mercoledì 7 luglio 2010
Quando i giudici si improvvisano teologi, ma quando?
Avete notizia di un solo magistrato che abbia sollevato il seppur minimo argomento di natura teologica nel condurre le indagini sugli abusi sessuali su minori commessi da un prete e coperti dal suo vescovo? Potrà aver sollevato questioni relative all’ordinamento giuridico della Chiesa e dunque potrà essersi intrattenuto su argomenti di interesse canonistico, avrà eventualmente sfiorato temi di natura ecclesiologica, potrà forse essersi spinto a formulare considerazioni di tenore sociologico o di rilievo storiografico, ma avete notizia di un solo magistrato che, negli Stati Uniti, in Irlanda, in Austria, in Germania o in un qualsiasi altro paese nel quale la “sporcizia” sia venuta a galla, si sia spinto a improvvisarsi teologo? Io no. Per questo penso che Sandro Magister abbia scelto un titolo infelice per il post che firma in data 6 luglio: “Quando i giudici si improvvisano teologi”, ma quando?
Il resto non è più felice. Sul blitz del 24 giugno all’arcivescovato di Malines: “Gli inquirenti hanno sequestrato 475 dossier, molti dei quali riguardanti vittime che si erano rivolte a questa commissione invece che alla giustizia civile per salvaguardare la loro vita privata”. Da quando può dirsi legittimo sottrarre alla giustizia civile la notizia di un crimine commesso da un prete? La discrezionalità su quei 475 dossier traeva legittimità da un assunto teologico?
Sul no della Corte suprema statunitense alla richiesta della Santa Sede di sottrarre ad ogni responsabilità penale la Segreteria di Stato e la Congregazione per la Dottrina della Fede: “La richiesta della Santa Sede aveva ricevuto l’appoggio dell’amministrazione Obama”. Errato: l’avvocatura della Casa Bianca si era limitata a ritenere legittima l’istanza. “Anche nel 2005, durante la presidenza Bush, il dipartimento di Stato americano aveva definito illegittima la chiamata in causa di Benedetto XVI in un processo nel Texas per abusi sessuali, in forza dell’immunità di ogni capo di Stato e quindi anche del papa. E quella volta il giudice accolse il parere dell’amministrazione”. Errato anche questo: il giudice si limitò a prendere atto dell’improcedibilità in relazione al solo reato di obstruction of justice.
“Che prima o poi una corte si arroghi di stabilire con criteri propri ciò che la Chiesa è e quale rapporto abbia la gerarchia con i suoi «dipendenti» non è più un’ipotesi da escludersi tassativamente”. Perché dovrebbe continuare ad esserlo? Il rapporto della gerarchia con i suoi «dipendenti» non è desumibile arbitrariamente se desunto dal Codice di Diritto Canonico e dalle Istruzioni particolari, e basta leggere la Crimen sollicitationis (1922, 1962), la Secreta continere (1974) e la De delictis gravioribus (2001) per trarre conclusioni chiare. Come non considerare «dipendenti» della Santa Sede quei preti ai quali la Santa Sede ordinava di spostarsi di diocesi in diocesi? Obbedivano, senza eccezione, e lo spostamento era solo un’articolazione del sistema che li sottraeva alle denunce delle loro vittime per mandarli a farne altre altrove. Anche qui non c’è bisogno di improvvisarsi teologi per farsene un’idea.
“Le perquisizioni ordinate dalla magistratura belga non sono affatto rassicuranti. Lì la Chiesa è stata considerata alla stregua di una cosca di malfattori”. Gravi indizi avranno consentito agli inquirenti almeno di ipotizzarlo, nessun pregiudizio li avrà inibiti nel cercare le prove e – questa è la novità – nessun privilegio cumulato dalla Chiesa avrà posto ostacolo. Infatti, le lamentele della Santa Sede si sono limitate alle maniere, ritenute brusche, ma nessuno, neanche il Segretario di Stato, si è azzardato a contestare la legittimità del provvedimento ispettivo.
Ma Sandro Magister si spinge oltre: “Un po’ ovunque, cresce la tendenza a giudicare la natura e l’organizzazione della Chiesa ignorando ciò che essa è e i suoi ordinamenti originari e peculiari, che pure sono entrati nella migliore cultura giuridica e sono stati riconosciuti da patti di validità internazionale. L’’iauspicio, quindi, più volte espresso dalle autorità della Chiesa, che il foro civile e quello canonico operino ciascuno nel proprio ordine per contrastare gli abusi sessuali del clero, non sempre si traduce in pacifica e fruttuosa cooperazione”. E come potrebbe? Le autorità ecclesiastiche pretenderebbero privilegi che configurerebbero l’immunità piena e permanente: non si fa prima ad affermare che la pacifica e fruttuosa collaborazione è tale solo se questa immunità si fa improcedibilità di fatto?
