domenica 10 aprile 2011

:-D


Fossi ancora iscritto a Radicali italiani, starei a mangiarmi il fegato. E invece seguo a debita distanza questo Comitato nazionale chiamato a declinare alla milanese il dogma romano, e rido.
A Roma – più esattamente in via di Torre Argentina – è articolo di fede che si possa (e si debba) fare differenza tra chiesa e gerarchia ecclesiastica, tra cattolici e Santa Sede, tra spiritualismo e religiosità. Ci credono davvero, pensano che l’emancipazione antropologica di questo paese rovinato dal cattolicesimo passi per l’emersione dello “scisma sommerso”, e non si avvedono che il più schifoso clericalismo è tutto in nuce già nella apparente purezza del messaggio evangelico, in quell’obbligo di amare il prossimo invece del farsi bastare il rispettarlo. Precipitando dall’iperuranio romano, qui a Milano l’idea è di poter far differenza tra don Luigi Giussani e Roberto Formigoni, tra una Comunione e liberazione nata come puro afflato sociale e poi – solo poi – diventata lobby avidissima.
Se a Roma il dogma sbatte il muso da decenni (almeno dal 1985), i cattolici milanesi, schifati dallo strapotere formigoniano, potrebbero (e dovrebbero) votare questi monaci scalzi, più giussianiani di Formigoni. Come se non fosse tutto già in Giussani il mandato ad annunciare Cristo come evento, meeting e coffee break. Non hanno letto Giussani, questo è tutto.

Peggio di noi non possono essere


In Gramsci, in Prezzolini, in Salvemini e in Sturzo si ritrova la stessa distinzione degli italiani in conformisti e anarchici, e in tutti e quattro si arriva a concludere, pur con diversa argomentazione, che in ogni conformista c’è sempre un anarchico, e viceversa. Tutti della stessa pasta: sia il conformista, che non è tale per un innato rispetto della regola, intesa come autorità o tradizione, ma per istinto all’adattamento senza convinzione, per lo più per evitare rogne e in nome del “chi me lo fa fare?”, eventualmente (e manco tanto eventualmente) per lucrare agi; sia l’anarchico, che non è tale perché refrattario alla regola, intesa come sopra, ma perché disilluso dal poterne cavare vantaggio. Non v’è accordo sulle cause, ma in tutti e quattro – Gramsci, Prezzolini, Salvemini e Sturzo – il cosiddetto “carattere nazionale” ha due facce ma una sola anima, che è antisociale quanto più è socievole, familista quanto più universalista, ecc.
Sono partito da Sturzo, del quale sto leggendo in questi giorni l’ultimo volume di Politica di questi anni. A pag. 259 sento l’eco di Prezzolini, faccio uno sforzo di memoria e rivado al suo L’Italia finisce, ecco quel che resta. Qui, a tratti, il “carattere nazionale” trova un giudizio analogo a quello che è ben più che tra le righe delle Cronache torinesi, e in tutto coincidente alle riflessioni salveminiane alla vigilia della Grande Guerra. In meno di mezz’ora, l’Italia e gli italiani mi arrivano a condanna definitiva: indegni di sopravvivere in quanto tali.
Non si capisce quale follia possa mandarci in giro fieri di una identità che sarebbe tutta nostra, reliquia di qualche Rinascimento o Risorgimento. Io accoglierei a braccia aperte somali e tunisini: peggio di noi non possono essere, è praticamente impossibile.


