mercoledì 2 febbraio 2011

“Quello che fa lo dice”


Bordin assicura che “Pannella usa i momenti di debolezza dei governi perché ritiene che in quei momenti si possano ottenere delle cose utili. E Berlusconi è debole”. Detto per chi di Pannella se ne sbatte le palle e dunque non ha chiaro il contesto, parleremmo del fatto che da sette o otto settimane Pannella dialoga con Berlusconi.
Mi raccomando, si faccia attenzione: dialogo. Guai a parlare di trattativa, sennò Pannella si butta a terra e strepita che l’hai pestato a sangue: Pannella non tratta, Pannella dialoga. E tuttavia, stando a quanto assicura Bordin, questo dialogo sembra avere le dinamiche dello strategismo sentimentale contro il quale combatte il Marra: sfruttamento delle debolezze del codialogante al fine di trarne un utile. Un gran bel dialogare, non c’è che dire, però sembra un trattare, peraltro da una posizione di vantaggio, almeno così percepita.
E dunque “Berlusconi è debole”, perciò Pannella gli dà attenzione. E ci dialoga, per ottenere qualcosa. E però manda (Bonino e Beltrandi) a dire in giro che Berlusconi non è in grado di dare niente: né una legge elettorale col maggioritario secco a turno unico, né un’amnistia, né il testamento biologico, tutt’al più la riforma dell’art. 41 della Costituzione, ma forse neanche quella. E le cose utili che Bordin assicura sia possibile ottenere? Non sarà il caso di rimandare il dialogo a quando Berlusconi sarà ancora più debole?
Questioni di logica piana. Troppo piana, a detta di Bordin: categorie di questo genere non sono adeguate a cogliere la vera natura del dialogo, se mirato a ottenere un utile. Infatti, “i retroscenisti lo trattano come gli altri politici, mentre lui è diverso: quello che fa lo dice”.

Sarebbe quanto nel Marra fa la differenza tra la dialogicità e lo strategismo. Trasponendo, Pannella dice a Berlusconi: “Dialoghiamo, ché ti vedo debole e quindi posso ottenere da te cose utili”. Non c’è dubbio che glielo dica in faccia, perché lui odia gli strategismi del trattare: quello che fa lo dice (quello che dice lo fa?). Proprio come il Marra, che in sintesi potremmo stringere in qualcosa del genere: “Stronzetta, so bene che ti faccio andare il cervello in gorgonzola e desideri ardentemente la mia verga, ergo risparmiami le formalità: vai di là, datti una lubrificatina, ché appena ho finito di spuntarmi le basette passo un attimino a darti l’estasi”.
Un mostro, vero? Errore, state giudicando secondo logica piana: “Gli schemi politici – dice Bordin – calati su Pannella non funzionano: lui è un artista”. Trasponendo, è un mostro, ma vedrete che tra un poco la stronzetta cede, va di là e si dà una lubrificatina... Dite quello che vi pare: se dovete mandare a cagare il Marra, dovete mandarci pure Pannella.

Pruderie


Stavo guardando e cancellando i messaggi sul mio iPad – ha provato a spiegare Simeone Di Cagno Abbrescia – quando si è aperta una finestra e la pruderie maschile mi ha portato a fermarmi su quelle immagini di belle figliole” (il Giornale, 2.2.2011). È possibile che quel “pruderienon meriti alcuna attenzione? Il termine starebbe a indicare moralismo di stampo puritano, perbenismo un po’ bigotto, castigatezza oltre misura, esagerato pudore, insomma, proprio il contrario di quello che dovrebbe aver spinto l’onorevole a soffermarsi su quel sito porno, che eventualmente potremmo definire “prurigine. Bene, non ho notizia di giornalista o blogger che finora abbia segnalato lo sproposito: indignazione, battutine, qualcuno rileva che “chiunque possieda un iPad sa che questo, semplicemente, non è possibile” (manteblog, 2.2.2011), ma che Simeone Di Cagno Abbrescia sia prima di tutto un ignorante – niente.

Non c'è partita


“In Svizzera, un operatore sociale di 54 anni ha confessato di aver commesso atti di carattere sessuale con 114 bambini, uno dei quali di un anno, e persone disabili negli ultimi 29 anni in diversi istituti in Svizzera e in Germania. Lo ha comunicato oggi la procura della regione Berna Mittelland citata dall’agenzia di stampa svizzera Ats” (ansa, 1.2.2011).

Rimane imbattuto il record di padre Joseph Murphy: più di 200 bambini sordomuti in poco più di 25 anni. Anzi, diciamolo, questi tentativi laici di cercare di far meglio dei preti è patetico.


 

martedì 1 febbraio 2011

Non è uno «Stronzo d’Oro» davvero meritato?



