Sì, ho capito che a Bologna si vota. Ho capito pure su cosa si vota. Quello che non ho capito è perché si vota.
venerdì 24 maggio 2013
Sappiamo che la fisiognomica...
Sappiamo
che la fisiognomica è disciplina pseudoscientifica, tuttavia bisogna ammettere
che non è facile resistere agli odiosi pregiudizi che ci ha ficcato in testa
per secoli e secoli. Lo dico con un certo orgoglio: a me non costa alcuna
fatica. Così, dinanzi ai tratti che per due millenni, da Polemo di Laodicea a
Cesare Lombroso, sono stati sempre attribuiti al coglione, io non ho cedimenti:
distolgo lo sguardo e porgo l’orecchio, fuggo la suggestione e mi concentro su
ciò che dice.
Beppe
Severgnini, per esempio: «Ingrid Loyau-Kennett, 48 anni, due figli, ex
insegnante e capo scout, […] è scesa dal bus quando ha visto un corpo in mezzo
alla strada: pensava ci fosse stato un incidente. Poi ha capito: una persona
era stata uccisa. Anzi, macellata. La donna non ha esitato ad avvicinarsi agli
assassini. “Meglio che le armi fossero puntate verso una persona come me, e non
verso i bambini che cominciavano a uscire da scuola”». E qui si chiede: «Perché
l’ha fatto? Capiva quanto stava accadendo?».
Cazzarola – dico – la signora è stata limpida come il cristallo.
Ha detto che è scesa dall’autobus perché pensava si trattasse di un incidente:
è capo scout, così strano che l’abbia fatto? Solo dopo ha capito cosa stesse accadendo, e lì ha
pensato bene di fare la sola cosa che fosse in suo potere, cioè impedire che gli
assassini puntassero verso la scuola, distraendoli. «Ammirevole, certamente –
concede Beppe Severgnini – ma la domanda resta: perché l’ha fatto, Ingrid? Aveva
capito quanto stava accadendo? O una parte del cervello le suggeriva: “Ehi, è
solo un film”?».
Ecco, è
qui che la fisiognomica mostra tutta intera la sua irrilevanza. Perché domande
del genere può porsele anche un coglione senza tutto quell’esagerato
prognatismo.
Come un parente stretto di cui ci si vergogna a morte
Ho
scritto che le idee di Dominique Venner «non erano poi tanto diverse da quelle
che in Italia hanno trovato megafono ne Il Foglio di Giuliano Ferrara», ma forse sarebbe stato meglio accostare brani tratti da
dominiquevenner.fr e da ilfoglio.it, evitando ogni commento. Poco male, perché a
conferma di quanto affermavo torna utile Giulio Meotti, che maltratta Dominique
Venner come un parente stretto di cui ci si vergogna a morte (Il Foglio,
23.5.2013).
Nulla, infatti, gli è rimproverato del suo dna: «la destra di Venner
ha avuto premonizioni giuste, dal tracollo della natalità in Europa alla
rampante islamizzazione delle sue principali città», e si tratta di «una destra
che vive di risentimenti anche fondati», perché chi può negare «la
decomposizione dell’Europa sotto la minaccia dell’islamizzazione e gli eccessi
del postmoderno fra cui il matrimonio gay»? E allora? Cos’è che fa la
differenza tra le battaglie culturali di Venner e quelle de Il Foglio? Ovvio,
Venner si è suicidato, e il suo suicidio le dichiara perdenti.
Sta di fatto che
si tratta delle stesse piccole grandi pugne che esaltano Il Foglio, e dunque
come la mettiamo? «Venner faceva parte di una destra torva, non tanto politicamente
scorretta, quanto, piuttosto, cupa», «una destra che si nutre di immagini
fosche», insomma, non s’è mai visto Venner tenere un dibattito pubblico su un
palco pieno di mutande appese a un filo, né improvvisarsi rapper, né
gorgheggiare arie del Rigoletto con una parrucca rossa in testa, e sì che la «destra
segnata dalla lettura dei testi situazionisti della scuola di Guy Debord» era
la sua, mica quella di Ferrara.
