Ieri, ad Assisi, Giorgio Napolitano ha tenuto un discorso nel quale i commentatori dell’attualità politica hanno cercato e trovato gli immancabili messaggi cifrati che di solito vengono intessuti nella filigrana della solenne retorica da cerimonia. Non è stato difficile individuarli e decriptarli per trovarli coerenti al ruolo che il Quirinale si è cucito addosso da poco più di un anno in qui: il Presidente della Repubblica vuole chiudere il suo settennato preparando il terreno ad una XVII legislatura da Große Koalition, con un governo di unità nazionale guidato da un garante super partes in grado di dar vita a una stagione costituente, nello spirito che non ha mai smesso di ispirare quanti hanno creduto nella convergenza dei più consistenti filoni culturali e politici italiani del Novecento.
Non è mia intenzione argomentare contro questa illusione, l’ho già fatto in più occasioni. Qui mi limiterò a dire che quei filoni hanno cominciato a farsi sempre più eterogenei già negli anni Ottanta, per sfilacciarsi e perdere i loro connotati sociologici negli anni Novanta (quelli culturali avevano subìto sensibili «variazioni» già negli anni Sessanta), per arrivare ad essere a formule vuote di sostanza già da parecchio prima che finisse il millennio: Giorgio Napolitano ripropone la reazione alchemica tentata già tante volte, senz’alcun esito significativo se non nell’amalgama consociativa. C’è, di più, che la Seconda Repubblica ha lasciato ai reagenti solo il loro vecchio nome, che Giorgio Napolitano fa bene a non citare. E tuttavia, sgusciandoli dal baccello, troviamo i soliti piselli gialli e grinzi: «La società italiana sta attraversando una fase di profonda incertezza ed inquietudine, nella quale sarebbe da rivisitare e più fortemente affermare la nozione di “bene comune” o quella di “interesse generale”»; «quel che in Italia acuisce l’incertezza e produce grave disorientamento è l’inadeguatezza del quadro politico ad offrire punti di riferimento, percorso come è da spinte centrifughe e tendenze alla frammentazione»; «i tanti fenomeni di degrado del costume e di scivolamento nell’illegalità, insieme ad annose inefficienze istituzionali ed amministrative, provocano un fuorviante rifiuto della politica»; «basta con contrapposizioni sterili e delegittimazioni reciproche che soffocano il nostro paese e la nostra società»; «dalla schiettezza del dialogo possono venire stimoli e un rilancio morale del paese, che oggi ne ha bisogno come in pochi altri momenti da quando ha ritrovato la libertà»; «[occorre] suscitare tra gli italiani una più diffusa presa di coscienza e mobilitazione morale e civile». Come in Gramsci, in Togliatti e in Berlinguer, è sempre un’emergenza a porre la necessità di mediare: si fa fatica a capire che ogni emergenza che ha conosciuto l’Italia era sempre il frutto di una mediazione precedentemente voluta ad ogni costo.
È qui che il portato politico del discorso che Giorgio Napolitano ha tenuto ad Assisi perde ogni specifico, rimandando l’attenzione a quel substrato culturale che è la nostra damnatio: non abbiamo avuto Riforma, non abbiamo avuto Rivoluzione.
Giorgio Napolitano ha rammentato che «l’Italia risorse, sulle rovine del fascismo, a libertà e democrazia in uno straordinario moto di avvicinamento tra ispirazioni ideali e politiche diverse e apparentemente inconciliabili, ma in effetti già incontratesi nel crogiuolo dell’antifascismo». Bene, chi può negare che fossero davvero inconciliabili? Il ritardo che ci separa dai paesi in cui il progresso fu la materializzazione dialettica dei conflitti è in larga misura dovuta proprio a quel voler conciliare a tutti costi l’inconciliabile. «Così – ha continuato – nel porre le basi di una nuova convivenza e crescita civile e sociale, nessun muro tra posizioni dei credenti e dei non credenti sbarrò la strada alle forze politiche rappresentative delle une e delle altre, come testimonia la storia dell’Assemblea Costituente». Si dovrebbe aggiungere che fu questo ad appiccicarci sul collo la zecca dell’art. 7 della Costituzione: era la premessa a quel genere di convivenza tra credenti e non credenti che ci avrebbe portato inevitabilmente ad uno Stato nello Stato. E invece è proprio nell’art. 7 che Giorgio Napolitano vede la perfetta realizzazione del…
[Questo è quanto avevo scritto ieri sera. Era la prima parte di un post che nella seconda intendeva analizzare i passi di un discorso che a mio parere è stato la summa storica degli errori che ci hanno dannato e che per Giorgio Napolitano, invece, sono scaturigine dei «valori fondamentali» della Costituzione quale «incontro tra due solidarismi, quello cristiano e quello socialista». Il Presidente della Repubblica ha citato passi di Croce, Nitti, La Pira, Marchesi, Elia e Bobbio che hanno in comune una sola cosa: la rassegnazione di un popolo che non ha avuto Riforma né Rivoluzione.
Ero assai indeciso se continuare il post o lasciarlo nella cartella da sempre zeppa di incompiuti. In questo caso, l’indecisione dipendeva dal fatto che su questa damnatio ho scritto centinaia di pagine negli anni passati. Inclinavo a lasciar perdere, quando su Google Reader è arrivato il feed di un post di Luca Sofri che nel discorso di Giorgio Napolitano ha letto roba – scrive – «assolutamente condivisibile e al tempo stesso assolutamente irrilevante, acqua fresca e routine insieme», trovandolo perciò «completamente inefficace», dai «contenuti troppo generici, che non indicano nessun fattore concreto di questa crisi morale, nessuna strada per superarla, nessun responsabile, nessun elemento puntuale». È evidente che deve aver letto solo gli stralci ripresi dagli organi di informazione, alla ricerca – come scrivevo in capo al post – degli «immancabili messaggi cifrati che di solito vengono intessuti nella filigrana della solenne retorica da cerimonia». Luca Sofri non li ha trovati, eppure erano bene in vista: Giorgio Napolitano indica nell’esperienza del governo Monti il preliminare – come ho detto – ad una Große Koalition, a un destra-centro-sinistra ri-costituente.
Era inevitabile, allora, che gli errori di sempre – gli errori che hanno attraversato i sessant’anni e più di vita repubblicana – venissero rievocati come eredità piuttosto che ipoteca. A Luca Sofri, invece, è sfuggito il portato e il portante, sicché ciò che ha detto il Presidente della Repubblica gli offre spunto solo per alcune considerazioni su Matteo Renzi. Si è trattato, invece, di uno dei discorsi più significativi di Giorgio Napolitano e – ahilui, ahinoi – significativo di quanto il peggio della cultura politica italiana ha saputo esprimere nella seconda metà del Novecento: il mito del compromesso, delle larghe intese, della mediazione che spegne o dilaziona i conflitti. Occorre, allora, ripetere ciò che ho scritto tante volte…
Anzi, no, è del tutto inutile. ]
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