Apparsa su Il Foglio di martedì 1 febbraio 2011, a pag. 4 (boxino in mezzo a quattro boxini, come giocasse a nascondino), questa rettifica non meriterebbe di essere premiata col Premio «Stronzo d’Oro» che qui le viene assegnato, se non fosse che l’articolo di Francesco Agnoli era dedicato al professor Umberto Veronesi e i “riferimenti inesatti”, verificati manco per il cazzo perché tornavano comodo, servivano a dipingerlo come un losco e avido maneggione.
Tre anni dopo, voilà, Il Foglio fa la verifica e scopre le diffamatorie inesattezze mandate in pagina: fa due conti su quanto gli può costare e chiede scusa. Verifica che viene fatta “soltanto a seguito” della querela, sennò andava bene che il professore rimanesse dipinto com’era. Superfluo rilevare, tenuto conto del fatto che parliamo de Il Foglio, che il ritratto del “professor Umberto V., nichilista di tendenza” occupava due interi paginoni di centronumero, i “riferimenti inesatti” da La Voce della Campania (un copia-incolla, niente più) erano per ben 10.751 battute delle circa 50.000, e che la rettifica odierna è di 4 x 7 cm (726 battute), e a Veronesi neanche un vago accenno.
Non è uno «Stronzo d’Oro» davvero meritato?

lunedì 31 gennaio 2011

[...]





Ma chi è tanto idiota da poter credere al rilancio?



Concordo con chi sostiene che la lettera di Silvio Berlusconi al Corriere della Sera sia stata scritta da un ghostwriter (phastidio.net) e con chi si spinge ad attribuirla a Giuliano Ferrara (gadlerner.it), ma in entrambi casi non sono portati argomenti, e allora ci provo io. “Vorrei brevemente spiegare – si legge perché il no del governo e mio va al di là di una semplice preferenza negativa, «preferirei di no», ed esprime invece una irriducibile avversione strategica a quello strumento fiscale [l’imposta patrimoniale], in senso tecnico-finanziario e in senso politico”. Quel «preferirei di no» dovrebbe farci credere che Silvio Berlusconi abbia letto Bartleby the Scrivener di Hermann Melville, e questo è poco credibile: è più probabile che la lettera gli si sia stata scritta da un ghostwriter, dunque, ma perché proprio Ferrara? Perché più avanti si legge: “Gli atteggiamenti faziosi, ma anche quelli soltanto malmostosi e scettici, possono essere sconfitti, e «malmostoso» è praticamente una firma. Dovrebbe significare pure che Ferrara ha letto Melville, ma questo non è strettamente necessario, perché Ferrara è di quelli che citano anche il sentito dire.

Risolta la questione filologica, si pone una domanda assai più seria: ma davvero Berlusconi è tanto disperato da pensare che il rilancio consigliatogli da Ferrara possa trovare sponde fuori dal centrodestra? C’è un solo serio liberista, un solo serio riformista, che può investire due soldi di fiducia in un vecchio puttaniere braccato nel suo bunker, che di liberalizzazioni e di riformismo si è sempre solo sciacquato la bocca, e sempre solo alle viste di una campagna elettorale? Davvero Berlusconi è così disperato? O davvero il paese è così idiota come gli suggerisce Ferrara?


Scimmiottature


La lotta tra modernità e tradizione è trasversale in ogni società, e in ciascuna si assiste a un prevalere dell’una sull’altra, ma in nessuna si ha tale schiacciante predominanza della modernità sulla tradizione, o viceversa, per potere immaginare società moderne in lotta con società tradizionali, e viceversa. Le cose si complicano per la peculiarità che la tradizione assume in questa o in quella società, ma anche per una diversa idea della modernità in quella società e in questa. E tuttavia, in generale, possiamo dire che non c’è modernità senza secolarizzazione e non c’è tradizione senza richiamo al trascendente, sicché in ogni società assistiamo – in diversa forma e misura, e con diverso esito parziale della contesa – a una lotta tra dissacrazione e recupero del sacro, tra tendenza a trarre autorità dalla ragione o dalla fede, a fondare il potere sull’utile (come massima felicità per il maggior numero di individui) o sul bene (come sola verità e giustizia valide per tutti), tra tendenza al consenso o all’assenso.


