venerdì 23 aprile 2010

Segnalazione

Molte sagge parole (di Federica Sgaggio, via Luca Massaro).

Soldi buttati


La minaccia di azioni legali che ha costretto gli amministratori di Wikipedia a rimuoverla non lo specificava, sicché non si è mai capito cosa desse fastidio ad Antonio Angelucci di quanto alla voce che gli era dedicata, e non mi pare contenesse imprecisioni.
Non ne dà spiegazione neanche un suo autorevole famiglio, che a Ottoemezzo (La7, 23.4.2010) dice un gran bene di Wikipedia, sottolineando la possibilità di rettificare quanto di inesatto ciascuno abbia lì a leggere sul proprio conto.

Uno paga un dipendente, lo paga per produrre informazione, e quello non lo informa? Soldi buttati.  

Riparo



L’intervento di Gianfranco Fini alla Direzione del Pdl mi è piaciuto molto, ma più tutto m’è piaciuto il passaggio in cui ha detto:

“Ecco, per esempio, consentite che vi legga due righe prese dalle brevi in cronaca: «A Paderno, in provincia di Udine, una bimba appena nata è stata sepolta con rito islamico in un’area del cimitero che mesi fa il comune aveva riservato ai tanti fedeli musulmani residenti in zona. Questa cosa ha fatto storcere il naso alla Lega Nord, che per protesta ha organizzato un volantinaggio in occasione della tumulazione della piccola. Già in passato alcuni esponenti del Carroccio avevano presentato una raccolta di 1.700 firme ed una fiaccolata per eliminare la zona cimiteriale riservata ai musulmani. Ad appoggiare la protesta vi è stato anche il consigliere comunale del Pdl, Loris Michelini, che attraverso le segnalazioni di alcuni residenti ha deciso di portare la vicenda in consiglio». Amici del Pdl, vorreste convincermi che io sono un traditore e che questo Loris Michelini è uno fedele al partito? Ma mettetevi in ginocchio e baciatemi la punta dell’uccello. E attenzione alla cravatta: ci tengo, è un regalo della Betty”.
Ah, che leader!

Nota
Solo oggi recupero una notizia ormai vecchia più d’una settimana, e che a me pare enorme, sicché comincio col cercare di spiegarmi come possa essermi sfuggita e, mentre cerco, capisco perché cerco: mi ha fatto un male cane, mi sento in colpa per non averle lasciato modo di farmi male prima, subito, come meritava. Subentrano i meccanismi di difesa e comincio a riparare la ferita: i tg non ne hanno parlato, i giornali che l’hanno fatto vi hanno dato poco peso, non più di una dozzina di blogger hanno ripreso la notizia… Non mi basta, rimango ferito. L’Unità, per esempio, ne aveva parlato, ma io la leggo solo saltuariamente. E allora comincio a farmene una colpa, che riesco ad attenuare solo con un trucchetto un pochino disonesto, che vado subito a rivelare. Pare che il Pd voglia vendere l’Unità agli Angelucci e metterci Polito a dirigerla: se quello che una decina di giorni fa è accaduto a Paderno fosse accaduto ad affare fatto, non avrei comunque potuta apprenderla da l’Unità, perché non ve n’era cenno neanche su il Riformista, anche se questo lo so solo adesso, perché non lo leggo più da tempo.
E allora comincio a prendermela con questi cazzo di blog che ho fra preferiti, feed, blogroll e reader: più di duecento in tutto, e nessuno che abbia ritenuto degna la notizia di due righe. Pesco a caso un capro espiatorio – quello stronzone di Jimmomo, che proprio oggi mi ha fatto girare furiosamente le palle con il suo solito compitino perbenino sulle virtù di Pdl e Lega – e comincio a maledirlo ben benino, ma poi smetto subito, poveraccio, sennò dovrei pigliarmela pure con tutti i megablog da venti post al giorno... Niente, non riesco a trovar pace, la notizia continua a farmi un male della madonna, non so come neutralizzarla… Poi però trovo un rimedio: la piglio da dove l’ho presa, ci metto le dovute virgolette e la incastono in una fiction. Naturalmente tutta questa premessa mi torna inutile, eventualmente la userò come nota in coda.