La sua, ahilui, era «una destra inservibile e
nutrita di paure», mica quella servile e nutrita di denaro pubblico de Il Foglio. Il suo, ahilui, era «un pensiero marginale e scorbutico», mica centrale e accattivante come quello di Ferrara.
Poi, diciamola tutta, «Venner ha rivolto l’arma contro se stesso, mentre il
killer norvegese [Ander Breivik] ha decapitato la futura classe dirigente
laburista di Oslo» (sottinteso: «almeno»).
giovedì 23 maggio 2013
Panorama, 14 dicembre 1967
Al momento ritengo inutile parlare di questo pontificato: leggo, annoto, scuoto la testa. Quante volte la Chiesa ci è sembrata pronta alla riforma? Quante volte pareva volesse stupirci?
[...]
Giusto
sessantasei anni fa, il 23 maggio 1947, l’Assemblea Costituente
discuteva di quello che nel testo provvisorio redatto dalla
Commissione per la Costituzione era il secondo comma dell’art. 50
(nella stesura definitiva sarebbe diventato l’art. 54), che così
recitava: «Quando i poteri pubblici violino le libertà
fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza
all’oppressione è diritto e dovere del cittadino».
Superfluo
dire che il comma fu soppresso, ma è interessante riandare
all’argomento che in quella sede fu vincente in tal senso, e che in
buona sostanza si riassume nell’intervento tenuto da Pietro
Mastino: «Se è concepibile, sotto un punto di vista non
solo dottrinario, il diritto alla resistenza e alla ribellione
dell’individuo, è veramente audace fissare in una Costituzione,
come diritto costituzionale, quello della resistenza e della
ribellione collettiva. […] Concetti del genere sorsero sempre dopo
periodi di rivoluzione, quando il popolo credette di potere
trionfalmente affermare la propria vittoria. […] È ben naturale
che oggi, dopo che l’Italia è risorta dal travaglio, dai sacrifici
e dalla barbarie del periodo fascista, un concetto del genere
riappaia anche nella nostra Costituzione. […] L’importante però
è che noi questo concetto vogliamo affermarlo come diritto di
resistenza politica. E io dico che dobbiamo affermarlo, ma sotto
un’altra forma, e precisamente in quella che mi pare chiaramente
espressa nell’emendamento che ho presentato, e cioè: “Ogni
cittadino ha l’obbligo di difendere contro ogni violazione le
libertà fondamentali, i diritti garantiti dalla Costituzione e
l’ordinamento dello Stato”. Non è tanto un diritto, quanto un
dovere; non è tanto un diritto accordato nell’interesse
dell’individuo, quanto un dovere imposto nell’interesse della
collettività. Soprattutto questo, onorevoli colleghi, porta ad una
conseguenza pratica molto chiara, della quale dobbiamo sommamente
preoccuparci: evitare la possibilità che sotto il pretesto della
violazione delle libertà fondamentali e dei diritti garantiti dalla
Costituzione si pretenda di sovvertire lo Stato, intendendo per Stato
la Repubblica».
Ora,
ciò che il secondo comma contemplava come diritto del cittadino non
era l’insurrezione antirepubblicana, ma la resistenza
all’oppressione dei pubblici poteri, laddove essi fossero
responsabili del tradimento dei principi costituzionali: in altri
termini, chiamava il cittadino all’esercizio attivo di una
sorveglianza sul rispetto della Costituzione da parte dei
rappresentanti dei poteri pubblici, ma non eludeva affatto il
concetto che tale esercizio, per usare le parole di Pietro
Mastino,«non [fosse] tanto un diritto accordato
nell’interesse dell’individuo, quanto un dovere imposto
nell’interesse della collettività». Non è difficile
cogliere, dunque, ciò che parve «audace» in quel
comma: vi era contemplata l’eventualità che il rispetto della
Costituzione potesse venir meno da parte di chi aveva la possibilità
materiale di violarne le norme o di disattenderne le indicazioni
grazie al potere che gli era stato democraticamente conferito. Cosa
possibile, ma difficile da mettere nero su bianco, e per ovvie
implicazioni.