Con la morte delle ideologie nate in Europa, progressisti e conservatori europei hanno dovuto indossare ideologie nate in America, che sono il portato delle filosofie che hanno informato la politica estera degli Stati Uniti lungo la sua storia. Non è data ideologia, infatti, senza visione del mondo e, ancor più, della visione di se stessi nel mondo, quasi sempre cercando di starci dentro da padroni, nella volontà e/o nella rappresentazione. In Italia il cambio d’abito è stato tragicomico e così abbiamo dei neocon de noantri che agitano come un presagio la loro robusta sopravvalutazione del rischio di deriva islamista della crisi egiziana, e la randellano sulle teste delle anime belle che invece stanno lì tutte speranzose in un effetto-domino laico e liberaldemocratico in tutto il mondo arabo.È che le mode arrivano in ritardo – c’è pur sempre di mezzo un oceano – e siamo ancora a La fine della storia di Francis Fukuyama e a Lo scontro delle civiltà di Samuel Huntington. E però c’è un doppio paradosso: Samuel Huntington era il consigliere di Jimmy Carter per la politica estera, che i conservatori italiani considerano la peggiore politica estera americana, e Francis Fukuyama ha lavorato per la Rand Corporation, che i progressisti italiani hanno sempre considerato una copertura della Cia. Il conservatore ci fa la figura di scimmione in frac, il progressista di costume da scimmione appeso a una stampella.

domenica 30 gennaio 2011

L’umidiccio, per esempio



Il prolisso stanca, sì, ma vogliamo essere onesti? Anche il laconico può scassare considerevolmente la uàllera. L’umidiccio, per esempio. L’umidiccio mi fa un post che somiglia a una installazione al neon, di quelle molto concept e tutt’ammicco, che più di una citazione merita una fedele riproduzione: la sottostante.

Poi non dite che eccetera
30 gennaio 2011   Blog
Il 19 aprile 2010 e il 7 giugno 2009

Le due date fanno link a due post dellumidiccio, laconicissimi pure quelli: niente più che una strizzatina docchio nel titolo e, oplà, Obama cuts funds to promote democracy in Egypt by 50% (Haaretz, 18.4.2010) e Obama and Democracy (The Wall Street Journal, 6.6.2009). Solit’ammicco, quasi un tic: Obama è peggio di Bush (così mi consolo che Bush ha perso, così non vi godete la vittoria di Obama).
Può starci? Può starci, in fondo scrivere può servire pure a scaricare tossine. Ma il taglio dei fondi per la promozione della democrazia in Egitto ha qualche relazione con la montante richiesta di democrazia che sale per le vie de Il Cairo? Se sì, è perché ti sei sintonizzato al mio tic.

Dite quello che volete, ma a questi sommi sacerdoti della brevitas preferisco gli indefessi chierici dai mille incisi.


E io perciò li schifo


Sono passati ormai tre giorni da quando la Süddeutsche Zeitung ha dato notizia del ritrovamento di un appello che Joseph Ratzinger firmò nel 1970, insieme ad altri otto teologi, per sollecitare la Conferenza episcopale tedesca a farsi promotrice di una revisione dell’obbligo del celibato sacerdotale, e i nostri vaticanisti sembrano trascurare la faccenda, sarà che a suo tempo il documento fu classificato come riservato (diskret). Fatta eccezione per due smilzi articoletti di Tarquini per la Repubblica e di Galeazzi per La Stampa, tutti tacciono: Magister, Zizola, Tosatti, Accattoli, Tornielli e Rodari, che su un qualsiasi inedito del futuro Benedetto XVI avrebbero altrimenti sparso inchiostro come incenso, struggendosi in mille smorfiette di estasi, non riescono a trovare due minuti per due righe.
Eppure il documento non è affatto privo di interesse. Accanto alla firma di Ratzinger si leggono quelle di Rahner, di Lehmen, di Semmelroth e i toni dell’appello sono alti, persino – se vogliamo – drammatici: al riguardo si parla della necessità (Notwendigkeit) di un provvedimento urgente (eindringlichen) ed esteso (für Deutschland und die Weltkirche im Ganzen). Se a questo si aggiunge che Ratzinger si è sempre pubblicamente espresso in favore dell’obbligo del celibato, mai contro, come interpretare il silenzio dei nostri vaticanisti? Direi che siamo dinanzi all’ennesima prova della loro disonestà intellettuale: riprendere la notizia della Süddeutsche Zeitung potrebbe causare qualche imbarazzo, meglio far finta che sia sfuggita. E io perciò li schifo, poi ditemi se senza buoni motivi.