"Non mi basta eliminare gli zaini dalle spalle dei bambini e dei ragazzi"




Date a Cesare quel che è di Cesare


“È stata presentata al tribunale federale di Milwaukee in Wisconsin, da un uomo dell’Illinois, la denuncia nei confronti della Santa Sede, di Papa Benedetto XVI e dei cardinali Angelo Sodano e Tarcisio Bertone per aver coperto un prete del Wisconsin che ha abusato di lui quando era ragazzo” (ansa.it, 23.4.2010).

Un galantuomo


Fra i servi in platea, almeno da quanto è andato in video, Gaetano Quagliariello sembrava il più irritato dalle cose dette da Gianfranco Fini, anzi, sembrava quello che più teneva a mostrare la sua personale irritazione, e si può capire: veniva infranto il principio di quel “nuovo centralismo democratico” che aveva teorizzato sei mesi fa, a novembre, quando gli dava forma nell’assunto di William E. Gladstone: “Tra la propria coscienza e il proprio partito, un gentiluomo sceglie sempre il partito”. Teneva a mostrare quanto è galantuomo, Quagliariello.

In fondo, in fondo, in fondo



“Sta facendo quello che io gli consigliavo di fare cinque o anche dieci anni fa, quando ero direttore dell’Indipendente” (Il Sole-24Ore, 22.4.2010).
Gianfranco Fini sta facendo quello che gli consigliava Giordano Bruno Guerri, quello che non ha mai smesso di consigliargli, neanche dopo essere stato sollevato dalla direzione de L’Indipendente, di cui era editore un finiano, Italo Bocchino.
Fu nel 2005. Di lì a qualche mese ci sarebbero state le elezioni regionali e L’Indipendente tornava scomodo presso il tradizionale elettorato di An con tutto quel parlare di «nuova destra», una destra che Guerri non si è mai stancato di auspicarsi “davvero liberale, liberista e anche libertaria” (il Giornale, 20.7.2006): licenziarono Guerri e al suo posto misero Malgieri.)

A quei tempi, ero molto scettico sul fatto che i consigli di Guerri potessero essere raccolti da Fini, e pensavo che quella «nuova destra», nel caso, stesse in fondo ad un lunghissimo percorso. Le ragioni del mio scetticismo interessarono in qualche modo Guerri, che mi chiese di collaborare al suo giornale. Durò solo nove mesi (una trentina di articoli e un centinaio di corsivi), perché interruppi quella collaborazione quando pensai di aver vinto la scommessa: il licenziamento di Guerri mi sembrò la prova che quella sua «nuova destra» fosse impossibile.

Su cosa potesse essere, questa «nuova destra», pochi mesi prima mi ero espresso così:

Il termine «cultura» è sommamente ambiguo. Può indicare l’insieme delle conoscenze fatte proprie da un gruppo più o meno esteso di individui, come cifra distintiva di carattere antropologico. Ma può indicare anche il comune patrimonio di pensiero, espresso nelle forme della produzione intellettuale, che quel gruppo prende a referente. Può indicare anche lo sviluppo di una tradizione di pratiche condivise, caratterizzate da comuni elementi di articolazione storica. E può indicare anche, soltanto, il minimo comune multiplo che lega eterogenee esperienze di ricerca in campo intellettivo, artistico e scientifico.
Il termine «cultura» tocca il punto più alto della sua ambiguità quando si fa tassonomia di queste esperienze, compilando liste di autorità in questi campi, affiliando ad esse il ruolo di numi tutelari, orse maggiori nel cammino delle elaborazioni individuali, sistemi, protocolli. Di qui l’ambiguità degenera nell’indistinto di consorteria, mero avamposto della secolarizzazione, carta geopolitica del prestigio e del fascino mondano, accademizzazione, cattedra e cattedrale, famiglia mafiosa di questo o quel mandamento filosofico, letterario, politico (in senso lato).
Il sommo grado di ambiguità del termine «cultura» si realizza, così, nella comune utensileria che un dato sistema produttivo (una catena di produzione intellettuale nella sua piena articolazione) si tramanda da generazione a generazione di monopolisti. La norma a regime è l’inscrizione a egemonia.
L’ambiguità che, invece, attiene ai termini di «destra» e «sinistra», su una ormai logora polarità che fondò il suo asse nella nascita e nello sviluppo della cultura politica come bastione di frontiere oggi irriconoscibili, è ambiguità di categoria socio-storica. Quando se ne adotta il metro è per mera impossibilità a muoversi in un territorio che è faglia perpetua. Fin dall’inizio, fin dal momento in cui nella Palestra della Pallacorda si disposero file di sedie su un lato e file di sedie sull’altro, il confine tra «destra» e «sinistra» si aprì in diastasi di impraticabilità politica, qui, e si sovrappose in aree di irrisolta similitudine, lì. Qualche momento di diastasi minacciò di ingoiare la differenza: per horror vacui la Storia riempì l’abisso di centrismo, e sopra vi eresse monumenti di moderatismo, tregue e sospensioni, ponti sulla faglia. Più spesso, il confine collassò, sovrapponendo i diversi: sinistre fasciste, nazi-maoismi, per dirne due.

Data l’ambiguità di questi termini, è materia di vertigine pensare, dire e scrivere «cultura di destra» e «cultura di sinistra». Però lo si pensa, lo si dice, lo si scrive. Vertigine nella vertigine è il caso davvero strano che per «cultura di sinistra» si possa dire dove sia (non «cosa sia», perché l’identificazione è topografica, dunque storica) “l’insieme delle conoscenze fatte proprie da un gruppo più o meno esteso di individui come cifra distintiva di carattere antropologico”, dove sia “il comune patrimonio di pensiero, espresso nelle forme della produzione intellettuale, che quel gruppo prende a referente”, dove sia “lo sviluppo di una tradizione di pratiche condivise” e – soprattutto, oggi, nel punto in cui l’umile sottoscritto verga queste note chiocce per un giornale della «nuova destra» – dove sia la “consorteria” di sinistra, la mafia delle cattedre, delle società editrici, delle fondazioni para-, peri- e meta-partitiche, delle congreghe, delle cooperative, delle conventicole – di «sinistra». La «cultura di destra»? Direbbe Adriano Romualdi che “non esiste una cultura di destra”, perché a corto di “organizzazione, danaro e propaganda”, ma anche perché “a sinistra si sa bene quel che si vuole [...], a destra si brancola nell’incertezza, nell’imprecisione ideologica”.
Cattolici (sedevacantisti, lefebvriani, tradizional-popolari, lepantisti, fascio-tradizionalisti, carlisti, neoborbonici, ecc.) e non cattolici (tradizional-comunitari, evoliani, esoterici-ermetici, neopagani, guenoniani, tradizionalisti-non tradizionalisti, ecc.). Oltre: conservatorismo e rivoluzionalismo, ribellismo e perbenismo, ateismo e spiritismo, nazionalismo e universalismo, corporativismo e liberismo, futurismo e dada. Non c’è una destra. Le destre sono tante quante gli uomini che si dicono “di destra”, e ciascuno d’essi ha la sua cultura: qui codina e bigotta, lì dissennata e insistematizzabile; qui democratica, lì elitaria; qui accademica, lì anti-accademica. L’unico valore comune a tutte è l’individualismo. E l’unico portato politico-culturale che nel terzo millennio questo individualismo può far proprio è il liberalismo, per non esaurirsi.