Le
esplicitò Fracesco Colitto: «Non vi è dubbio che la norma
si riferisce anzitutto al potere esecutivo. Ora certamente il
cittadino ha sempre il diritto di opporsi al pubblico funzionario
che, travalicando i limiti segnati dalla legge, conculchi il diritto
del cittadino. […] Ma pubblici poteri sono anche il potere
giudiziario ed il potere legislativo. Ora, in che cosa consiste il
diritto di resistenza, allorché il pubblico potere è il potere
giudiziario o quello legislativo? Il cittadino, secondo la norma di
cui ci stiamo occupando, avrebbe non solo il diritto, ma addirittura
il dovere di opporsi ad essi ove egli ritenesse di trovarsi di fronte
ad una violazione di diritti garantiti dalla Costituzione? […]
Contro la sentenza del magistrato io non vedo che i gravami
tassativamente indicati dalla legge e contro la legge non so
concepire resistenze di nessun genere. Per la legge non c’è, a mio
modesto avviso, che l’obbedienza. […] Cosa significa che il
cittadino ha il diritto di resistere alla legge? Può egli mai
diventare il giudice del legislatore ed agire di conseguenza? […]
Che interpretazione bisogna dare della norma, quando la si considera
in relazione a quei particolari diritti, pure consacrati nella
Costituzione? Si pensi al diritto al lavoro riconosciuto dalla
Repubblica a tutti i cittadini; all’impegno, assunto dalla
Repubblica, di assicurare alla famiglia le condizioni economiche
necessarie, non solo alla sua formazione, ma al suo sviluppo; al
diritto riconosciuto agli inabili al lavoro, sprovvisti dei mezzi
necessari alla vita, di avere il mantenimento e l’assistenza
sociale. Ora, nell’ipotesi in cui la Repubblica non abbia la
possibilità di mantenere questi impegni, non abbia, cioè, la
possibilità di pagare tante cambiali firmate in bianco, il cittadino
avrà il diritto e il dovere, come dice la norma, di insorgere contro
i pubblici poteri? Potrà insorgere contro il Parlamento, perché non
fa le leggi, o contro il Governo, perché non le attua? A tutti
questi interrogativi non avendo saputo trovare risposta convincente,
noi abbiamo affermato, occupandoci di questo articolo, che ci sembra
che esso consacri il diritto alla ribellione. Ed ecco perché ne
chiediamo la soppressione. La sua applicazione pratica, nella realtà
della vita, che è quella che è, e non quella che dovrebbe essere,
potrebbe dar luogo a tali inconvenienti, a così strane ed impensate
applicazioni, che certamente ne deriverebbe danno per la compagine
sociale, che la Costituzione mira, invece, in ogni momento a
salvaguardare».
La
Costituzione è bella ma non sempre è applicabile, e poi la
vita è quella che è, vogliamo autorizzare il cittadino a
prendersela con i poteri pubblici? Non sia mai detto. Non
stupisce, dunque, giusto sessantasei
anni dopo, l’affermazione di Giuliano Pisapia («La
violenza non è, non può mai essere di sinistra» – la Repubblica,
23.5.2013): è sindaco, e a nessun sindaco piace affacciarsi al
balcone e trovarci sotto una folla in subbuglio, meno che mai se il
sindaco si dice di sinistra, e la folla pure. D’altronde non è
il primo degli ultimi comunisti a ripudiare il subbuglio: «Oggi
il massimo di radicalità si può esprimere solo con la
nonviolenza – diceva Fausto
Bertinotti – altrimenti […] diventa la fine della
politica» (Nonviolenza, Fazi Editore 2004).
Quell’«oggi» ci aveva tanto intenerito: era
una foglia di fico sulla tradizione marxista-leninista della
violenza come «levatrice della storia». Poi, sentendolo
dire che la nonviolenza non era solo possibile ma addirittura
necessaria, perché, «se oggi dovessimo accettare la
violenza, essa ammazzerebbe soprattutto noi», la foglia di fico
era caduta: è che al marxismo-leninismo era diventato molto piccolo.