Per l'eutanasia



Prodotto in Australia da Exit International e portato in Italia dall’Associazione «Luca Coscioni», lo spot che apre questo post, e che quasi certamente già conoscete, si pone il fine di aprire un dibattito pubblico su quel diritto di “scelta finale” che il 67,4% degli italiani riconosce al malato terminale, contro il 21,7% che lo nega e il 10,9% di astenuti [1]. Rifiutato dalle emittenti televisive a diffusione nazionale, lo spot circola da qualche giorno su due o tre tv locali, ma questo indigna lo stesso i vescovi italiani, che hanno dato incarico al professor Francesco D’Agostino di lagnarsene, ieri, sulla prima pagina di Avvenire.
Parole di fuoco. Si tratterebbe di “uno spot che offende la dignità dell’uomo e che quindi non può essere che definito indegno”, tanto più indegno perché “l’offesa che lo spot arreca alla dignità umana è particolarmente subdola. La dignità umana, infatti, è offesa non solo quando viene sadicamente umiliata, ma anche paradossalmente, quando viene ideologicamente esaltata”.

Non varrebbe la pena di riaprire la discussione sul diritto di assistenza spettante a un individuo che in piena libertà e piena responsabilità abbia deciso di mettere fine ai propri giorni quando li ritenga fisicamente e/o psicologicamente intollerabili perché allo stadio terminale di una malattia ad esito letale: per D’Agostino e i suoi mandanti la questione non è negoziabile, il diritto non è ammissibile, e dunque sarebbe una perdita di tempo inutile. Per costoro – è arcinoto – la vita non sarebbe nella disponibilità di chi la vive, perché dono che Dio ha fatto all’uomo, ma del quale Dio può chiedergli conto in ogni momento, senza che l’uomo abbia neppure il diritto di chiedersi che cazzo di dono sia [2]. Per costoro – anche questo è arcinoto – non riveste alcuna importanza il fatto che un tale diritto non costituisca un obbligo per alcuno, ma un’opportunità per chiunque possa ritenerla indispensabile a se stesso: lo Stato sarebbe tenuto a recepire la norma dettata al riguardo dal magistero morale della Chiesa, e a imporla a tutti, credenti o meno, cattolici o no. Norma indiscutibile, sulla quale non sarebbe lecito neanche aprire una discussione, qualunque sia il parere della maggioranza – anche stragrande – dei cittadini: per la Chiesa – è arcinoto anche questo – la maggioranza (e la sua rappresentanza) è sacra solo quando sottoscrive il Catechismo [3].

Stando le cose a questo modo – dicevo – non varrebbe la pena di riaprire la discussione sul diritto di autodeterminazione dell’individuo, tanto meno con chi la pensa come D’Agostino, il quale è mandato a indignarsi proprio del fatto che qualcuno intenda discuterne, al punto da richiamare le autorità istituzionali – “e ce ne sono diverse che possiedono e dovrebbero riconoscersi e onorare una competenza in questo campo” – a prendere “posizione in merito”, cioè a vietare la messa in onda dello spot anche da emittenti private [4]. In pratica, di eutanasia non si potrebbe e non si dovrebbe discutere, né sulle reti nazionali, né su quelle private, perché deve essere scontato che sia “sempre da condannare e da escludere” (Catechismo, 2277). Eventualmente, si può discuterne solo per ribadire che non se ne può discutere. E tuttavia qualcosa da discutere c’è.

“Nello spot i fautori dell’eutanasia volontaria costruiscono un’immagine irreale e quindi ideologica dell’uomo, un’immagine nella quale il malato che «sceglie» la morte e chiede di essere ascoltato dal «governo» appare sereno, lucido, consapevole, coraggioso e quindi esemplarmente ammirevole: ma in tal modo [è sottratta] dignità, umiliandoli, a tutti i malati terminali che vivono la loro esperienza nella debolezza, nella solitudine, nella paura, nella fragilità e spesso nella disperazione, meritando paradossalmente il biasimo che va riservato ai pavidi, a chi non avendo il coraggio di chiedere l’eutanasia”.
È la condanna di un modello alternativo a quello proposto dalla Chiesa e pare che D’Agostino ne tema la concorrenza: pare evidente che il modello proposto dalla Chiesa possa avere successo solo in assenza di modelli alternativi. Non è prestato un gran servizio alla Chiesa: vince solo se corre da sola.
Non è chiaro, poi, perché debba definirsi “ideologico” il modello eutanasico e non quello che impone al malato terminale di tener duro sperando in un miracolo o per offrire le proprie sofferenze a Gesù: in entrambi i casi si tratta di una rappresentazione informata da valori assunti come irrinunciabili, ma perché i cattolici potrebbero rivendicarli tali per tutti, mentre ai non cattolici non sarebbe consentito di rivendicarli tali nemmeno per se stessi?

Ancora: le indicazioni statistiche in coda allo spot “sono inattendibili fino a che il termine [eutanasia] non sia rigorosamente precisato nel suo significato”. Come si dovrebbe precisarlo meglio? Eutanasia è eutanasia, e il 67,4% non ha esitato a esprimersi a favore, peraltro accanto a un 81,4% degli intervistati che si è dichiarato in favore del testamento biologico, che pure non sarebbe questione negoziabile per la Chiesa. E dunque che va cercando, D’Agostino? Gli brucia il culo che lo spot sia chiaro ed efficace, niente di più.
 
