Sull’Unità d’Italia – intesa come evento storico e sua ricorrenza – si vanno delineando posizioni che solo in apparenza sono concordi o discordi. Le posizioni di Santa Sede e Lega, per esempio, sembrano discordi, ma non lo sono affatto, come dimostra quanto scrive Francesco D’Agostino (Avvenire, 5.5.2010), che, dopo aver definito l’Unità d’Italia “evento storico di grande rilevanza” e “ricorrenza di grande valore, celebrare la quale [è] un dovere e non un’opzione facoltativa”, passa a dare le definizioni di Unità e di Italia, sulle quali un leghista non avrebbe nulla da ridire.
L’Unità – quella che si realizza nel 1861 – è mera ratifica storica, evento epifenomenico di una identità italiana antecedente ad ogni guerra di indipendenza, antecedente ad ogni invasione e dominio straniero, connaturata – indovinate in cosa – nel suo carattere cristiano. Letteralmente: “L’Italia, da un punto di vista culturale, artistico, linguistico e soprattutto religioso, era già unita da secoli e secoli [prima del 1861]”. L’Italia è, dunque, un fatto metastorico, è la perifrasi geografica di un carattere “soprattutto religioso”: l’evento storico del 1861 dà a questo carattere una dimensione statuale, ma quella nazionale è antecedente alla fondazione dello Stato unitario, ed è identità di nazione cristiana.
Messo questo paletto, Francesco D’Agostino ci si appoggia e lamenta confusione tra statuale e nazionale, confusione che lo Stato fa pesare alla Nazione, al punto che la “troviamo perfino nella nostra Costituzione, quando parla di territorio «nazionale» (art. 16) oppure quando (art. 87) afferma che il presidente della Repubblica rappresenta l’unità «nazionale»”. Trattandosi di entità identitaria “soprattutto religiosa”, provate a immaginare chi debba essere considerato rappresentante dell’unità nazionale al posto del presidente della Repubblica. “È evidente che tra Stato e Nazione esiste uno strettissimo rapporto – concede Francesco D’Agostino – che [però] non giustifica però l’assimilazione dei due concetti. Lo Stato fa riferimento al «potere» (e alle modalità del suo esercizio), la Nazione invece all’«identità» di un popolo (e alle sue forme espressive)”, che – ripetiamolo – sono culturali, artistiche, linguistiche e soprattutto religiose: è fatta bella sintesi della doppia obbedienza (a Cesare e a Dio) e della doppia fedeltà (allo Stato e al Papato) che, quando maturano contraddizione interna, non rendono difficile scegliere quale sacrificare.
Siamo ancora e sempre alla Lettera a Diogneto: è fatta giustificazione della disobbedienza al “«potere» (e alle modalità del suo esercizio)”, che sono laiche per principio, in favore dell’obbedienza alle espressioni identitariamente congrue alla natura di una Nazione cristiana, anzi cattolica, quando è necessario. Ed è necessario quando a dichiararlo tale è il rappresentante dell’unità nazionale, che incidentalmente ha prerogativa magisteriale.
E dunque “è indubbio che l’Italia attraverso l’Unità abbia consolidato indirizzato lo sviluppo della sua economia, abbia ottenuto maggiore attenzione nel concerto politico d’Europa, abbia garantito che alcune delle sue regioni più povere ottenessero significativi benefici, abbia soprattutto favorito movimenti demografici al proprio interno, indispensabili per la modernizzazione del Paese. Non dimentichiamoci però che ciò è potuto accadere perché, già molto, molto prima di costituirsi in Stato unitario, l’Italia si era già costituita, attraverso la sua lingua, i suoi costumi, la sua arte, la sua religione in nazione e tra le più antiche d’Europa”.
Bello, eh? E però rimane un problemino: com’è che questa nazione così antica, naturalmente espressa come identità cristiana, si è così tenacemente opposta alla fondazione dell’Unità statuale? Che senso acquista, la breccia di Porta Pia, in questa graziosa costruzione di Francesco D’Agostino? La Nazione italiana voleva o non voleva l’annessione dello Stato Pontificio al Regno di Savoia? In parte sì e in parte no, potremmo dire, se non vogliamo che la graziosa costruzione crolli.
E che sostengono, i leghisti? La stessa cosa. C’era chi voleva l’Unità d’Italia e c’era chi non voleva, c’è chi l’accetta di buon grado e chi a fatica. Sia, ma si affermi che è espressione di un potere, non di una identità. Il primo è riformabile, l’identità no. Tra la fedeltà allo Stato e la fedeltà ad una identità di Nazione (padana in quanto pre-italiana), quale è sacrificabile?