“La Chiesa – conclude Sandro Magister – da qualche tempo e soprattutto grazie all’impulso di Joseph Ratzinger cardinale e papa, sta facendo molto per correggere le proprie colpe e omissioni”. Errato: da papa, poco e male, con molte ambiguità e contraddizioni; da cardinale, praticamente niente. E pare che molti cattolici l’abbiano capito.
martedì 6 luglio 2010
Sotto il cielo di Roma
Sotto il cielo di Roma è un’altra delle fiction prodotte dalla Lux Vide di Ettore Bernabei e figli alla quale per la Rai non saprà dire di no. Se non vado errando, sarebbe la 73ª che i Bernabei le vendono in meno di 20 anni. Chiuso il ciclo biblico, da Genesi (1993) a L’Apocalisse (2002), lasciando un po’ da parte i santi, dopo i successi di Padre Pio (2000), Madre Teresa (2003), Don Bosco (2004) e Sant’Agostino (2008), inframmezzando un Dio vede e provvede (1996) a un Lourdes (2000) o a un Crociati (2001) o a un Don Matteo 8 (2011), qui siamo di ritorno alla serie dei papi e, dopo Papa Giovanni (2002), Giovanni Paolo II (2005) e Paolo VI (2008) – ci informa Avvenire (6.7.2010) – la fiction prende a oggetto “lo scorcio di pontificato di Pio XII durante l’occupazione tedesca di Roma tra il 1943 e il 1944”.
Il giornale dei vescovi ci tiene molto a darci un cenno sulla trama e qui pare evidente che di fiction si tratta: “Rapire il Papa, è questo l’ordine che arriva da Berlino, dalla voce stessa del Fuhrer. [Mai dimostrato: ne parlò solo Karl Wolff, un generale delle SS che riuscì a sottrarsi alla giustizia grazie a un passaporto vaticano, e solo molto tempo dopo la fine della guerra...] Il Papa è l’unica fonte di speranza per il mondo [Stati Uniti e Inghilterra si trovavano lì per caso...] e Hitler non può tollerarlo. [È dimostrato che fosse l’ultimo dei suoi pensieri, nel 1943...] Un piano segreto, una minaccia reale di cui Pio XII viene a conoscenza; ma rifiuta tenacemente l’idea della fuga. Il suo posto è a Roma e a Roma rimane. [In realtà, un piano di fuga sarebbe stato discusso nel 1948, nel caso le elezioni fossero state vinte dal fronte di sinistra...] Per salvare la città e i suoi abitanti, usando tutti gli strumenti a sua disposizione: la diplomazia e le risorse materiali, l’influenza politica e la persuasione dei cuori, anche di coloro che fanno parte del campo avverso, come il generale Stahel, comandante della piazza di Roma. [Mirabile esempio di nazista cattolico, uno dei tanti tedeschi che cercò, finché gli fu possibile, di far coincidere la fedeltà al Führer con la fedeltà al Papa...] Nonostante tutti i suoi sforzi, Pio XII non riesce a impedire che l’orrore raggiunga anche la capitale. È il 16 ottobre 1943, le SS portano a compimento una violenta e improvvisa razzia del Ghetto: vengono deportate ad Auschwitz oltre mille persone, ne torneranno quindici. Il dramma degli ebrei diviene anche il dramma del Papa [Le testimonianze dirette lo danno fresco e rilassato in quelle ore: aveva strappato la promessa che alla Città del Vaticano non sarebbero venute a mancare le derrate alimentari...] Quando il 4 giugno 1944 le truppe alleate entrano in Roma, la folla, esultante per la liberazione, si riversa spontaneamente in Piazza San Pietro acclamando l’uomo che non li ha mai abbandonati: Pio XII [Ha chiesto agli alleati di non fare entrare a Roma soldati di colore ed è stato accontentato...]”.
Come fiction viene onestamente presentata, d’altra parte.