sabato 9 aprile 2011

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Panopticon



Nell’uso della metafora è inevitabile un minimo di violenza all’oggetto dal quale si piglia a prestito l’immagine, ma certe volte si esagera, e la violenza gli sfigura i connotati. È il caso del Panopticon, il modulo architettonico concepito da Jeremy Bentham a soluzione di alcuni problemi del regime di sorveglianza in convitti, collegi, ospedali, carceri, ecc. Basta leggere il testo, che è del 1787 (pubbl. 1791), per trovarci la filosofia e il metodo: tutto è “as much advantage as to convicts” (Panopticon, XVII).
Bene, occorre dire che l’oggetto è già discretamente mortificato dall’uso metaforico che fa Michel Foucault (Surveiller et punir, 1975): il Panopticon diventa solo carcere, e solo una delle sue funzioni, la sorveglianza, va a esaurirne il fine.
Subisce altra violenza da Shoshana Zuboff (In the Age of the Smart Machine, 1988), che prende l’immagine così lavorata da Michel Foucault per usarla come metafora del controllo informatico della produzione nella società post-industriale.
Così deformato, il Panopticon arriva sulle pagine di Government Technology (11.9.2007) per fare da metafora alla censura dell’informazione che il regime cinese attua sulla rete di internet.
Di qui passa nelle mani di William Gibson: “Jeremy Bentham’s Panopticon prison design is a perennial metaphor in discussions of digital surveillance and data mining, but it doesn’t really suit an entity like Google” (The New York Times, 31.8.2010). Qui, la violenza che l’uso della metafora fa all’oggetto sembrerebbe attenuarsi, perché si spiega che “in Google, we are at once the surveilled and the individual retinal cells of the surveillant” (più Anopticon che Panopticon, dunque, o entrambe le cose insieme). Sembra finalmente che a Bentham sia concessa un po’ di tregua, ma...

Ma ecco che arriva Daniele Capezzone col suo Contro Assange, oltre Assange (in abbinamento facoltativo a il Giornale di qualche giorno fa, pagg. 80, € 2,80, non un’idea, dicasi una): “È stato lo scrittore di fantascienza William Gibson a descrivere le cose nei termini più efficaci e insieme inquietanti: siamo arrivati ad una sorta di potenziamento all’inverosimile del Panopticon pensato da Jeremy Bentham, il carcere ideale dotato di forma e caratteristiche tali da consentire ad un unico guardiano di vedere tutti i prigionieri, senza che questi ultimi possano sapere se siano sorvegliati o no. Qui, invece, ognuno di noi è guardiano e prigioniero nello stesso tempo, concentrando in sé tutto il potere della prima figura e tutta la nudità della seconda” (pagg. 31-32).
E dunque, al pari di Gibson, Capezzone sembrerebbe voler dare a Bentham quel che è di Bentham, restituendo l’immagine all’oggetto e rinunciando a deformarla in modo improprio. Sembrerebbe anche un gesto carino da parte di chi si ostina a definirsi liberale, e quindi dovrebbe aver letto Bentham, almeno per simulare con un minimo di decenza. Ma è solo una finta e in copertina – voilà – il Panopticon. Che con Wikileaks, con Wikipedia, con Google e con Internet – si era convenuto a pagg. 31-32 – non c’entra niente. Ma sta lì, in copertina, sotto il titolo.



Per questo, se potesse, Bentham prenderebbe a schiaffoni Capezzone? Non per questo, non per questo.

Più nulla è inverosimile ormai

 

Una delle domande delle cento pistole che stasera Daria Bignardi ha posto a Carlo Conti era la seguente: “Gerry Scotti: Presidente della Repubblica, si o no?”. Ero lì tutto schifato da una domanda così scema – pensavo: poi sfottiamo Barbara D’Urso e Anna La Rosa per la fatuità che stendono ai piedi dei loro ospiti, ma a questa qui qualcuno scrive le domande, o se le scrive da sola? – e la risposta mi ha fatto trasalire: “Sì, così mi fa Presidente del Consiglio”.

C’era dell’ironia, senza dubbio, ma non siamo il paese dove una sciampista può diventare ministro? E non è proprio questo il bello della democrazia? Gerry Scotti al Quirinale e Carlo Conti a Palazzo Chigi, che c’è di inverosimile? Più nulla è inverosimile ormai, siamo in overdose del bello della democrazia, e nessuno può escludere che il sorriso di Daria Bignardi alla risposta di Carlo Conti possa finire in un documentario storico di fine secolo, questo secolo.

 

 

venerdì 8 aprile 2011

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Luogo e data di emissione



Il Foglio pubblica gli assegni che dimostrerebbero il versamento della caparra per l’acquisto di Villa Due Palme in località Cala Francese, a Lampedusa. La giurisprudenza non è univoca sul punto, ma pare prevalente l’indirizzo a non ritenere validi gli assegni privi di luogo e data di emissione, che qui mancano.