«I
poteri pubblici violano le libertà fondamentali ed i diritti
garantiti dalla Costituzione»? Che resta da fare a chi pensava
di essere di sinistra, ma scopre che il diritto di
resistenza all’oppressione dei pubblici poteri, per essere di
sinistra, può essere solo nonviolenta, e, quando nonviolenta, è
inefficace? «Cosa significa che il cittadino ha il diritto
di resistere alla legge»? E a quale legge, eventualmente? E
come?
La
legge – la norma, la regola – ha due soli modi per venire al
mondo: scendere dall’alto, in forma di precetto, o salire dal
basso, in forma di convenzione. Nel primo caso, viene al mondo
indicando un modello al quale è necessario adeguarsi perché
espressione di un Vero, di un Giusto e di un Bello che sono superiori
e antecedenti all’uomo, eterni, immutabili, indiscutibili. Nel
secondo caso, invece, nasce come patto per rendere possibile la
convivenza tra individui che differiscono tra loro, anche
sensibilmente, per ciò che ritengono vero, giusto e bello. Nel primo
caso, dunque, la legge avrà per fine una reductio ad unum:
tenderà a omologare indoli, gusti e opinioni. Nel secondo caso,
lascerà che gli individui conservino la loro individualità, salvo
che quanto espresso da quella di ciascuno non sia di nocumento a
quella altrui.
Non è
difficile capire che tipo di società sia quella che si regge sulla
legge come precetto, d’altronde è quella che conosciamo meglio.
Solo da pochi secoli, infatti, si va facendo largo, e a fatica,
l’idea che il Vero, il Giusto e il Bello altro non siano che il
vero, il giusto e il bello secondo l’indole, il gusto e l’opinione
di un’oligarchia, e che il modello al quale sarebbe necessario
adeguarsi per rispettarli altro non è che l’espediente per
consentire a chi vi appartiene di non perdere i propri privilegi. È
per questo che la legge come convenzione trova enormi resistenze, né
è detto che riuscirà a vincerle, perché l’interesse del più
forte trova spesso un ottimo aiuto nella soggezione del più debole,
premiata per millenni dalla legge come precetto.
Siamo
capitati nel bel mezzo di questo scontro, noi contemporanei: da un
lato, la strenua resistenza di un’oligarchia che non sembra affatto
intenzionata a rinunciare ai propri privilegi, anzi, disposta in
apparenza a rinunciare a tutti i propri privilegi tranne che a quello
di decidere cosa sia il Vero, il Giusto e il Bello, perché in fondo
è da questo privilegio che discendono tutti gli altri; dall’altro,
la sempre meno timida offensiva delle moltitudini che hanno scoperto
che la democrazia è stata tradita.
mercoledì 22 maggio 2013
Performance isterica col botto
Ignoravo
l’esistenza di Dominique Venner, ho recuperato leggendo i 146 post del suo
blog, in gran parte editoriali e articoli pubblicati su La Nouvelle Revue d’Histoire,
di cui era il direttore. Tutto in poche ore, troppo poco ovviamente per poter esprimere un
giudizio articolato sulla sua persona, e tuttavia, dovendo abbozzarne uno, direi che le
sue idee non fossero poi tanto diverse da quelle che in Italia hanno trovato megafono
ne Il Foglio di Giuliano Ferrara (non escluse le simpatie per il cattolicesimo
come ultimo saldo baluardo all’avanzare di un mondo «tout pourris»). Era un
conservatore in patente disagio nei confronti della modernità, convinto della
possibilità di una «révolution conservatrice» in grado di fermare la «contagion
de chaos», ma questo, a mio modesto avviso, non spiega il suo suicidio come
forma di protesta all’approvazione della legge che da poco autorizza in Francia
i matrimoni gay, neanche a voler prendere per buona quella necessità «des geste
nouveaux, spectaculaires et symboliques pour ébranler les somnolences, secouer
les consciences anesthésiées et réveiller la mémoire de nos origines», ai quali
faceva cenno nel suo ultimo post. D’altra parte è stato proprio il suo editore,
Pierre-Guillaume de Roux, a dichiarare: «Je ne crois pas que l’on puisse lier
son suicide à cette affaire de mariage, cela va bien au-delà». Senza dubbio
odiava quella legge, ma il suicidio non è stato deciso come protesta estrema
alla sua entrata in vigore: pensava ci fosse di meglio («Une loi infâme, une
fois votée, peut toujours être abrogée»).
