L’anniversario,
soprattutto l’anniversario a cifra tonda, è il momento meno indicato per
discutere proficuamente di un evento, di cosa veramente sia stato, di cosa
possa avere ambiguamente significato: il rito della celebrazione spinge le
analisi di comodo a cercare l’ufficializzazione senza farsi scrupoli nel metodo
e nel merito, e la sequenza delle revisioni, che è la sostanza stessa della
storiografia, si cristallizza. Potremmo dire che gli anniversari sono un
ostacolo all’analisi storiografica.
Col
Concilio Vaticano II è già accaduto nel gennaio del 2005, per il 40° della sua chiusura,
e non c’è dubbio che accadrà tra qualche settimana, in ottobre, per il 50°
della sua apertura: anche stavolta, come allora, si confronteranno senza esito
proficuo le analisi di comodo che non hanno mai smesso di contendersi
polemicamente il titolo di retta ermeneutica dell’evento.
C’è a
chi torna comodo, infatti, che il Concilio Vaticano II abbia rappresentato un
momento di rottura: è quanto sostengono – con opposto giudizio in merito,
ovviamente – i cattolici «tradizionalisti» e quelli «progressisti». Poi c’è a
chi torna comodo che il Concilio Vaticano II non volesse rompere niente, né lo
potesse, né l’abbia fatto: è quanto sostengono – con giudizio pressoché unanime
– le alte gerarchie ecclesiastiche e i cattolici che negano la legittimità di
categorie come «tradizionalismo» e «progressismo».
Posizioni
inconciliabili, ovviamente, ma ve n’è una terza che potrebbe metterli d’accordo,
se non fosse che è scomoda per questi e per quelli. È la tesi che abbozzai nel
paginone che il 19 gennaio 2005 fu pubblicato su L’Indipendente di Giordano
Bruno Guerri (lo allego in appendice): il Concilio Vaticano II fu frainteso da
tutti, dagli stessi padri conciliari; quando i segni del
fraintendimento furono evidenti, e non ci volle molto, si capì che era stato possibile per le ambiguità
disseminate nei documenti conciliari; la rottura stava nel volerli prendere
alla lettera, la continuità stava nell’ammettere che tutto si era consumato nell’infelice
tentativo di sincretizzare «tradizionalismo» e «progressismo».
Di questo infelice tentativo si è molto parlato su queste pagine, negli anni passati. Tutte le volte che l’incarnazione dell’ossimoro «cattolico-liberale» apriva bocca per calare nel dibattito politico la carta del Concilio Vaticano II come espressione di un rinnovamento ecclesiastico che rendeva possibile, anzi auspicabile, la concordia tra credenti e non credenti – ed era incarnazione ubiquitaria:
il «cattolico-liberale» è dappertutto, a destra, a sinistra, lo si trova pure tra i radicali –
per dimostrare che quella carta era truccata ho più volte usato argomenti che poi, nel 2009, ho trovato coincidenti nel Iota unum di Romano Amerio. Così mi sono fatto convinto che il cattolico «tradizionalista» è intellettualmente più onesto di quello «progressista». Che il cattolico «progressista» –
il cattolico che si ostina nel fraintendimento del Concilio Vaticano II
col suo credere (ancor più, col suo voler far credere) che cattolicesimo e democrazia siano compatibili
–
è il maggior responsabile del degrado culturale e civile dell’Italia.
Non è stato sempre così. Una pagina delle quattordici che aprivano il numero de il Mulino l’indomani della chiusura del Concilio Vaticano II (XIV/12 - pag. 1109) era onesta.
Poi, non ho capito ancora quando, il
«cattolico-liberale» ha capito che sul fraintendimento del Concilio Vaticano II poteva costruire una posizione da spendere. Male, a guardare i risultati.
Appendice
Il Concilio
Vaticano I (1869-1870) si tenne tre secoli dopo il Concilio di Trento. Sancì il
dogma della infallibilità pontificia e, in forma d’anatema, emise la condanna
del materialismo e del razionalismo. Il secolo capì? Macché. A Fatima (1917)
s’era detto: «Se non smetteranno di offendere Dio [...] comincerà una guerra
ancora peggiore. Per impedirla, verrò a chiedere la consacrazione della Russia
al mio Cuore Immacolato [...]. Se accetteranno le mie richieste, la Russia si
convertirà e avranno pace, altrimenti spargerà i suoi errori per il mondo,
promovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. (...) Il Santo Padre mi consacrerà
la Russia, che si convertirà. E sarà concesso al mondo un periodo di pace». Vennero
Lenin e Stalin, invece.
Perché,
in piena Guerra Fredda, fu deciso il Vaticano II? Il mondo fraintese, pensò a
un’offerta d’armistizio: prese in mano l’enciclica Pacem in Terris, lesse il
sottotitolo (Sulla pace fra tutte le genti nella verità, nella giustizia,
nell’amore, nella libertà) e fraintese. Pace, giustizia: erano parole d’ordine
scandite anche dalla Pravda. Amore, libertà: se ne parlava anche nei campus di
Berkeley. Quel lessico, poi: diritti, poteri pubblici, partecipazione,
solidarietà, sussidiarietà...
Fu l’enciclica più letta e più fraintesa, la
Pacem in Terris. Qualche fesso vi vide addirittura socialismo, colse distorta
l’eco della «condizione eguale» di san Paolo, dell’«apparente ineguaglianza» di
san Basilio. L’immagine bonaria del papa contadino produsse un effetto prismatico:
di qua questo «papa buono», che pure non rinunciava a farsi portare a spalla
dai suoi dignitari in alta uniforme, com’era stato sempre; di là questa Chiesa,
intenzionata a non perdere il treno della Storia – parve, e male
–
eppure così
saldamente ancorata ad una Verità immobile. L’enciclica parlava di un Cristo
piantato nelle cose: ma alle cose, poi, si concedeva movimento? Leggiamo.