La cultura della «nuova destra», a ben vedere, non rimuove e non esorcizza le sue diverse anime, le ricompone in esperienze di una stessa anima, desistematizzandole da Weltanshauung. L’approdo al metodo, più che alla sostanza, del liberalismo ne fa mezzi invece che inarrivabili fini, e forse anche dispositivi etico-estetici di conoscenza.
La «nuova destra» vuole rinunciare alla Verità Assoluta. Comincia – ma lentamente – a capire che essa è intraducibile nel nomos dello Stato Etico, ove l’individuo è uno solo se organico, per reductio. E l’unica rivoluzione che non abortirà – qui lo si crede, fidando più nella pazienza che nel fervore. Ma questo ovviamente è in fondo, in fondo, in fondo.
(L’Indipendente, 20.10.2004)
Ma in fondo, in fondo, in fondo.

giovedì 22 aprile 2010

La cosiddetta "allucinazione collettiva"



Trovato il “castello cattivissimo” che sembrava esistere solo nella fantasia dei bambini di Rignano Flaminio, corrisponde esattamente alle loro descrizioni.  

Giornata della Terra


Per la Giornata della Terra, questo 22 aprile, Magazine manda in edicola un numero monotematico, tutto ecologico. Tanto ecologico che a pag. 130 si pubblicizza un notebook “a basso impatto ambientale”: a renderlo tale, “dettagli in fibra di bambù”.
È un’idea da suggerire a chi produce frigoriferi: un bel rivestimento in fibra di bambù e il freon non è più un problema.

Monsignor Rino Fisichella ha detto un mucchio di stronzate


Intervistato da Franca Giansoldati per Il Gazzettino (21.4.2010), monsignor Rino Fisichella ha detto un mucchio di stronzate: “Il presidente Berlusconi essendosi separato dalla seconda moglie, la signora Veronica, con la quale era sposato civilmente, è tornato ad una situazione, diciamo così, ex ante. Il primo matrimonio era un matrimonio religioso. È il secondo matrimonio, da un punto di vista canonico, che creava problemi. È solo al fedele separato e risposato che è vietato comunicarsi, poiché sussiste uno stato di permanenza nel peccato. A meno che, ovviamente, il primo matrimonio non venga annullato dalla Sacra Rota. Ma se l’ostacolo viene rimosso, nulla osta”.
Qui gli vien chiesto: “Con la separazione dalla signora Veronica, il presidente Berlusconi è nelle condizioni di accostarsi alla comunione dato che non vive più in uno stato di permanenza di peccato?”. E Sua Eccellenza: “Esattamente”.

Esattamente, un cazzo. O Fisichella non conosce il Codice di Diritto Canonico, e allora sarebbe il caso stesse zitto, o lo conosce, ma ne dà una lettura stravolgente. La cosa più inquietante, tuttavia, non è che Fisichella dica stronzate, ma che nessuno glielo dica. Almeno fino ad ora, infatti, nessuno gli ha fatto presente che quella “situazione, diciamo così, ex ante” sarebbe realizzata solo – ripeto: solo – qualora Berlusconi tornasse dalla prima moglie. Il che non è accaduto.
La Chiesa, è vero, “non riconosce come valida una nuova unione, se era valido il primo matrimonio” (Catechismo, 1650). Ma il divorzio tra Berlusconi e la prima moglie non l’ha reso invalido (solo l’annullamento della Sacra Rota avrebbe potuto): agli occhi di Dio, è ancora il marito della signora Carla Dall’Oglio, alla quale s’è unito in matrimonio con rito religioso nel 1965.

Monsignor Rino Fisichella applica al caso di Berlusconi, ma assai impropriamente, la normativa relativa alla cosiddetta “separazione con permanenza del vincolo” (Codice di Diritto Canonico, libro IV, parte I, titolo VII, capitolo IX, articolo 2, cann. 1152-1155).
Qui, siamo dinanzi al caso in cui un coniuge, tradito dall’altro, non riesca a perdonargli l’adulterio: la Chiesa gli concede “il diritto di sciogliere la convivenza coniugale” (1151), non già di considerare sciolto il vincolo matrimoniale, tanto meno di potersi risposare. E tuttavia, “cessata la causa della separazione [che il Fisichella vede cessata anche se il secondo matrimonio non è ancora formalmente sciolto], si deve ricostituire la convivenza coniugale” (1153).
Ora, anche volendo considerare cessata la “causa della separazione” tra Berlusconi e la Dall’Oglio, non si ha notizia della loro “ricostituzione della convivenza coniugale”. E dunque Sua Eccellenza straparla.
La cosa più grave, però, è che nessuno – né chierico, né laico – intervenga a correggerlo.