Supplica
Non entro nel merito di due dei tre post di Legnostorto di recente raggiunti da altrettante querele, ma vorrei soffermarmi sul terzo, quello in cui Piercamillo Davigo ha letto ai suoi danni una diffamazione a mezzo stampa risarcibile nella misura di 100.000 euro. A differenza di quanto negli altri due, in questo post c’è davvero poco di personale e, se diffamazione c’è, è ai danni di una porzione della magistratura: il querelante vi è indicato come facentene parte, ma non gli è attribuito nulla che possa essere considerato lesivo della sua personale onorabilità; e tuttavia Davigo non chiede il risarcimento per conto e in favore anche degli altri citati, ma per sé solo.
Citato in un solo punto: “È chiaro che un Borrelli, un Di Pietro, un Davigo, un D’Ambrosio, ecc, non possono avere nessuno spessore culturale per organizzare il golpe…”, dove gli si attribuisce solo una mancanza di strumenti per organizzare un golpe. Non mi pare tanto offensivo, anzi. Solo chi vuole organizzare un golpe può sentirsi offeso nel sentirsi dire che non ne è in grado, ma questo non è il caso di Davigo, mi gioco un coglione. E dunque, dottor Davigo, mi consenta una supplica: so’ ragazzi, chiuda un occhio, levi la querela.
lunedì 5 luglio 2010
Il Papa imputato
È il 1954, siamo sulle pagine de Il Mondo (IV/256), quella riprodotta qui sopra è la prima parte di un pezzullo del Taccuino del 12 gennaio. Scorrendo il testo potreste sospettare che quel titolo sia un refuso: avete notizia che da qualche mese è nata l’Aied, associazione che fra i suoi scopi ha quello di diffondere il concetto ed il costume della procreazione libera e responsabile, in patente violazione dell’art. 553 dell’allora vigente Codice Rocco (“per la difesa e l’integrità della razza e l’espansione della stirpe”), come un deputato monarchico ha segnalato al Viminale... Sì, vabbe’, ma il Papa che c’entra?
E invece c’entra, perché “prendere provvedimenti contro l’Aied implicherebbe infatti [qui chiude la colonna, in capo a quella a fianco segue:] necessariamente prendere provvedimenti anche nei confronti del Santo Padre, che si è più volte pronunciato a favore di un «ragionevole» regolamento delle nascite”. Poco importava che per «ragionevole» fosse da intendersi «mediante astinenza sessuale»: il Papa aveva violato il Codice Rocco, ed eccolo imputato nel titolo.
Un paradosso per amor di paradosso? Per Mario Pannunzio sarebbe stato un delitto, leggetene la biografia di Massimo Teodori (Mondadori, 2010) e vi farete un’idea del perché. L’idea che mi son fatto io è che considerasse la polemica una cosa maledettamente seria, da non consentire sprechi di figure retoriche.
Sai quanto puoi fregarcene di una imputazione mossa al Papa? Zero, tutt’al più è un paradosso per amor di paradosso, come la fucilazione del Papa ne La via lattea di Buñuel: se non serve a niente, il paradosso è un balocco. Chi può volere Il Papa imputato, nel 1954? Giusto quel pasticcione d’uno Spadazzi. No, il problema è un altro: è l’abrogazione dell’art. 553 del Codice Rocco che, guarda caso, la Santa Sede non vorrebbe fosse abrogato.
L’Osservatore Romano ha scritto che tanto è da considerare “caduto in disuso, onde nessuno può temerne l’applicazione a proprio danno”, ma che “conviene non mutare la legislazione per non dare l’avvio ad altre riforme che sarebbero state forse pericolose”. E qui quel pasticcione d’uno Spadazzi torna utile per dimostrare che l’art. 553 non è affatto caduto in disuso e non è solo l’Aied a doverne temere danno, fino a quando non sarà abrogato. “E allora si abroghi l’articolo – conclude Pannunzio – nell’interesse di un Papa minacciato dalle iniziative di monarchici più papisti di lui”.
Segnalibro
Lucilio Vanini negò l’immortalità dell’anima, inclinò a qualcosa tra panteismo e ateismo, anticipò Charles Darwin ipotizzando che gli uomini discendessero dalle scimmie e, in occasione della contesa tra Serenissima e Pio V, formulò un principio assai simile a quello della laicità dello stato, rimproverando al Papa di esercitare ingerenza in faccende che non gli competevano. Per un frate carmelitano era già troppo, ma Vanini fu fottuto perché allevava un rospo, animale considerato infernale: il tribunale dell’Inquisizione lo condannò al rogo, previo il taglio della lingua. Fu bruciato il 9 febbraio 1619, a 34 anni.