[un grazie a Simone Zaccagnini]

giovedì 7 aprile 2011

L’aiuto della Chiesa alla popolazione giapponese

 

L’Osservatore Romano di domani ci spiega in cosa consista L’aiuto della Chiesa alla popolazione giapponese, che è l’altisonante titolo dell’articolo. Tutto come sempre, niente di nuovo. La Santa Sede, che anche stavolta di suo non caccia un euro, destina i proventi di una colletta, che verrà effettuata durante la messa in Cena Domini che Benedetto XVI celebrerà il Giovedì Santo”, alle “vittime del terremoto e del maremoto nella regione dell’Honshu orientale”, cioè al titolare di quella diocesi, il quale userà la somma “per aiutare persone in difficoltà, per riparare le chiese, per ricostruire le case”. In pratica, come sempre, l’aiuto della Chiesa alla popolazione giapponese consisterà nel raccogliere denaro fra i fedeli laici all’altro capo del mondo per far fronte alle urgenze della lontana diocesi giapponese, intesa come succursale della Santa Sede in Estremo Oriente, e infatti il vescovo di Sendai ringrazia a nome dei “cattolici del Giappone”, ai quali andrà quanto non servirà a costruire chiese nuove e case destinate al clero senzatetto.

L’aiuto non è al Giappone, ma alla chiesa cattolica giapponese. Non viene dalla Santa Sede, se non come frutto della colletta che ha organizzato. Non arriverà in Giappone prima del 21 aprile, e dunque non risponderà alle prime necessità, che sono quelle più drammatiche, ma alle seconde e alle terze. Volontari cattolici spaleranno fango, come probabilmente faranno pure i volontari non cattolici, ma lo faranno da cattolici, coordinati dal vescovo, e dunque il merito andrà alla diocesi. L’articolo è illuminante, ma il titolo non va bene. Sarebbe stato più corretto dire Anche in Giappone, la Chiesa è sempre uguale a se stessa.

 

Non siate facilisti, non siate ipocriti


Sì, duecento e passa migranti sono affogati nel Canale di Sicilia, e questo muove a compassione, ma “soffrire con gli altri e per gli altri è molto complicato – avverte Giuliano Ferrara – se non si voglia essere facilisti e ipocriti”. Erano eritrei e somali, mica embrioni.

mercoledì 6 aprile 2011

En passant

Ho dato incarico ai miei legali di presentare formale denuncia-querela per il reato di diffamazione aggravata ai miei danni, e con l’intenzione di costituirmi parte civile, in attinenza a quanto leggo, oggi, su pontifex.roma.it, in un post nel quale vengo pubblicamente indicato, e fin dal titolo, con l’ingiurioso epiteto di “seminatore di odio contro i cristiani”.

Stasera era troppo



Buona sera. Domani è il gran giorno, il giorno fatale: comincia a Milano il processo Ruby. Centinaia di giornalisti da tutto il mondo arrivano lì per vedere se si può sputtanare ancora un po’ questo nostro martoriato paese. L’accusa è temeraria, goffa, ridicola: prostituzione.

La prima menzogna arriva dopo appena 30" (sigla di testa compresa). Sembra solo una banale imprecisione, perché l’accusa è di prostituzione minorile e di concussione, per Berlusconi, e di sfruttamento della prostituzione, per Mora, Fede e Minetti. La prostituzione – in sé – non è reato in Italia. Gli imputati non sono le prostitute passate per Villa San Martino, ma tre tizi che l’accusa sostiene le sfruttassero e un tizio che avrebbe pagato le prestazioni sessuali di una minorenne, abusando poi della sua carica istituzionale per sottrarla alla giustizia quando questa è stata fermata per furto, presumibilmente per assicurarsene il silenzio sull’illecito commercio sessuale. Domani, dunque, non si processa una puttana, né dieci, né cento, come Giuliano Ferrara cerca di insinuare, ma solo Berlusconi e i tre addetti a procurargli puttane. L’imputazione non è a carico delle donne pagate da Berlusconi, che infatti saranno chiamate in causa solo come testimoni; tanto meno è carico di Ruby, testimone e parte lesa. E allora come si può imbrogliare le carte? Facile.

[L’accusa] è a carico del Presidente del Consiglio e di un certo numero di suoi amici e amiche.