 
 
[1] In dettaglio, “ad essere favorevoli alla pratica dell’eutanasia sono soprattutto coloro che si identificano negli schieramenti di sinistra (76,5%) e centro-sinistra (69,7%) insieme a quanti non si riconoscono politicamente in nessuno degli schieramenti (67,7%). Ma anche coloro che si riconoscono nell’area politica di destra (68,9%) e di centro-destra (60,3%) esprimono alte percentuali su questo quesito. Appare contrario a tale pratica il 30,6% di coloro che rientrano nell’area politica di centro” (Eurispes, 2010).
[2] L’arroganza di costoro arriva al punto di pretendere che questo debba valere anche per chi non crede in Dio, e questa è solo una delle tante piccole ragioni che non ci consentono di rattristarci troppo quando arroganti di altro credo ne sgozzano qualcuno, perché in fondo si tratta di un regolamento di conti tra fetenti. Insomma, sì, dispiace un poco, ma solo fino a un certo punto: chi pretende di avere in pugno una verità assoluta che debba valere per tutti, prima o poi, è costretto a fare i conti con un altro prepotente che ha in pugno un’altra verità assoluta.
[3] Sul punto, l’eutanasia dovrebbe essere vietata senza meno, perché “gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore” (Catechismo, 2324). Tuttavia è evidente che, se la dignità umana è offesa anche quando viene “ideologicamente esaltata”, come afferma D’Agostino, il  solo punto fermo sta nel rispetto verso Dio, che gli sarebbe dovuto anche da parte del non credente. [Si potrà obiettare che è così anche per l’omicidio, ma sarebbe un sofisma, perché non c’è bisogno di credere in Dio per trovare accordo sul fatto che non possa dichiararsi legittimo uccidere chi non voglia essere ucciso. È solo dando per scontato il valore relativo della dignità umana, e relativizzandola a bene che non appartiene all’individuo, ma a Dio, che può legittimarsi la condanna morale del suicidio e dell’omicidio in base allo stesso principio. Tutt’è chiamare o no un Dio a garante della dignità umana, come se fosse scontato che senza non vi sarebbero adeguate garanzie: è quanto effettivamente sta nel magistero morale della Chiesa, senza essere ragionevolmente dimostrato.]
[4] Non si spinge a chiederne anche la rimozione dal web e questo è davvero singolare. Si tratta di “uno spot – scrive – che introduce, in un dibattito delicatissimo come quello sulla fine della vita umana, una dimensione mediatico-pubblicitaria, assolutamente indebita, pensata evidentemente per orientare (non però attraverso l’argomentazione, ma attraverso l’emozione) le decisioni dei parlamentari che saranno presto chiamati a votare in via conclusiva sul disegno di legge sul fine vita”. I parlamentari guardano solo le tv locali e non hanno accesso al web? Non potrebbero essere emotivamente condizionati guardando lo spot su Youtube? Viene il sospetto che a D’Agostino bruci il culo per altra ragione.

[Sullo stesso editoriale di Francesco D’Agostino segnalo il lucido intervento di Luca Massaro.] 

sabato 29 gennaio 2011

Via, dite, come si fa a non odiarli?


A Lalibela, in Etiopia, c’è “un monolite di basalto rosato scavato nella roccia a forma di croce”, e tanto basti a testimoniare che pure lì “il cristianesimo è radicato fin dai primi secoli”, così scrive Lucetta Scaraffia (L’Osservatore Romano, 29.1.2011). Gliel’ha detto l’arcivescovo di Addis Abeba, monsignor Berhaneyesus Demerew Souraphiel, illustrandole il progettino che la Chiesa sta per finanziare in Etiopia: “una nuova e grande università cattolica che possa diventare il luogo di preparazione di nuove élites politiche”.
“Certo – scrive la Scaraffia – in un Paese dove molti sono i bambini che muoiono di denutrizione e malaria, dove aumenta costantemente il numero dei ragazzi abbandonati, a prima vista il progetto di una università non sembra di prima necessità. E invece questo progetto della Chiesa cattolica è importante e merita aiuto perché può servire a creare un futuro all’Africa”: excusatio non petita, perché coi propri soldi ciascuno può fare quello che gli pare. Se si sente costretto a motivare? Lasciamo perdere.
Qui, con quelli che serviranno a costruire un’università cattolica in mezzo a una miseria così nera, ci si potrebbe solo porre la questione del come questi soldi siano della Chiesa, giacché di suo la Chiesa non produce denaro ma lo lucra, e tuttavia anche su questo non è il caso di stare a sottilizzare. La questione è un’altra: il futuro che si intende assicurare all’Africa passa per le élites politiche che la Chiesa intende produrre in loco. Con quale diritto? Quello del monolite di basalto rosato. Via, dite, come si fa a non odiarli?