Cronache resistenziali
L’idea di tenere un Comitato nazionale di Radicali italiani a L’Aquila non s’è rivelata felice, almeno a voler tener conto della partecipazione: presenti solo una metà dei membri del Comitato nazionale, che poi sarebbe l’organo che esprime la rappresentanza degli iscritti (sempre di meno negli ultimi anni) e statutariamente sarebbe responsabile della linea politica; solo poco più della metà dei membri della Direzione nazionale del partito, facente parte di diritto; assenti tutti i rappresentanti delle “associazioni metropolitane” (Milano, Torino, Bologna, Firenze, ecc.); assenti alcuni “radicali storici” di spicco (Spadaccia, Bandinelli, Vecellio, ecc.); di Mellano, presidente del partito, non si ha notizia (peraltro già da qualche tempo), è dato come latitante per trauma (non è chiaro che tipo di trauma); assenti anche molti degli invitati fissi e per l’occasione; scarsissimi gli osservatori esterni; stampa, neanche a parlarne. Tutto questo dà a Pannella un’amarezza tremenda. Da intendere alla lettera: amarezza da far tremare.
Tremiamo perché la resistenza al regime della cupola mafiosa partitocratica sta tutta in mano ai radicali e i capi della resistenza si fanno scoraggiare dall’afa e dalla polvere de L’Aquila: tremiamo per le sorti del paese. Ma tremiamo pure per quelle un pochino più circoscritte di Bandinelli, che Pannella sembra voler pigliare a capro espiatorio da sacrificare sull’altare della sua amarezza: Bandinelli non è andato a L’Aquila. E mo so’ cazzi sua.
L’Osservatore Romano pensa di poterci prendere per il culo
Il 20 luglio 1933, con le firme di Franz von Papen e di Eugenio Pacelli, il Terzo Reich e la Santa Sede arrivano al Concordato che assicura ai cattolici residenti in Germania il trattamento riservato ai cittadini di origine e di lingua tedesche anche se appartenenti a minoranze etniche non tedesche (art. 29). Da lì in poi, almeno sulla carta, un ebreo convertito al cattolicesimo dovrebbe essere trattato da cattolico, senza tener conto del fatto che appartiene ad una minoranza etnica della quale il Terzo Reich sta per programmare lo sterminio.
E tuttavia quel Concordato non basterà. Quando, sul finire del 1938, la Kristallnacht dimostrerà che Adolf Hitler si sta preparando a trattare tutti gli ebrei da ebrei, anche se convertiti al cattolicesimo, la Santa Sede corre ai ripari e con una lettera inviata dalla Segreteria di Stato a 61 arcivescovi di tutto il mondo chiede che vengano preparati dei visti per quei cattolici tedeschi “non ariani” che si ha intenzione di far partire dalla Germania per sottrarli alla furia nazista. Sul fatto che la premura fosse in favore dei soli ebrei convertiti fa prova il numero dei visti richiesti, assai inferiore al numero degli ebrei residenti in Germania a quei tempi.
Bene, dall’Archivio Segreto Vaticano (575, 606 bis/1938-1939) salta fuori la minuta di questa lettera (77/39, 9.1.1939) e L’Osservatore Romano cerca di spacciarcela come la dimostrazione che anche prima di diventare Pio XII, quando ancora era Segretario di Stato di Pio XI, il Pacelli andava salvando vite di ebrei, a migliaia, ma senza chiarire che si trattava di ebrei di un particolare tipo: quelli convertiti al cattolicesimo. In pratica, il Pacelli si dava da fare per salvare la vita a dei cattolici “ex non ariano genere provenientes” e L’Osservatore Romano pensa di poterci prendere per il culo spacciandoci la cosa come prova dell’interessamento della Santa Sede per la sorte di tutti gli ebrei tedeschi.
Pensa di poterlo fare estrapolando dal testo una frase nella quale il Pacelli chiede agli arcivescovi che nelle nuove sedi di destinazione ai fuoriusciti siano assicurate “omnia quae ad religionis cultum, instituta et mores pertinent”. Sarebbe come si vuol far credere, se non fosse che quanto sollecita il Pacelli dovrebbe essere assicurato – come sta chiaramente scritto all’inizio della frase di cui si cita solo ciò che fa comodo citare – da appositi “comitati per l’assistenza ai cattolici non ariani”. E dunque “cultum, instituta et mores” sono da intendersi come relativi alla religione cattolica o a quella ebraica?
sabato 3 luglio 2010
Contrordine, fratelli!