“Un certo numero”, ma quale? Se è 3 (Mora, Fede e Minetti), siamo d’accordo. Il fatto è, però, che “un certo numero” può significare dieci, trenta, trentatre e anche tutto il troiaio, sicché si sarebbe autorizzati a credere – se uno fosse tanto idiota da credere a Ferrara – che l’accusa sia di prostituzione, che il tribunale si stia ergendo ad autorità morale, e che il processo non serva a chiarire se Berlusconi abbia o no commesso i reati agli articoli 317 e 600-bis del Codice Penale, ma a stigmatizzare i costumi privati di libere cittadine. Se uno è tanto idiota, può allora convenire che

Però il vero contenuto del processo è un altro: è il diritto, che viene contestato, di alcune ragazze, di alcune giovani donne, di essere invitate a cena da un uomo ricco e potente, di sedurlo, di farsene sedurre mondanamente e di giocare con lui, privatamente, dentro le mura della sua casa. Questo diritto è in forte contestazione – è diventato un reato penale – e il pretesto è difendere la dignità della donna.

La minore età di Ruby? L’abuso di potere? Volatilizzati, puf! Il processo che si terrà domani dovrebbe servire a sanzionare delle allegre cene private, l’idiota è pregato di crederci. Se poi ci crede, è pronto al parallelismo.

Vediamo come la dignità della donna viene difesa nel mondo islamico. Ho trovato in un blog (camilloblog.it) di un mio caro amico giornalista un piccolissimo documentario che vi sottopongo: lì si spiega come fanno gli islamici, quelli del burqa, quelli del velo, quelli della sharia, la legge secondo cui la moglie può piccare il… il marito può picchiare la moglie – insomma, quelli che mantengono le donne nelle condizioni che sappiamo – come concepiscono loro storie simili. Pregherei la regia di mandare in onda questo meraviglioso docu-drama.

[Sorvoliamo sul lapsus. Dovremmo tirare in ballo la signora Selma e non sarebbe bello.] Veena Malik, soubrette pakistana, ha partecipato all’edizione indiana del Grande Fratello, e perciò è fatta oggetto di una fatwa in diretta televisiva. La vicenda ha qualche relazione col processo che si apre domani? Nessuna, ovviamente. Se però siamo riusciti a spostare sulle puttane l’attenzione che abbiamo distolto dal puttaniere e dai magnaccia, che ci vuole a trasformare le prestazioni sessuali a pagamento in simpatiche cenette? Se ci si riesce, abbiamo fatto credere che domani, a Milano, si processano delle ragazze che non hanno commesso alcun reato – cosa che è comunque vera perché non lo è neanche il prostituirsi – e che a muovere la magistratura sia un’urgenza morale, affine a quella dei tribunali coranici. Ehi, tu, idiota, ascolta.

Ecco. Da una parte c’è un giornalista tipo Gad Lerner, il famoso giornalista de La7 che fa una trasmissione dietro l’altra per dire che Berlusconi è un nemico della dignità delle donne; dall’altro c’è un mufti o imam islamico, che dice «hai disonorato il Pakistan» a questa ragazza che ha il solo torto di essere andata al Grande Fratello. È andata in India per emanciparsi da una vita che non le piaceva. Si è messa un po’ in libertà – non proprio con il burqa, come si vede – ed è andata a fare il Grande Fratello, e partecipa al mondo colorito e colorato dello spettacolo. Il mufti, che assomiglia molto ad alcuni giudici che io conosco, gli dice «tu sei il disonore della patria», e crea lo scandalo moralistico per questa donna che cerca di esercitare come desidera la propria libertà, se non la propria dignità.

Non sei mosso a indignazione, idiota, nel sapere che domani, a Milano, sarà fatto il tentativo di applicare la sharia all’allegra compagnia di Arcore? Non ti fa pena sapere che al povero Apicella potrebbero essere riservate trenta nerbate? Chiediti, idiota, perché può accadere una roba del genere. Non ci riesci? Aspetta che a guidarti c’è sempre Ferrara.