Ora, se in Etiopia dovessero mai ammazzare un prete o far saltare un chiesa, quale sarebbe la differenza tra cristianofobia e anticolonialismo?

venerdì 28 gennaio 2011

A beffa de’ grulli


Suppongo non sia esagerato definire criminale – dico proprio: criminale – l’andare a puttane senza usare il preservativo, soprattutto se ci si va molto spesso, e con puttane sempre diverse, tanto più se questo avviene in un paese come l’Italia, dove le puttane non hanno i diritti e i doveri di ogni altro paese civile e dove – a beffa de’ grulli – vige un articolo del codice penale che punisce con l’ergastolo “chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni” (art. 438), senza fare alcuna differenza tra germi patogeni.

Non sto suggerendo alla Procura di Milano di indagare se Silvio Berlusconi abbia fatto uso di preservativo con tutte le puttane passate per Arcore, ma di cogliere l’occasione offerta da tanto dibattito sul fare la puttana e sull’andare a puttane per pensare a una legge quadro sulla prostituzione, che metta l’Italia in linea con l’Europa. Non avremo dibattuto invano.


Indimenticabile


Corrado Augias si mette un dito sulla nuca e dice: “Il Vaticano sta qui”.


Fallacy / 2



Abbiamo già visto come per Jeremy Bentham sia impossibile la piena fedeltà alla tradizione senza ricorso al “sofisma di autorità” (qui). Tuttavia è uno dei “sofismi di pericolo” (“il cui contenuto è il pericolo che nelle sue varie forme e il cui fine è di reprimere senz’altro ogni discussione suscitando allarme”) a fare della fedeltà alla tradizione uno strumento di soggezione: “Il sofisma in questione viene usato quasi tutte le volte che sulle persone di chi governa o sul modo in cui si governa vien pronunciata un’espressione che implica condanna o censura: il sofisma consiste nel fingere di considerare questa condanna o censura, se non intenzionalmente certo tendenzialmente, gravida di pericoli per il governo stesso («opponendovi a chi governa, vi opponete al governo stesso»). […] Di fatto questo sofisma non è se non un modo d’asserire, con parole diverse, che nessun abuso va riformato e che sulla cattiva condotta d’una persona che ricopra una carica non si deve far motto che possa ispirare un qualche sentimento di disapprovazione”. È il sofisma che lega indissolubilmente, fino a farli coincidere, la carica e la persona che la riveste.
Bentham scrive che la condizione più auspicabile è quella che consente ai governati di ridimensionare chi governa senza che venga suscitato allarme in loro sulle sorti del governo stesso. Certo, “chi accetta una carica pubblica sa bene che si espone a imputazioni, alcune delle quali possono essere ingiuste. […] Nella misura in cui ciò avviene, si verifica effettivamente un male, ma anche in questo caso il male non è mai scevro da un bene che vale a compensarlo: nei funzionari contribuisce ad alimentare l’abitudine a considerare la propria condotta suscettibile di esame e a promuovere nel loro animo quel senso di responsabilità da cui dipende la bontà della condotta e in cui un retto comportamento trova la sua migliore garanzia”, giacché “ogni governo non è altro che un mandato”.
Non è data cogenza del tautologico e dell’autoreferenziale fuori dall’interesse ultimo di una oligarchia che sappia far coincidere nell’abuso il fine e il mezzo di un’istituzione: questo è quanto concludevamo la volta scorsa. Oggi possiamo concludere che un governo realmente democratico è dato solo in un mandato che sia inteso come servizio gravoso e ingrato.


[...]





Resti dov’è


Fossi in lei, gentile Presidente della Camera, terrei duro e non mi dimetterei. Nulla la obbliga, nemmeno l’impegno preso in quel video nel quale prometteva di farlo se dovesse emergere che Tulliani è il proprietario [del bicamere di Montecarlo]: i documenti sventolati in aula da Frattini non lo certificano in modo irrefutabile (utilizzatore beneficiario” non è ancora “proprietario). Resti dov’è: Montecitorio non può sollevarla, Palazzo Chigi e Quirinale meno che mai. Metta in giro la voce che ha pestato a sangue suo cognato, gli chieda di sdebitarsi dei guai che le ha causato mostrandosi due o tre volte in pubblico con un braccio ingessato e la testa incerottata in più punti, e gli faccia dire che è scivolato per le scale l’ultima volta che è venuto a far visita alle nipotine. Se conosce un poco gli italiani, non dovrebbe sfuggirle che questo sarà apprezzato assai più delle sue dimissioni.