A parte
Ci sarebbe un’altra questione, tutt’altro che secondaria, e cioè se Berlusconi si sia accostato all’eucaristia previa confessione. Tutt’altro che secondaria, perché, salvo quanto fin qui detto, se non ci fosse stata confessione, si tratterebbe di sacrilegio. E tuttavia questo pare non meritare troppa attenzione da monsignor Rino Fisichella.
“Sapevo che Berlusconi era divorziato”, ha ammesso il prete che gli ha somministrato l’eucaristia, ma non sapeva se l’aveva confessato prima?

Nuit blanche


Un gran bel farsi male



Premette: “Sarò serio”. Conclude: “Siamo fottuti”. In mezzo, esattamente al centro: “La vita si è complicata e suscita ovunque più paura di prima”. Invito alla lettura della lectio magistralis di Formamentis, un gran bel farsi male, e farne.

mercoledì 21 aprile 2010

[...]


Scoprire che la canzoncina dello spot della Audi A3 recita “the cat came back”, e non “the cock in back” come pareva a me, mi tranquillizza.

Ristretti

Numeri sui detenuti in Italia (al 28.2.2010).

Finiani, finioti e finoidi


L’umore del padrone non è sempre desumibile dall’abbottonatura della livrea del suo servo, ma stavolta Gaetano Quagliariello può tornarci utile: venerdì 16 aprile, a Ottoemezzo, distingueva tra finiani e finioti, mentre oggi, su Il Foglio, distingue tra finiani e finoidi. Mantenendo l’iperbole che in quella puntata di Ottoemezzo era nel commento di Stefano Folli sull’andamento della crisi (“è scoppiata la pace”), possiamo dire che alla “pace” si stia arrivando perché l’umore di Silvio Berlusconi non slabbra più le asole semantiche dei suoi.
Pur di non essere costretto a far cadere il governo, andare alle elezioni, vincerle ma facendo ancora più forte la Lega, e cioè Giulio Tremonti, il padrone del Pdl pare disposto a tollerare che nel suo partito si possa rimanere, anche da dirigenti, per una convenienza non coperta da piena ed entusiastica obbedienza. Anche chi non lo ama follemente, e non è disposto a fingere, può rimanere nel Pdl: per un narcisista come lui è un prezzo alto da pagare, ma pure un narcisista sa fare di calcolo sul proprio culo.

Da finioti a finoidi, dunque, ma tenendo ben presente una differenza tra Fini e i finiani sulla quale gli uomini di Berlusconi hanno sempre posto un particolare accento, fin da subito.
Nella costruzione che veniva appaltata a il Giornale di Vittorio Feltri, Fini si muoveva in preda ad un malessere esistenziale che lo portava a tradire se stesso, prima che i suoi. D’altra parte, i suoi colonnelli lo davano per “malato” già nel 2005, ben prima di diventare sergenti di Berlusconi. Tutt’altra cosa, invece, i finiani: interessati alla poltrona o criptocomunisti.

Torniamo alla livrea del servo. Venerdì scorso, per Quagliariello, ci sono finiani e finioti. “È scoppiata la pace”, ma chi ha voluto la guerra? Non Fini, non i finiani, ma certi idioti fra i finiani che sarà il caso Fini voglia tener buoni per evitare un’altra guerra. Oggi, invece, ci sono finiani e finoidi: “Il problema non è Fini”, dice Quagliariello, ma è che “in Parlamento ci sono troppo pochi finiani e troppi, davvero troppi, finoidi”.
Alzate gli occhi dalla livrea, guardate oltre le spalle del servo: ottenuta la tregua, Berlusconi finge di averla concessa e già sta facendo un pensierino sui prossimi acquisti. “Malati”, a non vendersi. 

martedì 20 aprile 2010

Morning


Sei tu che devi spiegare


“Se qualcuno ha cambiato idea, è lui che deve spiegare perché ha cambiato idea”. Vi dico subito chi l’ha detto, ma promettetemi di mantenere un minimo di contegno: l’ha detto Daniele Capezzone, ieri (Il Fatto del Giorno – Raidue, 19.4.2010), e il riferimento era a Gianfranco Fini.

