Toni Negri vede nel comunismo un “progetto di amore” che ha il suo prototipo mitologico nella “leggenda di san Francesco d’Assisi” che “per denunciare la povertà della moltitudine, ne adottò la condizione comune e vi scoprì la potenza ontologica di una nuova società” (Impero, Rizzoli 2002). Ammesso e non concesso che sia vero, e non è vero, bisognerebbe dedurre che i francescani abbiano da subito tradito il fondatore del loro ordine, almeno per come la vede Oreste Bazzichi (Alle radici del capitalismo, Effatà 2003; Dall’usura al giusto profitto, Effatà 2008): per lui è alla scuola teologica francescana che si deve la nascita del capitalismo, a cominciare da quel Tractatus de emptione et venditione, de contractibus usurariis et restitutionibus di fra’ Pierre de Jean-Olieu (Pietro Di Giovanni Olivi) che facendo un distinguo tra usura (sempre peccato) e giusto interesse (guadagno moralmente legittimo come ricompensa per il rischio d’impresa) avrebbe posto le basi per una giustificazione etica dell’accumulo del capitale.
È inutile andare più indietro del XIII secolo (fra’ Pierre muore nel 1298), troveremmo solo la condanna di ogni ricchezza in Mt 19, 23 (“difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli”), la tesi che Cristo non possedesse neanche la propria tunica e l’accumulo di beni mobili e immobili da parte della Chiesa, dalla primigenia usucapione del colle Vaticano fino alla falsa Donazione di Costantino.
Tema difficile, quello del rapporto tra cattolicesimo e capitalismo. Pensavamo di averlo risolto trovando lo spirito del capitalismo ne l’etica protestante (Max Weber, 1904), ma non è così.
Tutto è cristiano, no? Se il cristianesimo è positivamente (storicamente) guidato dallo Spirito Santo che mai lascerà Roma, come potrebbe non essere cattolico il “sano” capitalismo senza il quale la multinazionale vaticana non avrebbe scheletro? A posteriori, il capitale può e deve essere precipuamente cristiano, perciò cattolico, sicché solo il magistero della Chiesa può dire quando è veramente “sano” un capitalismo: due in una, abbiamo giustificazione dei caritatevoli riciclaggi dello Ior e la pretesa di dettare le regole nel buco del culo del secolarismo, dove lo sfruttamento della forza lavoro e la rendita da interesse producono lo sterco del diavolo da filtrare e purificare.
Tutto ciò che viene dall’uomo, che è creato a immagine e somiglianza di Dio, dev’essere degno del creatore e non fa eccezione il plusvalore: il prezzo del pane deve tutelare la creatura nel panettiere e nel suo cliente, perché entrambi sono debitori di una decima alla Chiesa. Fate dettare le regole del capitalismo alla Chiesa, perché essa sa l’esatto valore della dignità umana e l’esatto prezzo della manifattura e della materia prima: fate compilare i listini ai frati, fate ridistribuire ai preti, la Chiesa sia primo e ultimo calmiere sociale.
Chi è che teneva cassa fra gli apostoli? Giuda, il traditore di Cristo. Fate che si compia la Passione: il Mistero vive solo se rivive ogni volta rinnovato.
E allora fate dire a Ettore Gotti Tedeschi che l’economia mondiale deve pigliare consiglio dal Papa. Be’, certo, non in termini così brutali: in questa riedizione molto rimeditata di Denaro e Paradiso (Lindau 2010) – c’era di mezzo la Caritas in veritate – il presidente dello Ior (insieme a Rino Cammilleri) ripiglia la tesi di Bazzichi (originariamente non sarebbe neanche del Bazzichi, ma è dal suo Alle radici del capitalismo che pesca a larghe mani) e – a suo modo – pensa di poter dimostrare che il capitalismo è tanto più virtuoso quanto più è cattolico.
A parte: non scandalizzi che san Francesco sia tradito dai teologi francescani come Cristo da Giuda, aveva pure lui le mani bucate.