Ora, vedete, io capisco che ci sia scandalo, perché la ricchezza fa sempre scandalo, il potere fa sempre scandalo, gli usi e i costumi privati di un potente sono sempre oggetto – insieme – da un lato di ammirazione e dall’altro di invidia, e poi di spirito critico o ipercritico. La ricchezza è una cosa che tutti dannano e molti desiderano, è un modo di compensare i talenti che tutti auspicano possa [?] arrivare per sé. Sappiamo di due clamorosi critici del Presidente del Consiglio – il comico David Riondino e l’attrice comica Sabina Guzzanti – che hanno affidato i loro risparmi a un finanziere che prometteva loro il 20% di interessi, non so se mi spiego. Insomma, la ricchezza è traditrice per i moralisti: la dannano e supplicano il cielo che arrivi anche per loro.

Ci arrivi, cocco? Bravo, proprio così: è tutta colpa dell’invidia, che è sentimento – insieme – atroce e ridicolo. E certi magistrati – ahinoi! – amministrano la giustizia in nome dell’invidia sociale. Infatti, ascolta come chiude questa esemplare puntata di Qui Radio Londra e poi decidi come schierarti.

Nessuno vuole qui fare l’apologia di Ruby, né l’apologia di Berlusconi e delle sue cene private. Il punto è un altro. Il punto è che quella ragazza che avete visto nel filmato è come la signora Karima el Maghroub, in arte Ruby. È una giovane donna che ha scelto un uso spregiudicato, criticabile quanto volete, ma libero, della sua vita, anche per emanciparsi da costrizioni e regole che rifiutava. E ha incontrato sulla sua strada un giocoliere galante – il Presidente del Consiglio – che ha organizzato delle cene per lei e per molte sue amiche. Il che è diventato – temerariamente – un reato penale meritevole di processo, di sputtanamento del paese ed eventualmente – perché no – di galera.

Vuoi vestire i panni del mufti? Dev’essere l’invidia, che altro? E ancora, come in apertura, torna lo “sputtanamento del paese”. Un paese pieno di giocolieri galanti. Chiamati a solidarizzare con l’imputato, non foss’altro che per amor patrio. Vogliamo che Milano diventi Islamabad? Sì? O tempora, o mores.

Così vanno le cose. A domani.

Domani non posso. Stasera era troppo.

martedì 5 aprile 2011

Nato ieri

Saggio di eroismo

Il presidente della Federazione Internazionale dei Medici Cattolici, il dottor José María Simón Castellví, dice che i ginecologi cattolici sono da considerare “autentici eroi” per le “grandi pressioni” che subiscono al giorno d’oggi (zenit.org, 4.4.2011). Come dargli torto?

Aborto?
“Spiacente, sono obiettore”.

Pillola?
“Spiacente, sono obiettore”.

Ma non ho specificato che tipo di pillola…
“Non c’è bisogno: la mia coscienza pone obiezione su tutte quelle che dice lei”.

Spirale?
“La spirale uccide l’embrione”.

Cerotto transdermico? Anello vaginale? Diaframma?
“Spiacente”.

Preservativo?
“Non c’è bisogno di prescrizione, ma le consiglio una farmacia cattolica”.

Ma lì non li vendono.
“Vorrà mica che il farmacista si metta sotto i piedi la coscienza?”.

Sterilizzazione tubarica?
“La Congregazione per la Dottrina della Fede non approva”.

Suppongo sia la stessa cosa per la vasectomia?
“Non saprei, ma posso consigliare a suo marito un urologo cattolico di mia fiducia... Stasera ci vediamo per il rosario, vuole che gliene parli?”.

Lasci perdere, ho cambiato idea: voglio un bambino, ma non arriva. Fecondazione assistita?
“Di nessun tipo: offende Dio”.

Non ha importanza, sono già incinta. Amniocentesi? Ecografia?
“Solo se mi assicura che non prende decisioni moralmente illecite in base ai risultati”.

Dottore, può almeno vaccinare mia figlia contro il Papillomavirus?
“La vogliamo incoraggiare a diventare una troia?”.

Dottore…
“Basta, la prego. Lei mi sta sottoponendo a pressioni insostenibili...”.

Mi scusi, non volevo, ma è che...
“Fa niente, non si scusi... In fondo, voi donne avete l’anima da soli cinque secoli...”.

  


lunedì 4 aprile 2011

Mica so' tutti pedofili

Don Ruggiero Badiale, per esempio, no.