“Non è un problema di pubblica moralità”


Silvio Berlusconi ha il culo flaccido, si sa, ma Il Foglio fa opera di misericordia e lo intervista sull’imposta patrimoniale che Giuliano Amato ha proposto sul Corriere della Sera dello scorso 22 dicembre, vestendo l’ignudo di uno splendido mutandone liberale, dentro il quale il Cav. può far vanto di glutei estremamente tonici: “Patrimoniale mai. […] Bisogna fare esattamente il contrario: liberalizzare, privatizzare, riformare e incentivare la crescita dell’occupazione qualificata, della spesa per infrastrutture, dell’istruzione e della ricerca, insomma delle occasioni di sviluppo che generano il futuro di un grande paese, e farlo attraverso meccanismi che limitino l’invadenza insopportabile dello stato fiscale”.
È quello che Silvio Berlusconi va dicendo dal 1994, rimandandolo sempre, anzi, facendo sempre l’esatto contrario: nessuna liberalizzazione, per non toccare i monopoli e i privilegi delle corporazioni; privatizzare solo se svendendo agli amici, ai sodali e ai famigli; fanculo ai disoccupati; infrastrutture, sì, prego rivolgersi al comitato di affari che sta all’ombra del governo; tagli all’istruzione e alla ricerca; non un euro di tasse in meno, basta promettere di farlo ogni 3-4 anni. Viene il sospetto che la patrimoniale ci sarà, che non si possa farne a meno – troppo tardi per riformare il sistema economico italiano, forse era già troppo tardi nel 1994, non rimane che raschiare il fondo del bidone – e viene il sospetto che Giulio Tremonti già si stia scervellando per trovarle un nome diverso.
Al momento, però, la natica sembra tornata soda, come sempre quando c’è aria di elezioni: “Se la mia parabola politica ha un senso, questo senso è nell’estendere e tutelare la libertà del cittadino, conferendo alla società e alle famiglie quel peso, quella centralità, quella autonomia e quella libertà economica e civile che la vecchia Italia non è stata capace di dar loro”. Tutto dovrebbe avere realizzazione negli ultimi tre minuti della parabola, perché finora il centrodestra ha esteso e tutelato solo la libertà del cittadino Silvio Berlusconi, che si andava arricchendo mentre società e famiglie si impoverivano.

A favorire tutto questo c’è stato anche Il Foglio, con quella “lunga storia di contiguità e perfino di complicità” che ora, in coda alla parabola, sarà ripensata in “una serie di lettere che alcuni foglianti scriveranno al presidente del Consiglio”, inaugurata da Giuliano Ferrara sullo stesso numero che pubblica l’intervista all’Amor Loro. È qui che si rivela il fine ultimo dell’opera di misericordia: “All’inizio degli anni Novanta, per salvare la sua ghirba e la sua robba, lei ha messo al sicuro un po’ anche noi, i nostri piccoli e grandi interessi, le nostre idiosincrasie umiliate dai gendarmi, le nostre poche virtù e la nostra insofferenza per il cipiglio borioso di borghesi raramente dignitosi, spesso poco coraggiosi e sempre radicalmente bisognosi”. Con lei, amato Cav., è pure Il Foglio a mostrare il culo flaccido: non c’è che lo stesso mutandone per coprire entrambi.
“Non è un problema di pubblica moralità. Nel 1968 ci siamo storicamente liberati del «comune senso del pudore», categoria arcigna e censoria dell’Italia anni Cinquanta, e ne lasciamo volentieri gli avanzi ai pm politicizzati e a quella parte della sinistra azionista, incarognita con la bella Italia alle vongole, che li segue triste e avvilita”. È interessante leggerlo su Il Foglio, che per anni ci ha rifilato interminabili pipponi sulla esiziale crisi di quella morale pubblica che è andata a farsi fottere per colpa del Sessantotto. Neanche lo si poteva nominare, il Sessantotto (si raccomandava la pudica espressione “1967+1”), e adesso Silvio Berlusconi e le sue puttane diventano espressione di una emancipazione dei costumi sessuali. Almeno per oggi, su Il Foglio, non c’è trippa per gatti teocon, e il Sessantotto non è da combattere. Almeno per oggi, “lasciamo volentieri gli avanzi” dell’amato senso del vietato e del peccato, che ha fatto forte l’occidente cristiano, alla sinistra azionista e ai parrucconi togati. Almeno per oggi, al diavolo la lectio ratzingeriana e viva il bunga-bunga.