«La pace
in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire
instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio»
(Introduzione, 1). «Sennonché il Creatore ha scolpito l’ordine anche nell’essere
degli uomini: ordine che la coscienza rivela e ingiunge perentoriamente di
seguire» (ibidem, 3). «La convivenza umana, venerabili fratelli e diletti
figli, deve essere considerata anzitutto come un fatto spirituale» (I, 19).
«L’ordine morale – universale, assoluto ed immutabile nei suoi principi – trova
il suo oggettivo fondamento nel vero Dio, trascendente e personale» (I, 20). «L’autorità
umana [...] può obbligare moralmente soltanto se è in rapporto intrinseco con
l’autorità di Dio, ed è una partecipazione di essa» (II, 29).
Nulla, davvero
nulla che si spostasse di una sola spanna da quanto scritto cent’anni prima da
Leone XIII. Ma, senza nulla togliere all’inflessibilità del Magistero, si attenuavano
le passate posizioni d’intransigenza, fino a offrire una sovrana ragione di
fraintendimento: peccato e peccatore erano distinti, e con ciò s’introduceva il
principio del confronto con le false teorie: «Non si possono [...] identificare
false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e
dell’uomo, con movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e
politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e
da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione. […] Inoltre chi può negare
che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta
ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi
siano elementi positivi e meritevoli di approvazione? Pertanto, può verificarsi
che un avvicinamento o un incontro di ordine pratico, ieri ritenuto non
opportuno o non fecondo, oggi invece lo sia o lo possa divenire domani.
Decidere se tale momento è arrivato, come pure stabilire i modi e i gradi
dell’eventuale consonanza di attività al raggiungimento di scopi economici, sociali,
culturali, politici, onesti e utili al vero bene della comunità, sono problemi
che si possono risolvere soltanto con la virtù della prudenza» (V, 84-85).
Tatticismo: gli uomini di buona volontà sono dove meno te li immagineresti,
l’ateo è un uomo in attesa della fede, prima o poi si convertirà, a Dio la via.
Il seme del fraintendimento era piantato. E subito se ne avvidero, perché i
segnali preoccupanti non tardarono, coloro che a Roma si resero fautori della «restaurazione»
tuttora in atto, con Paolo VI gemmante e con Giovanni Paolo II a pieno regime.
Il nodo fu stretto attorno al Sinodo straordinario del 1985 che si proponeva di
«celebrare, verificare, promuovere il concilio Vaticano II». «Promuovere» e «celebrare»
si può capire, ma «verificare»? Come può un Sinodo «verificare» un Concilio? È un
paradosso, e il paradosso contiene il richiamo a quanti hanno frainteso il
Vaticano II: «Il concilio deve essere interpretato nella sua continuità con la
grande tradizione della Chiesa», perché «la Chiesa è lei stessa in tutti i
concili» (Sinodo dei Vescovi, 1985).
Nel solco tridentino tutta la produzione
pontificia tende a ribadire una genealogia, un’ontologia ed una fenomenologia
del Male, dalle quali il Vaticano II pare allontanarsi, per esservi ricondotto
dal Sinodo dei Vescovi del 1985. Già Paolo VI aveva detto: «Credevamo che dopo
il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È
venuta invece una giornata di nuvole e di tempeste, e di buio, e di ricerche e
di incertezze, si fa fatica a dare la gioia della comunione» (Omelia,
29/6/1972). Ora comincia a parer chiaro a molti che la crisi che ha colpito il
cristianesimo europeo non è più principalmente o solo una crisi ecclesiale. La
crisi è più profonda: è divenuta la crisi di Dio, della Rivelazione. Se la
lezione del Vaticano II intende distinguere tra ateo e ateismo, «l’ateismo di
oggi può in realtà già di nuovo riprendere a parlare di Dio distrattamente o
tranquillamente - senza intenderlo veramente. Anche la Chiesa ha una sua concezione
della immunizzazione contro le crisi di Dio» (J.B. Metz).
È tempo di suonare la
carica, dunque. E con la solita spietata chiarezza il cardinale Joseph Ratzinger
dà a ogni cosa il suo nome: «Il Vaticano II voleva chiaramente inserire e
subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio, voleva proporre
un’ecclesiologia nel senso propriamente teo-logico, ma la recezione del
Concilio ha finora trascurato questa caratteristica qualificante in favore di
singole affermazioni ecclesiologiche, si è gettata su singole parole di facile
richiamo e così è restata indietro rispetto alle grandi prospettive dei padri
conciliari». È necessario restituire a Dio la dimensione che lo inscrive nella
dimensione di Mistero, riportando il credente nella posizione di appartenente
alla comunità ecclesiale, figlio obbediente. La Chiesa riprende centralità
(Lumen Gentium) nel suo essere comunione, non community, corpo del Cristo
vivente. E don Luigi Giussani mette il sigillo: «Si apre per noi un nuovo inizio:
dimostrare, ridimostrare l’evidenza della verità di quello che seguendo la
Tradizione della Chiesa ci siamo sempre detti».
Potrà il successore di Giovanni
Paolo II fare altrimenti? No, anche volendo. Questi 40 anni dal concilio
Vaticano II sono stati la storia di questo no. Papa Luciani stava offrendo il
fianco della Chiesa a un altro fraintendimento, il «Dio mamma», e la
Provvidenza provvide. Non saranno tollerate altre distrazioni, siamo alla resa
dei conti. O la Chiesa ne esce trionfante o perisce.