Nei testi degli interventi tenuti al convegno su «Dio oggi», organizzato da Camillo Ruini nel dicembre dello scorso anno, non c’è traccia di Trinità. Solo adesso riesco a procurarmi il volume che li raccoglie (Cantagalli, 2010) e la prima cosa che mi salta all’occhio è il fatto – incredibile solo fino a un certo punto – che nel discutere di Dio, e in campo cattolico, qui come altrove, e da parecchio tempo, del Dio trinitario, che è peculiarmente cristiano, non si faccia parola, ma solo qualche vago accenno.
Credo che questa stranezza abbia qualche relazione con le linee culturali e politiche degli ultimi due pontificati, come causa o effetto – propendo per effetto – di quel trialogo con islam ed ebraismo cercato da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI.
Lasciando perdere tutte le ambiguità e le contraddizioni rivelate in questo tentativo di ritrovarsi fratelli nel monoteismo, è come se il desiderio di fratellanza dei cristiani abbia consigliato loro – non so quanto deliberatamente – di glissare sulla abissale differenza che c’è tra Jahveh e Allah, da un lato, e la Santissima Trinità, dall’altro. In pratica, da diversi decenni si glissa sul nucleo ineffabile del cristianesimo, sul mistero centrale della fede cristiana, sul fondamento teologico che da solo regge tutto il cristianesimo, perché implica un Dio che non si esaurisce nella trascendenza, ma – scandalo! – si incarna: e non sporula, ma resta in se stesso; e si effonde, creando relazione in Dio stesso; e incarnando questa relazione nella sua creatura e con la sua creatura.
Gli universi teologici dell’ebraismo e dell’islam si toccano e si confondono l’uno nell’altro nel Dio che elegge e che chiede sottomissione, che promana la Legge restando sovrumano sempre: con la Trinità, la Legge è articolata nella dialettica (nel Logos) del Padre che la effonde in Spirito incarnandola in Figlio. Il cristianesimo è monoteista, ma è un monoteismo a parte. Ricordarlo sarebbe ostacolo al trialogo.
Per far coincidere umano e divino nella persona del Figlio, per così spiegare un Dio incarnato, il cristianesimo ha pensato Dio dall’interno di Dio, chiedendo un supplemento di fede: per essere divinizzati nel Dio trino era necessario accettare il dogma di un Uno che è allo stesso tempo un Tre. Mai come con l’aritmetica, la ragione resiste all’assurdo: essere in grado, anche qui, di dire credo quia absurdum esige un abbandono all’obbedienza che è ripagato dall’essere «communicanti» (2 Pt) alla natura divina. Qui l’uomo è divinizzato, ma su questo punto il cristianesimo non rivendica troppa peculiarità.
Anche nel punto meno ecumenico degli ultimi decenni (la Dominus Iesus) è il cristocentrismo che stravince e pare farsi ostacolo al trialogo, non la natura trinitaria di Dio, che farebbe davvero impossibile sul piano teologico la discussione a tre su Dio.
Accade che il cristianesimo sia diventato quasi del tutto cattolico, ma che il cattolicesimo tradisca se stesso accantonando il dogma della Trinità: «con Lui o senza di Lui cambia tutto» (come recita il sottotitolo del volume), ma che il vero Dio sia trino (sennò non è il vero Dio) pare che i cattolici se lo siano dimenticato. Cristologia, ecclesiologia, precettistica magisteriale, parecchia soteriologia, escatologia e dottrina sociale – «Dio oggi» è tutto, tranne Trinità: è taciuto ciò che lo farebbe un Dio indiscutibilmente cattolico, perché ogni allegoria di Tre in Uno non liquida l’inquietudine dell’absurdum e si fa più fatica ad accettare questo dogma che quello dell’infallibilità papale. Dal gregge si ottiene più facilmente l’obbedienza ad un’autorità che uno sforzo di immaginazione oltre l’aritmetica.