E allora come la mettiamo? “È una questione politica. Il Sultano è il Sultano. Lei deve difendere pubblicamente, in modo generoso verso tutti gli italiani e anche verso la platea dei suoi amici, il suo comportamento. [...] Deve accettare un contraddittorio televisivo, deve parlare con schiettezza e capacità autoriflessiva della sua vita personale che è finita, in parte grottescamente deformata dal demoniaco meccanismo delle intercettazioni telefoniche, sotto gli occhi, negli orecchi e sulla bocca di tutti. [...] Accetti generosamente una posizione debole, sfidi un D’Avanzo in tv, e vedrà che ne uscirà più forte”.
Ricapitolando: vendiamo il Colosseo, costruiamo il ponte sullo Stretto di Messina, marchionniziamo le dinamiche socio-economiche, mettiamo in primo piano Antonio Martino per far dimenticare Nicole Minetti e così ci sentiamo liberisti; poi, andiamo in tv per fare il pieno di simpatia e complicità di quanti vogliano concedere che concussione e prostituzione minorile siano conquiste del Sessantotto e così ci sentiamo libertari. E quando un D’Avanzo dovesse far presente che fino a ieri il Sessantotto era la causa di tutti i mali che strozzano la società italiana, buttar lì: “Il Sultano è il Sultano”. Come a dire: non per me.

mercoledì 26 gennaio 2011

Non impareranno mai


“C’è un senso di smarrimento, c’è un involgarimento del discorso pubblico”, disse a un certo punto Massimo D’Alema. Era lo scorso 28 ottobre e teneva un dibattito pubblico con monsignor Rino Fisichella: parlava di Europa cristiana, di etica pubblica, di bene comune, buona e cattiva laicità, e cose così. Dai massimi sistemi era inevitabile una scivolatina ai minimi e così l’Arguto Baffino evocò il Cattivo Esempio: il pessimo marito, l’incallito puttaniere, lo spergiuro, il blasfemo, il corruttore dei costumi via etere, l’oltraggio vivente a una certa dignità della persona, quello che si fa vanto di aver studiato dai salesiani e di avere quintali e quintali di zie suore, ma che poi dei Dieci Comandamenti se ne sbatte altamente. E rivolto al Fisichella implorava: “Lasciate che io dica esattamente il contrario di quello che ci si potrebbe aspettare di ascoltare da me. Altro che chiedere alla Chiesa e al mondo cattolico di non ingerirsi. Io direi: ingeritevi. Se non ora, quando?”.
Era lo stesso Fisichella che aveva argomentato in difesa di Silvio Berlusconi per l’eucaristia ai funerali di Raimondo Vianello, lo stesso Fisichella che gli aveva contestualizzato un “Orcodìo!”, e D’Alema implorava un aiutino al Fisichella. Povero stronzo, lui e tutti quelli che hanno chiesto e chiederanno un aiutino alla Chiesa contro il Pubblico Peccatore. Il Foglio ha ragione a prenderli per il culo dopo la prolusione del cardinale Angelo Bagnasco.

C’è una sinistra che ancora si ostina a voler dialogare con la Cei e la Santa Sede sulla base di un malinteso cristianesimo, sempre emarginato nella Chiesa, quando non eretico. Questa sinistra reputa di poter essere utilmente neotogliattiana nel trattare con le gerarchie ecclesiastiche e, ‘fanculo, fa piacere a vedere che ogni volta, come stavolta, si spezza i denti. Non impareranno mai, poveri comunistelli.


[cfr. Leonardo]

martedì 25 gennaio 2011

Alta diplomazia



- Pronto, sono lo zio di Ruby... Gentilmente, mi mandate la Nicole?


Vicino al punto di non ritorno



Iva Zanicchi era molto combattuta, poverina, ma ha finito per non raccogliere il “cordiale invito” ed è rimasta, Dio solo sa quanto le costerà in disturbi neurovegetativi. Però questo non vuol dire niente, perché un qualsiasi altro esponente del Pdl, ministro del governo o attivista di base, non avrebbe esitato: un Bondi, anche un Sacconi, naturalmente un Gasparri, ancor più una Santanché, ma ovviamente un Sallusti, una De Girolamo, un qualsiasi cicciobello in doppiopetto profumato di mentina, per non parlare di un Bonaiuti o di un Verdini (non escluderei neppure un Ferrara) – via, non sarebbe restato un solo istante in più. Con Iva Zanicchi – e questo è molto strano – Silvio Berlusconi ha sbagliato il calcolo o forse no, può darsi che, conoscendo la fiera indole dell’europarlamentare, abbia deliberatamente voluto testarsi. E non ha superato il test.
Non è ancora il punto di non ritorno, ma ci siamo abbastanza vicini. Il gioco l’ha inventato lui e gli hanno detto: “Peccato, il prezzo non è giusto”.