A un mese dalla morte di monsignor Luigi Padovese pare debbano essere corrette alcune affrettate conclusioni tratte a salma ancora calda da pur autorevolissimi e autorizzatissimi commentatori. La lettura “politica” dell’omicidio come ennesimo episodio di “ostracismo nei confronti dei cristiani”, ora, pare almeno un pochetto riduttiva, almeno per Avvenire, che infatti ammette: “Le indagini in Turchia sembrano procedere a stento e ancora non s’è dissipata la fitta coltre dei dubbi su circostanze e moventi dell’assassinio”.
A salma ancora calda, le circostanze erano avvolte nella fitta coltre, ma sui moventi non sembravano esserci dubbi: odio anticristiano, sgozzamento di chiara marca jihadista. Ora la nebbia ha avvolto anche i moventi. Anzi, Avvenire concede: “A volerlo leggere come un fatto di cronaca…”. Mica obbligatorio considerarlo un martirio per fede, però il Padovese aveva da sempre offerto la sua vita alla missione in partibus infidelium, a testimoniare lì la sua fede, e la testimonianza è sempre martirio, almeno etimologicamente, e dunque si potrebbe dire... Insomma, martire ad honorem.
E sì che sulla certezza del movente islamista c’era chi spronava Benedetto XVI a una crociata. Foglianti, teste di cazzo.
Se Avvenire prende atto che dalle indagini non emergono prove certe che si sia trattato di un martirio per fede (e questo lascia intendere che stia emergendo tutt’altro), Libero commemora un Padovese che “forse si è offerto al posto del Papa”. Sì, avete capito bene: il Padovese sarebbe morto per salvare la vita al Papa, “si potrebbe spiegare così, infatti, l’improvviso annullamento da parte del presule, del viaggio a Cipro, in occasione della visita di Benedetto XVI”. Mancare a quell’importantissimo appuntamento a Cipro rimane il grande mistero dell’intera vicenda, e lì probabilmente sta il reale movente dell’omicidio: per Libero è mistero che si risolve in questo modo.
Per salvare la vita al Papa, il Padovese non poteva partire per Cipro senza portarsi appresso il suo factotum turco come aveva voluto fino al giorno prima? Non poteva comunicare i suoi sospetti sulle intenzioni di Murat Antun alle autorità turche e/o cipriote? C’era bisogno di farsi ammazzare per salvare la vita al Papa? Teste di cazzo insuperabili, a Libero.
Esd 10, 36
Mi aspettavo più attenzione sulle scritte lasciate da mano ignota sulla Scala Santa, ma pare che la cosa non interessi troppo. Eppure penso che da quelle si possa risalire al loro autore o, se non proprio a lui, a quella ristretta cerchia di individui che possano avere avuto un fine nel mandare un messaggio criptato a quel modo: frasi in cirillico dal tenore erotico-sentimentale, firmate Vania, con la cifra di un versetto dal Libro di Esdra (Esd 10, 36).
L’associazione tra caratteri cirillici e un nome che è anche russo, ma che è scritto in caratteri latini, assume un significato particolare se si considera che il versetto biblico recita: “Vania, Meremòt, Eliasib, Mattenai, Iaasai”. Il Vania qui citato non è diminutivo di Ivan, ma è – con gli altri – il nome di uno dei “sacerdoti [ebrei] che avevano sposato donne straniere” (Esd 10, 18) e che furono condannati a “rimandare le loro donne insieme ai figli avuti da esse” (Esd 10, 44). [Siamo tra il 520 e 515 a.C.]
Io penso che l’autore delle scritte sia un prete cattolico di nazionalità slava al quale il vescovo ha ordinato di sbarazzarsi dell’amante, venuto a Roma a scavalcare l’ordine gerarchico per una folle supplica. La Scala Santa è, infatti, ancora oggi percorsa in ginocchio da molti fedeli che chiedono grazie.
Altro che insulti al Papa, come si è detto.
Altro che insulti al Papa, come si è detto.
Slow brown fireworks
If we were to bump into each other again, where would you rather it be:
A: In a sauna.
B: On an oil rig.
C: In a morgue.
D: I love you.
E: Please don’t think I’m mental.
