che vi ho costretto a darmi puntandovi un coltello alla gola lo do a una puttana per un pompino o a un mendicante cieco perché suona da dio il suo violino, vi fa differenza? Vedo cadervi dalla giacca il portafogli, non vi avverto, lo raccolgo e lo svuoto: vi fa differenza se spendo quanto vi era contenuto per l’acquisto di due lussuose cravatte o se lo do a un prete perché celebri una messa cantata in suffragio de li mejo mortacci mia? A me no, non farebbe alcuna differenza, ma devo essere un’eccezione, perché, su quanto va emergendo riguardo ai fondi che la Regione Lazio erogava ai gruppi di tutti partiti politici rappresentati in seno al Consiglio Regionale, senza eccezioni, rilevo tanta indignazione sul modo in cui stato speso il maltolto, ma ne rilevo assai poca sul fatto che quello fosse denaro pubblico.
Non voglio trascurare il fatto che in un moto d’animo come l’indignazione l’elemento morale sia inevitabilmente destinato a giocare un ruolo primario, ma questo non riesce comunque a darmi piena spiegazione del perché a chi gira la tangente al proprio partito o drena una fetta dell’erario alla propria chiesa, almeno in Italia, sia concessa l’attenuante che di solito si nega a chi commetta lo stesso sopruso ma a esclusivamente a proprio beneficio.
Ci eravamo espressi in stragrande maggioranza contro il finanziamento pubblico della politica, ma siamo ancora disposti a chiudere un occhio se quello che ci viene tolto contro la nostra volontà va alla politica, ci incazziamo a morte solo se apprendiamo che un politico se l’è messo in tasca: ci sentiamo anticlericali solo per la parte che se ne va in camauri foderati in ermellino, mentre quella spesa in due minestrine alla mensa dei poveri non ci sembra più refurtiva. Finanziare un partito di tasca nostra? Mettere mano alla borsa per sfamare un indigente? Sì, probabilmente lo faremmo e ma se ci è tolta la libertà di farlo o di non farlo, pazienza, il furto si sopporta meglio.
Vi fa differenza se la banconota che vi sfilo dalla tasca con destrezza io la spendo in ostriche e champagne o per l’acquisto del biglietto aereo che mi porterà in una capitale europea dove si tiene un meeting internazionale contro la tortura? Se il denaro che vi ho costretto a darmi puntandovi un coltello alla gola lo do a una puttana per un pompino o a un mendicante cieco perché suona da dio il suo violino, vi fa differenza? Vedo cadervi dalla giacca il portafogli, non vi avverto, lo raccolgo e lo svuoto: vi fa differenza se spendo quanto vi era contenuto per l’acquisto di due lussuose cravatte o se lo do a un prete perché celebri una messa cantata in suffragio de li mejo mortacci mia? A me no, non farebbe alcuna differenza, ma devo essere un’eccezione, perché, su quanto va emergendo riguardo ai fondi che la Regione Lazio erogava ai gruppi di tutti partiti politici rappresentati in seno al Consiglio Regionale, senza eccezioni, rilevo tanta indignazione sul modo in cui stato speso il maltolto, ma ne rilevo assai poca sul fatto che quello fosse denaro pubblico.
Non voglio trascurare il fatto che in un moto d’animo come l’indignazione l’elemento morale sia inevitabilmente destinato a giocare un ruolo primario, ma questo non riesce comunque a darmi piena spiegazione del perché a chi gira la tangente al proprio partito o drena una fetta dell’erario alla propria chiesa, almeno in Italia, sia concessa l’attenuante che di solito si nega a chi commetta lo stesso sopruso ma a esclusivamente a proprio beneficio.