Innegabilmente, Fini “ha cambiato idea” negli ultimi anni, mostrando una sensibile maturazione in senso laico e liberale a un’opinione pubblica divisa tra la piacevole sorpresa e il sospettoso scetticismo. Ma che ha da spiegare uno che s’è venuto pian piano convincendo che, “su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano”?
Io penso che, comunque ci si arrivi, il perché sia in qualche modo sempre uguale. Capita che a un certo punto – empiricamente o razionalmente – scopri che, se su quella roba non è sovrano l’individuo (e per sovrano intendo totalmente libero e totalmente responsabile), lo è (o prima o poi lo diventa) un tiranno che si prende tutto, in cambio di poco o di niente, anche se sembra tanto.
Da quel punto in poi, se non sei stato irreparabilmente rotto dentro dagli strumenti di questo o di quell’autoritarismo, prendi in mano la tua vita come un arnese mai usato, invece di continuare a servirti di quella a noleggio, per la quale paghi il caro prezzo di te stesso.

Ciò che è più difficile da capire – ed è questo che meriterebbe ampia spiegazione – è com’è che, da laico e liberale, si possa diventare portavoce di un partito che ti manda a dire: “Quello che fa impazzire di rabbia la nostra gente è il fatto che Fini si inventi ogni giorno un argomento per distinguersi”.
Che gente è? E cosa ti è capitato perché tu possa darle voce? Come puoi farti espressione di una “rabbia” che trarrebbe a tuo parere un buon motivo dalla rottura di un unanimismo drogato? Dal laico e liberale che eri, come sei arrivato a poter definire le idee laiche e liberali di Fini come “argomenti inventati per distinguersi”? Sei tu che devi spiegare.

Il Post



Sfrondo il superfluo dall’editoriale (Una specie di editoriale) che apre il primo numero del Post: “Oggi va online il Post, […] per metà aggregatore […], per metà editore di blog. […] Pubblica notizie, storie, informazioni raccogliendole in rete e nei media, e linkando e segnalando le fonti. […] Il Post è Wittgenstein, ma di più. Più storie, più link, più idee, più blog”.

Con rispetto parlando, un contenitore. Però di testi anonimi, perché i post non sono firmati, ignoti i componenti della redazione e i rispettivi ruoli, solo i blog linkati rimandano ai loro titolari: sarà impossibile complimentarsi con altri che con Luca Sofri, nel caso. Una scelta per assicurare una coerenza editoriale e (in senso lato o in senso stretto, vedremo) politica. Non come Tocqueville, insomma. Nemmeno come The Huffington Post, a pensarci bene. Antecedenti nobili: Dagospia per il web (che è D’Agostino, ma di più) e Il Foglio per il cartaceo (che è Ferrara, ma di più).

La forma del contenitore consente di azzardare ipotesi sulla sostanza dei contenuti? C’è chi dice di sì e c’è chi dice di no, non resta che vedere come butterà. Al momento: “Cerchiamo di fare una cosa piccola ma ambiziosa, e di vedere cosa diventa”.
Giuro di aver sentito una frase pressoché simile da Lapo Elkann nel presentare la sua factory, Indipendent Ideas, che non sono mai riuscito a capire bene cosa produca.