E allora? Com’è da interpretare il suo
atto estremo senza che entri in contraddizione con l’imperativo vitalistico che
lo animava («Pas un instant je n’oublie les luttes du moment. Pas un
instant je n’oublie les luttes du passé qui nous ont fait ce que nous sommes. Pas un instant je n’oublie qu’exister
c’est se vouer et se dévouer, mais aussi lutter»)? Penso debba leggersi come
gesto – insieme – estetico e politico: una rappresentazione plastica di rifiuto,
una performance isterica col botto. A parte, poi, sarebbe opportuno interrogarsi –
ma tutto sommato è superfluo, perché facilmente intuibile – cosa abbia reso
mediaticamente suggestivo, dunque obbligato, almeno qui da noi, in Italia, il collegamento col matrimonio
gay.
martedì 21 maggio 2013
«Per ovvie ragioni di opportunità»
Tra un
cattolico che obbedisce al Papa e un cattolico che obbedisce alla propria
coscienza – è distinzione che s’è venuta a creare da quando il modernismo ha
illuso certi cattolici che sia possibile pensare con la propria testa rimanendo
cattolici – io preferisco il primo, senza alcun dubbio. È bello vederlo
arrampicarsi sugli specchi per dare un senso a quell’obbedienza che non di rado
è costretta a zigzagare da papato a papato, oggi a calcare l’accento sulla
verità e domani sulla carità, l’altrieri sull’evangelizzazione come progetto
culturale e dopodomani come testimonianza disarmata, sempre affannato ma sempre
molto motivato, come uno stercorario che per nessuna ragione al mondo molla la
sua pallina di merda. Il cattolico cosiddetto adulto, invece, mi fa pena.
Dovrebbe sapere bene che non conta un cazzo, che al dunque è costretto a
scegliere tra l’eresia o il ficcarsi la lingua in culo, e tuttavia ci prova: è
convinto di poter decidere per sé, anzi, spesso pretende di spiegare al Papa come
si fa il Papa. È che ha studiato, poverino, e ha maturato opinioni in campo
teologico che quasi sempre hanno il verme dentro; spontaneamente – e spesso,
ahilui, incoercibilmente – gli spuntano in testa progetti di ecclesiologia che
fanno orripilare le gerarchie; soprattutto – ed è il peggio – ha quasi sempre
la mania dell’autonomia dei cattolici in politica, che è come dire a quelli
della Segreteria di Stato Vaticano: «Silete theologi in munere alieno». Più che
naturale si ritrovi con le tibie rotte. Dossetti, per esempio. Se non fosse
stato cattolico, avrebbe potuto con profitto applicare il metodo leninista all’azionismo,
e avrebbe fatto la sua porca figura, tra Evola e Bordiga, sull’album delle nostre
patrie figurine. E invece gli andò male, com’era ovvio. Con la coda tra le
gambe, via, in convento. Tutto il contrario di Andreotti, che però partiva
avvantaggiato dall’avere tutte le ambizioni tranne quella di millantare una
coscienza tutta sua, poi maturò del tutto con la lezione di cosa accade a un De
Gasperi quando si azzarda a dire no a Pio XII.
Tornando a Dossetti. È arrivato
in libreria da qualche mese un delizioso libricino di Alberto Melloni (Dossetti
e l’indicibile, Donzelli Editore 2013), appassionato studio di un cattolico
adulto su un cattolico adulto, indagine sul numero di Cronache sociali che
doveva uscire alla vigilia dell’elezioni politiche del 1948, e non uscì mai.
