1. Ho scritto già due post sul Comitato nazionale di Radicali italiani tenutosi lo scorso fine settimana, e probabilmente un terzo è troppo. Il fatto è che mai come in questa occasione, dopo una sconfitta che per essi è stata assai più che elettorale, i radicali si sono messi in discussione in quanto radicali.
È accaduto che, nel cercare le cause di un così duro responso delle urne, cinque o sei radicali sui sessantaquattro che hanno preso la parola (forse sette) sono arrivati a mettere in discussione, o comunque ad andare assai vicino a mettere in discussione, non già la tattica in questa o in quella scelta giudicata infelice, ma la stessa strategia, addirittura la teoria della prassi radicale e, insomma, hanno sfiorato in più punti un nervo ormai scoperto: la natura stessa della cosa radicale, nel suo carattere settario e oltranzista, nella sua struttura (ormai dichiaratamente) di tipo monastico, nella cifra carismatica della sua guida, nell’impenetrabilità della situazione proprietaria e – paradossalmente – nel suo deficit di laicità, di democrazia, di trasparenza.
Ne ha fatto le spese Giulia Innocenzi, che è stata troppo poco implicita nel criticare la linea tenuta in Commissione vigilanza Rai (proposta di regolamento a firma di Marco Beltrandi, approvato coi voti del Pdl, e che ha di fatto portato al blocco delle trasmissioni di approfondimento politico), offrendosi ad una esemplare reazione di tipo inquisitorio, ma non per cattiveria: giusto per richiamare all’obbedienza gli altri estemporanei eretici.
Accusata di essere una creatura partorita dai media del regime, in quota ai “buoni a nulla” (per giunta della bottega di Santoro, che da sempre sta un po’ sul cazzo a Pannella), e inoculata nel corpo mistico radicale per corromperlo alla basse logiche di opportunismo partitocratico.
Minaccia sventata, a detta di Pannella, perché il suo “intervento era piuttosto scontato”, ha suggestionato due o tre fessi che l’hanno riverberato, ma “non vale la pena di dargli troppo valore”.
Sistemata la Innocenzi come agente provocatore del regime infiltratosi nella purezza della riflessione post-elettorale radicale (per fortuna con poco danno, perché Pannella se ne è accorto subito e lo ha neutralizzato), gli altri quasi-dissidenti sono sistemati con lei.
Anche perché essendo stati molto più impliciti, hanno solo sfiorato il nervo scoperto, e si può far finta che non abbiano detto niente di importante.
2. È andata persa un’occasione unica per i radicali, forse l’ultima, e i radicali si giocavano tutto, con in mano le solite carte, risultate anche stavolta deboli. Colpa del mondo che sta fuori da quello stanzone di via di Torre Argentina, ok, ma maledettamente deboli.
Alcuni lo sentono, riescono perfino ad articolare una critica a quelle carte, ma i loro interventi vengono abilmente liquidati come riverberi della provocazione della Innocenzi. Se al suo intervento “non vale la pena di dar troppo valore”, figuriamoci agli altri.
Raffaele Ferraro parla di “uno scandalo di firme false” nel quale sarebbe implicato un dirigente radicale veneto. L’avesse fatto Zaia, subito sciopero della fame: qui, sciocchezze.
Simone Sapienza dice: “Siamo un partito che per sopravvivere è dovuto venire a patti che hanno minato la sua essenza, siamo un partito che campa di finanziamento pubblico, siamo un partito che senza l’aiuto del Pd non sarebbe riuscito a raccogliere le firme in molte delle poche regioni nelle quali siamo riusciti a presentare le nostre liste… Questo è un partito che da anni non riesce più a raccogliere firme, questo è un partito che compone le sue liste senza che nessuno sappia con quale metodo, è un partito che ha un bilancio patrimoniale che è dato conoscere né discutere… Questo è un partito che nella sua forma interna non riesce più a descrivere la tesi che dice di voler portare all’esterno: è così quando si accetta che tutti i dirigenti siano economicamente dipendenti dal partito, quando si sfrutta il precariato come fanno tutti…”. Sciocchezze.
Silvio Viale si lamenta di scelte che da Roma piovono in periferia e di cui poi nessuno si assume la responsabilità: un “partito romano” che sacrifica le energie periferiche e che lo ha costretto a ritirare la sua candidatura per fare un piacere al Pd, che aveva posto il veto sul suo nome… Quando fu posto su quello di Luca Coscioni, altra storia… E il metodo? Sciocchezze.
Maurizio Turco sente un deficit di cultura liberale, ma “noi – dice – non abbiamo altra possibilità se non quella di interloquire con il Pd. Ma interloquire per fare cosa? Per fare quello che ci veniva spiegato da altri compagni che poi se ne sono andati: per inocularvi il metodo liberale. Sennò che andiamo a fare nel Pd?”. Sciocchezze.
Diego Galli segnala dei grossi limiti nella comunicazione radicale. Non dice che è ferma agli anni ’70, in ossessiva e compulsiva aderenza alle stagioni delle grandi vittorie radicali, ma ormai logora e controproducente, ma lo fa capire, molto molto molto implicitamente lo fa capire. Sciocchezze.
Annalisa Chirico è un po’ più esplicita: “Possiamo anche consolarci della sconfitta dicendo che è dovuta all’asse Berlusconi-Bagnasco, peccato che in campagna elettorale abbiamo detto che il voto cattolico non ne fosse influenzato, che i cattolici erano quelli che ci avevano aiutato ai referendum sul divorzio e sull’aborto, che vanno differenziati dai clericali… Abbiamo perso perché non siamo stati abbastanza in tv? Ma Beppe Grillo quanto c’è stato?... O chiudiamo la baracca o la ricostruiamo dalla base… Noi invece continuiamo a guardare indietro, siamo un partito uguale a se stesso…”. Sciocchezze, evidentemente.
Ci sarebbe pure Lorenzo Lipparini, ma lui non conta: già bollato da Pannella come soggetto “antropologicamente democristiano”, e va’ a capire che significa. A orecchio, però, non suona bene: si ignori il signorino, non esiste.
3. Forse sono davvero tutte sciocchezze, ha ragione Pannella, perché questo Comitato nazionale di Radicali italiani ha sfornato una mozione generale approvata all’unanimità (con due astenuti), una mozione che te la raccomando, impermeabile ad ogni sciocchezza.
Dal parlare al non votare contro, dal parlare al votare come se non si fosse parlato, dal parlare al non dimettersi, giusto per dar un po’ di forza a ciò che si è detto – da quello a questo – tutte le parole diventano sciocchezze.