Ci eravamo espressi in stragrande maggioranza contro il finanziamento pubblico della politica, ma siamo ancora disposti a chiudere un occhio se quello che ci viene tolto contro la nostra volontà va alla politica, ci incazziamo a morte solo se apprendiamo che un politico se l’è messo in tasca: ci sentiamo anticlericali solo per la parte che se ne va in camauri foderati in ermellino, mentre quella spesa in due minestrine alla mensa dei poveri non ci sembra più refurtiva. Finanziare un partito di tasca nostra? Mettere mano alla borsa per sfamare un indigente? Sì, probabilmente lo faremmo e ma se ci è tolta la libertà di farlo o di non farlo, pazienza, il furto si sopporta meglio.
mercoledì 3 ottobre 2012
lunedì 1 ottobre 2012
Lana e latte
Il decreto emanato la scorsa settimana dalla Conferenza episcopale tedesca poteva destare sorpresa solo in chi ignorasse che in Germania non è mai venuto meno l’obbligo di decima che per oltre un millennio il laico ha dovuto versare al chierico: i vescovi tedeschi non hanno fatto altro che mettere meno su bianco una regola da tempo scolorita in usanza, tuttavia messa in discussione solo da chi ai tempi della Riforma da cattolico diventava protestante. Qui da noi l’obbligo di decima è venuto meno nel 1887, sarà per questo che in Italia i commenti alla notizia sono stati più scandalizzati che in Germania. La cosa più strana, però, è che nessun vaticanista ha spiegato cosa sia davvero la Kirchensteuer che prima del 20 settembre era usanza ed ora è regola: ho letto due o tre dozzine di articoli sull’argomento, ma non ho trovato un solo cenno alla decima, che ne è la sostanza.
Non vi annoierò col trattatello di storia, vi rimando alla pagina che mi pare sintetizzi meglio i termini della questione così come s’è venuta a delineare nel corso dei secoli. Vorrei però richiamare l’attenzione su ciò che spiega perché una tassa di franca impronta feudale sia riuscita a residuare proprio in Germania. Le due gambe con le quali la Riforma mosse i suoi primi passi furono la Bibbia in volgare e il rifiuto dell’autorità romana nelle sue emanazioni ecclesiastiche coincidenti e spesso sovrapposte a quelle civili: un cristiano che intendesse rimanere cattolico in una terra in cui il protestantesimo diventava confessione maggioritaria non aveva altro modo per ribadire la propria fedeltà a Roma che nel continuare ad accostarsi ai testi sacri adeguatamente interpretati da un chierico al quale versare quella tassa che fin dal XII secolo a. C. (Lv 27, 30-32) era stata fissata per la mediazione tra cielo e terra. Già sei o sette secoli dopo abbiamo prova che tra gli ebrei più di un furbetto la evadesse: promettendo «benedizioni sovrabbondanti» se il tributo fosse regolarmente versato, minacciando di mandare «insetti divoratori» a distruggere i raccolti se non fosse fatto, il Signore ingiungeva: «Portate le decime intere nel tesoro del tempio perché ci sia cibo nella mia casa» (Ml 3, 10). Il problema di sempre: i sacerdoti devono pregare, non hanno tempo per lavorare, qualcuno deve pur pensare a riempir loro la pancia. Siamo al nocciolo del problema: se tra cielo e terra c’è bisogno di un ponte, c’è bisogno anche di un pontifex e del pagamento di un pedaggio.
Nel IV tomo della sua Istoria del Concilio di Trento, il cardinale Pietro Sforza Pallavicini registrava quanto la Conferenza episcopale tedesca avrebbe ribadito alcuni secoli dopo, niente di più: «Le decime si paghino interamente alle chiese alle quali toccano. Chi le sottrarrà o le impedirà, si scomunichi».
In Germania non s’è consumato alcuno scandalo, si è solo riaffermato che il gregge deve al pastore quanto è necessario in lana e in latte. Magari si facesse la stessa chiarezza nei paesi di tradizione cattolica come il nostro: alla Chiesa di Roma andrebbe dal 3 all’8 per cento del reddito netto di ogni cattolico intenzionato a restar tale, per tutti gli altri verrebbe meno l’obbligo che di fatto, invece, pesa su tutti.
La Prestigiacomo lascia il Pdl: «Sono disgustata»
Come disse quella che facendo la doccia dopo il bukkake trovò un pelo di cazzo sulla saponetta.
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