Potere e no


Piergiorgio Welby e Gabriele Cagliari sono morti entrambi per asfissia, entrambi suicidi, entrambi allegando al loro gesto un significato che esorbitava dal privato, per farsi atto civile, cosa nobilmente politica, sennò – come ritengono taluni, ma non per entrambi – gesto scandaloso, contro natura e contro Dio. Eccolo lì, Ferrara. Parla di Cagliari: un tale che pensava alla sua vita come a cosa sua, e che ne dispose liberamente, proprio come Welby avrebbe fatto da solo, se ne avesse avuto la possibilità. Sappiamo com’è andata: ci fu bisogno di qualcuno che l’aiutasse. Anche Cagliari, però, perché qualcuno deve averglielo pur dato quel sacchetto di cellophane. Quasi un suicidio assistito. E allora in cosa – asfissia per asfissia – Cagliari è nobile e Welby no? In cosa il suicidio dell’uno merita rispetto, toni sussiegosi, vocione da cerimonia, e l’altro può essere additato a crimine contro l’intera umanità?
Basta calarsi un attimino nella sfera morale di Ferrara – solo un attimino, sennò le esalazioni vi stendono – e lì vedrete Cagliari che può e Welby che non può: come al solito, è il potere che merita rispetto.


“Jesus as an openly gay man”


Michael Ruse sostiene che si possa ritenere “Jesus as an openly gay man” (guardian.co.uk, 4.4.2011), e da quanto e come riferisce dei codici paleocristiani trovati qualche anno fa nel nord della Giordania siamo autorizzati a tradurre “openly” in “manifestamente”. Da molti passi di quest’ennesimo vangelo, infatti, parrebbe più che lecito desumere che l’omosessualità di Gesù e dei suoi accoliti non fosse solo costume della setta, ma vera e propria cifra della dimensione comunitaria, peculiarmente caratterizzata da una omofilia di tipo cenacolare, tendenzialmente fusionale, forse paraorgiastico: a vicende che già avevamo trovato nei sinottici, e che qui si presterebbero assai bene ad una lettura del genere, ne emergono di nuove che parrebbero legittimarla, perfino incoraggiarla.
Fra qualche anno dovremmo poterci mettere gli occhi sopra e sarà meglio rimandare ad allora ogni altra considerazione, ma sempre tenendo conto che ogni nuova lettura del mito non fa che riscriverlo. Di là da quanto e come i codici autorizzino a ritenere valida questa lettura, tuttavia, è assodato che si tratti di documenti antecedenti o contemporanei al più antico dei sinottici, scritti in ebraico e su tavolette di piombo, a dar prova di fonte attendibile e non inquinata. Poco importa: quand’anche fosse possibile dimostrare l’attendibilità della fonte e la legittimità di una lettura come quella suggerita da Michael Ruse, si tratterebbe comunque di un vangelo destinato ad essere considerato come apocrifo, anche se si potesse esser certi che nel tempo e nello spazio abbia visto luce più vicino a Gesù di quanto siano i sinottici. Nessuna lettura è possibile, se non piace a chi si proclama mito vivente. “Jesus as a gay man”, chissà, forse. “Openly”, non se ne parla.

Yeah! Yeah!


L’idea era quella di commentare le sue solite stronzate del lunedì, ma stavolta già il titolo mi ha scoraggiato: “Noi prigionieri dell’ingombro dell’io, la chiesa no” (Il Foglio, 4.4.2011). Se la geometria solida non è un’opinione, come cazzo si fa ad essere “prigionieri” di un “ingombro”? Insomma, ho lasciato perdere. Meglio il Ferrara beat.

 
 

domenica 3 aprile 2011

Il ritocco



Dico subito che a rattoppare insieme due video avrei dato più immediatezza e forza alle fonti, con un post più snello. Me ne scuso, ma non sono riuscito a trovare il video – se c’è – della dichiarazione fatta l’altrieri da Silvio Berlusconi e riportata da Il Sole-24Ore di ieri: “Abbiamo 9.000 comuni. Se restassero qui 9.000 nuovi cittadini, basterebbe distribuirne uno per comune e potremmo trovare lavoro a una persona in ogni comune”. Né sono riuscito a recuperare lo spezzone dell’ultima puntata di Anno Zero (ma potrebbe essere anche Ballarò) nel quale la stessa idea – fatta eccezione per il numero: 8.000 – trova paternità in un anonimo di Lampedusa (ma potrebbe essere anche di Manduria).
Nel dare il suo tocco personale ad un’idea che dev’essergli sembrata geniale nella sua sferica semplicità, l’ometto dà ennesima dimostrazione di come mette a frutto ciò che ruba: non sa che i comuni d’Italia sono 8.094 e l’errore in difetto di 94 gli diventa in mano un errore in eccesso di 906. Che poi, a pensarci bene, è la stessa proporzione tra i debiti che aveva prima di scendere in politica e gli utili che si ritrova 17 anni dopo.