Quasi dimenticavo, auguri.

lunedì 19 aprile 2010

Tutte le parole diventano sciocchezze



1. Ho scritto già due post sul Comitato nazionale di Radicali italiani tenutosi lo scorso fine settimana, e probabilmente un terzo è troppo. Il fatto è che mai come in questa occasione, dopo una sconfitta che per essi è stata assai più che elettorale, i radicali si sono messi in discussione in quanto radicali. 
È accaduto che, nel cercare le cause di un così duro responso delle urne, cinque o sei radicali sui sessantaquattro che hanno preso la parola (forse sette) sono arrivati a mettere in discussione, o comunque ad andare assai vicino a mettere in discussione, non già la tattica in questa o in quella scelta giudicata infelice, ma la stessa strategia, addirittura la teoria della prassi radicale e, insomma, hanno sfiorato in più punti un nervo ormai scoperto: la natura stessa della cosa radicale, nel suo carattere settario e oltranzista, nella sua struttura (ormai dichiaratamente) di tipo monastico, nella cifra carismatica della sua guida, nell’impenetrabilità della situazione proprietaria e – paradossalmente – nel suo deficit di laicità, di democrazia, di trasparenza.
Ne ha fatto le spese Giulia Innocenzi, che è stata troppo poco implicita nel criticare la linea tenuta in Commissione vigilanza Rai (proposta di regolamento a firma di Marco Beltrandi, approvato coi voti del Pdl, e che ha di fatto portato al blocco delle trasmissioni di approfondimento politico), offrendosi ad una esemplare reazione di tipo inquisitorio, ma non per cattiveria: giusto per richiamare all’obbedienza gli altri estemporanei eretici.
Accusata di essere una creatura partorita dai media del regime, in quota ai “buoni a nulla” (per giunta della bottega di Santoro, che da sempre sta un po’ sul cazzo a Pannella), e inoculata nel corpo mistico radicale per corromperlo alla basse logiche di opportunismo partitocratico.
Minaccia sventata, a detta di Pannella, perché il suo “intervento era piuttosto scontato”, ha suggestionato due o tre fessi che l’hanno riverberato, ma “non vale la pena di dargli troppo valore”.
Sistemata la Innocenzi come agente provocatore del regime infiltratosi nella purezza della riflessione post-elettorale radicale (per fortuna con poco danno, perché Pannella se ne è accorto subito e lo ha neutralizzato), gli altri quasi-dissidenti sono sistemati con lei.
Anche perché essendo stati molto più impliciti, hanno solo sfiorato il nervo scoperto, e si può far finta che non abbiano detto niente di importante.