F: I hand delivered this, I’m outside your house right now.
A: In a sauna.
B: On an oil rig.
C: In a morgue.
D: I love you.
E: Please don’t think I’m mental.
F: I hand delivered this, I’m outside your house right now.
venerdì 2 luglio 2010
[...]
La cattiveria di Formamentis è adorabile, ma Jimmomo aveva scritto: “C’è da sospettare…”, mica che lo sospettava lui.
Sapevámonlo
Il tempo mi ha dato ragione di ciò che ho sempre pensato e scritto di Vito Mancuso fin dal 2007, quando a me pareva già evidente la grave eresia contenuta ne L’anima e il suo destino, e ancor più evidente mi pareva la sua estrema conseguenza: radicalizzare quello spirito del Vaticano II che a detta dei cattolici di stretta ortodossia è sempre stato un letale fraintendimento della lettera di quel Concilio. Ho scritto che il rogo aspettava Mancuso e che se lo meritava. Intanto mi stupivo che fosse tanto coccolato finendo per risolvere: cercano di tenerselo buono, cercano di contenerlo.
“È come se dicesse alla teologia: vai al sodo. E alla cultura: accetta la sfida. Così Mancuso apre un dibattito franco e rigoroso grazie a un libro intelligente e documentato”, e mica lo diceva Corrado Augias a quei tempi: lo diceva monsignor Piero Coda, non proprio un “progressista”, docente di Teologia dogmatica alla Pontificia Università Lateranense, per darvi la misura del cerebro, e presidente dell’Associazione teologica italiana, per darvi quella del polso; lo diceva dalle pagine de Il Foglio, che a quei tempi portava Mancuso sul palmo della mano e oggi non smette di strofinarsi il palmo della mano sulla giacca, come se volesse pulire ogni traccia di Mancuso.
Sarà che il brillante teologo non va più tanto di moda o che ci va un po’ troppo? Di certo c’è solo che, prima, “il professor Mancuso è una voce accettata e ascoltata nel mondo della teologia cattolica” (Giuliano Ferrara - Il Foglio, 10.10.2007) e, ora, commissioniamo il commento della sua pericolosissima teologia anticattolica a due tosacani come Camillo Langone e Angiolo Bandinelli, non ci sprechiamo manco un Pietro De Marco.
Mi sono trattenuto dal commentare l’articolo di Vito Mancuso su la Repubblica di domenica 30 giugno per non ripetermi, mi sono trattenuto dal commentare ciò che ne ha scritto Il Foglio perché Luca Massaro ha buttato giù un post che spiaccica Langone e perché Bandinelli si spiaccica da solo.
Mi sono trattenuto dal commentare l’articolo di Vito Mancuso su la Repubblica di domenica 30 giugno per non ripetermi, mi sono trattenuto dal commentare ciò che ne ha scritto Il Foglio perché Luca Massaro ha buttato giù un post che spiaccica Langone e perché Bandinelli si spiaccica da solo.
Mi sembra interessante, invece, sottolineare ciò che ha scritto De Marco sul tanto contestato articolo di Mancuso: “Il nostro «teologo» scrive: «Essendo tutto dominato dalla logica evolutiva, non esiste alcun punto fermo, se con fermo si intende qualcosa di statico e di immobile [...]. Dio è un punto fermo [...] nel senso di immutabile quanto alla dinamica del suo movimento vitale che è l’amore [...]. E va da sé che, non essendo Dio, a maggior ragione non sono punto fermo né la Bibbia [...] né la Chiesa con il suo magistero dottrinale [...], il quale parla veramente nel nome del Dio vivo solo se consente e incrementa il creativo dinamismo della libertà» [La vita autentica, Raffaello Cortina Ed. 2009]. […] Questo monismo energetico, disperante nella sua dogmaticità, può certamente apparire frutto di un tardo, sfilacciato New Age. La Rivelazione, le Rivelazioni, sono accessorie. [...] Chi ha decostruito l’intelletto cattolico a questo punto?”. Dio, com’è bello sentir parlar chiaro: Mancuso è un eretico.
Modestamente, sapevámonlo. Ma quale autorevole fonte pigliamo per dargli fuoco? La Pascendi dominici gregis di Pio X (1907). Che De Marco non cita nei punti salienti, ma in cazzatelle accessorie. Però come dimenticare che la Pascendi è l’enciclica che condannò il modernismo? A questo stiamo: Mancuso ricicla. Bruciato.
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