Per una alternativa seria e costruttiva


Alle opposizioni mancano argomenti efficaci. Per esempio, da facile e rapida ricerca nei forum di settore risulta che l’ultima di Berlusconi fosse considerata vecchia già nel 2003. Invece che indignarsi per un premier che si intrattiene con gli amministratori locali di una Regione che è allo sfascio raccontando storielle di pessimo gusto, con mezza Italia che ne ride e l’altra metà che si sforza di non farlo, la questione andrebbe posta in altro modo: possiamo lasciare la guida del Paese a uno che si limita a ritoccare barzellette della Prima Repubblica?

La smania


Il professionista della politica non va mai davvero in pensione, neanche quando ci va di sua spontanea volontà, che peraltro è cosa assai rara. In un individuo che per decenni abbia svolto attività politica da professionista è praticamente impossibile estinguerne del tutto il bisogno, perché quella politica è una delle attività umane che tende a prendere tutta intera la vita di un individuo, fin quasi a coincidere in essa, com’è per tutto ciò che attiva dipendenza e coazione. Anche chi da citrullo teorizza la rottamazione di una classe politica, che in realtà è possibile solo neutralizzandola, non si nasconde questa verità, e immagina per i rottamati una pensione non del tutto lontana dall’attività politica professionale, alla sezione archivio: due volte citrullo perché una classe politica può essere neutralizzata solo seppellendola, e poi la sezione archivio è sempre ad un passo dalla stanza dei bottoni.
Se “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, la politica è guerra che non si serve di mezzi cruenti, ma sempre guerra è, e non si è mai visto un generale in pensione senza opinioni sulla guerra in corso, smanioso di renderle efficaci.
Si prenda il caso del cardinal Ruini, che alla politica ha dato più di vent’anni: teoricamente è in pensione, ma smania dalla voglia di ribadire le sue opinioni su come vada usato l’esercito dei christifideles laici. In apparenza, sembra ristarsene buono buono alla sezione archivio, sembra star lì a ristudiare la Gaudium et spes e la Deus caritas est, il discorso che Giovanni Paolo II tenne a Loreto nel 1985 e quello che Benedetto XVI tenne l’anno scorso al Pontificio Consiglio per i Laici, ma smania. E chiudendo l’intervento tenuto a Riva del Garda l’altrieri, che qui proveremo ad analizzare, dice: “Concludo accennando alla questione che più mi preoccupa per il futuro del cattolicesimo in Italia: quella degli orientamenti culturali e delle scelte e stili di vita dei giovani. Tra dieci o venti anni, cioè, potremo avere ancora quel giudizio sostanzialmente positivo sulla vitalità del cattolicesimo italiano che mi sono azzardato ad esprimere riguardo all’oggi? Rendere possibile una risposta positiva non è compito da addebitarsi primariamente a chi fa politica. Tuttavia anche la politica e l’azione di governo hanno qui una responsabilità, sia pure per così dire «indiretta». Perciò vorrei chiedere anche a voi, come politici cattolici, di non sorvolare su questo interrogativo inquietante”.
È sulla “responsabilità «indiretta»” che Sua Eminenza smania, come a ribadire le linee della stagione politica alla quale ha legato la sua vita, quella del cosiddetto Progetto Culturale. Fa una pena, il Ruini. Si parva licet, sembra Rino Formica. Sembra il Massimo D’Alema che vorrebbe quel tre-volte-citrullo di Matteo Renzi, che fa politica già da 17 anni e non è riuscito a seppellire neanche Lapo Pistelli, che la fa da 24 anni. Ma non scendiamo troppo in basso e risaliamo a Ruini.

[segue]