2. È andata persa un’occasione unica per i radicali, forse l’ultima, e i radicali si giocavano tutto, con in mano le solite carte, risultate anche stavolta deboli. Colpa del mondo che sta fuori da quello stanzone di via di Torre Argentina, ok, ma maledettamente deboli.
Alcuni lo sentono, riescono perfino ad articolare una critica a quelle carte, ma i loro interventi vengono abilmente liquidati come riverberi della provocazione della Innocenzi. Se al suo intervento “non vale la pena di dar troppo valore”, figuriamoci agli altri.
Raffaele Ferraro parla di “uno scandalo di firme false” nel quale sarebbe implicato un dirigente radicale veneto. L’avesse fatto Zaia, subito sciopero della fame: qui, sciocchezze.
Simone Sapienza dice: “Siamo un partito che per sopravvivere è dovuto venire a patti che hanno minato la sua essenza, siamo un partito che campa di finanziamento pubblico, siamo un partito che senza l’aiuto del Pd non sarebbe riuscito a raccogliere le firme in molte delle poche regioni nelle quali siamo riusciti a presentare le nostre liste… Questo è un partito che da anni non riesce più a raccogliere firme, questo è un partito che compone le sue liste senza che nessuno sappia con quale metodo, è un partito che ha un bilancio patrimoniale che è dato conoscere né discutere… Questo è un partito che nella sua forma interna non riesce più a descrivere la tesi che dice di voler portare all’esterno: è così quando si accetta che tutti i dirigenti siano economicamente dipendenti dal partito, quando si sfrutta il precariato come fanno tutti…”. Sciocchezze.
Silvio Viale si lamenta di scelte che da Roma piovono in periferia e di cui poi nessuno si assume la responsabilità: un “partito romano” che sacrifica le energie periferiche e che lo ha costretto a ritirare la sua candidatura per fare un piacere al Pd, che aveva posto il veto sul suo nome… Quando fu posto su quello di Luca Coscioni, altra storia… E il metodo? Sciocchezze.
Maurizio Turco sente un deficit di cultura liberale, ma “noi – dice – non abbiamo altra possibilità se non quella di interloquire con il Pd. Ma interloquire per fare cosa? Per fare quello che ci veniva spiegato da altri compagni che poi se ne sono andati: per inocularvi il metodo liberale. Sennò che andiamo a fare nel Pd?”. Sciocchezze.
Diego Galli segnala dei grossi limiti nella comunicazione radicale. Non dice che è ferma agli anni ’70, in ossessiva e compulsiva aderenza alle stagioni delle grandi vittorie radicali, ma ormai logora e controproducente, ma lo fa capire, molto molto molto implicitamente lo fa capire. Sciocchezze.
Annalisa Chirico è un po’ più esplicita: “Possiamo anche consolarci della sconfitta dicendo che è dovuta all’asse Berlusconi-Bagnasco, peccato che in campagna elettorale abbiamo detto che il voto cattolico non ne fosse influenzato, che i cattolici erano quelli che ci avevano aiutato ai referendum sul divorzio e sull’aborto, che vanno differenziati dai clericali… Abbiamo perso perché non siamo stati abbastanza in tv? Ma Beppe Grillo quanto c’è stato?... O chiudiamo la baracca o la ricostruiamo dalla base… Noi invece continuiamo a guardare indietro, siamo un partito uguale a se stesso…”. Sciocchezze, evidentemente.
Ci sarebbe pure Lorenzo Lipparini, ma lui non conta: già bollato da Pannella come soggetto “antropologicamente democristiano”, e va’ a capire che significa. A orecchio, però, non suona bene: si ignori il signorino, non esiste.


3. Forse sono davvero tutte sciocchezze, ha ragione Pannella, perché questo Comitato nazionale di Radicali italiani ha sfornato una mozione generale approvata all’unanimità (con due astenuti), una mozione che te la raccomando, impermeabile ad ogni sciocchezza.
Dal parlare al non votare contro, dal parlare al votare come se non si fosse parlato, dal parlare al non dimettersi, giusto per dar un po’ di forza a ciò che si è detto – da quello a questo – tutte le parole diventano sciocchezze.


“Piaga orrenda che affligge l’umana società”


[Nel Regno di Sardegna] coloro che hanno diritto di voto [sono] 90.839 persone su una popolazione di 4.325.666 individui. E gli altri 4.271.171? Sono massa e di conseguenza non contano: è il pensiero di Cavour”
Angela Pellicciari,
Risorgimento da riscrivere,
Ares 2007


Niente suffragio universale, orrore! Idem per il plebiscito del 2 ottobre 1870 che decise l’annessione dello Stato Pontificio al Regno d’Italia. Nella città di Roma: 40.785 sì, 46 no. Nell’intera regione: 133.681 sì, 1.507 no. Sì, ma niente suffragio universale, neanche qui.
Orrore, ci siamo pigliati le terre del Papa senza chiedere il permesso alla gran massa dei suoi sudditi! Che merda, quel Cavour! Fece votare solo gli abbienti e gli alfabetizzati, tutti massoni e liberali. Così la Pellicciari. Come un’oca che starnazza in Campidoglio, 140 anni dopo l’invasione dei barbari.

Sul perché il Cavour non abbia dato il voto a tutti i sudditi di Pio IX, modestamente, io avrei opinione diversa. Lo fece per non offenderlo, perché del suffragio universale Sua Santità dava le seguenti definizioni : “piaga orrenda che affligge l’umana società”, “piaga distruggitrice dell’ordine sociale”. E questo ancora nel 1874, quattro anni dopo aver perso lo Stato Pontificio.
Mi pare che questo tolga ogni valore all’argomento della Pellicciari: neanche Pio IX avrebbe consentito che la massa si esprimesse. E almeno in questo fu accontentato.