Sarebbe stato dirompente, pare. Avrebbe posto «in maniera tagliente» – assicura
Melloni – «il nodo teologico, canonico e politico dell’autonomia dei cattolici
impegnati nella vita pubblica». Puf, scomparso, c’è voluto lo scavo del Melloni
per riportare alla luce una decina degli articoli che avrebbero dovuto essere
su quel numero. Come mai quel numero di Cronache sociali non vide mai la luce?
Melloni non sa dare una risposta, si limita a dire che
«chi oggi legga quel quaderno» non può fare a meno di avvertire l’«indicibile pressione [che quegli scritti esercitavano] sul sistema ecclesiastico». Può darsi. Di fatto, in un’antologia della rivista (Cronache sociali 1947-1951, Landi Editore 1961) trovo a pag. 1073 (vol. II) una nota della curatrice, Marcella Glisenti, figlia di quel Giuseppe Glisenti che ne fu il direttore, e che proprio a quel fascicolo fa riferimento.
Così pare che l’«indicibile pressione sul sistema ecclesiastico» causò una prudentissima autocensura: timore di premere troppo, probabilmente. O paura di ritrovarsi spremuti?
lunedì 20 maggio 2013
[...]
Chissà
se andrà davvero come prevede Grillo (La Stampa, 16.5.2013), di certo c’è soltanto
che fin qui il Pd ha fatto tutto il possibile perché la previsione si realizzi, e proprio
in questi termini, con la scelta obbligata tra due opzioni alternative di deriva
populista: se le prossime elezioni politiche, tra sei mesi o un anno, si risolveranno
nella sfida tra due demagoghi, infatti, sarà per gli errori del Pd. Tanti: rimandare il voto, dopo la caduta del governo Berlusconi nel
novembre del 2011, per consentire la nascita del governo Monti, al quale
rinnovare la fiducia su tutte le iniziative più impopolari; cominciare a dichiararsene
insoddisfatto solo quando era ormai chiaro che il Pdl fosse prossimo a farlo
cadere per prendersene il merito dinanzi a quei due terzi d’Italia che non vedeva l’ora
cadesse; affrontare una campagna elettorale all’insegna del cambiamento
schierando in campo gli avanzi stracotti di un partito nato vecchio, per giunta
in disaccordo su tutto; trasformare una mezza vittoria in una doppia sconfitta,
senza riuscire a trovare il coraggio di ritornare alle urne, senza essere in
grado di impegnare il M5S in un’intesa tattica, senza altra idea in testa che
mettere un proprio uomo a Palazzo Chigi, a qualsiasi prezzo. Un agire tanto
dissennato da autorizzare il malpensante a sospettare che il
fine ultimo fosse davvero resuscitare Berlusconi e associarselo in un Monti bis, per rafforzare Grillo, farlo diventare l’unica opposizione: in pratica,
mettere gli italiani dinanzi alla scelta tra i due, rendendo sostanzialmente
inutile un voto al Pd. Questo è il contributo del Pd a quel bipolarismo per il quale
pareva essere nato: il suicidio. Per lasciare sgombro il campo alla sfida tra
due contendenti che sono fin troppo simili, e in questo senso, come
incarnazione di due diversi profili dello stesso plebeismo, sono davvero alternativi.
venerdì 17 maggio 2013
La figlia
Quando
leggo un’intervista a uno dei suoi figli – stavolta mi capita con quella a
Marina, sull’ultimo numero di Panorama (LI/22 – pagg. 64-69) – penso a tutte le
volte che Silvio Berlusconi ha giurato sulla loro testa: tralascio la volta che
ha giurato di non aver «mai guadagnato un dollaro con Putin» (se il guadagno è
stato in rubli, non si tratterebbe di spergiuro), quella in cui ha giurato di
non aver «mai avuto rapporti piccanti con minorenni» (aspetto la sentenza), ma
mi limito a considerare la volta che giurò di non aver «mai corrotto nessuno»,
e allora penso ai casi in cui la corruzione è stata accertata, anche se il
reato è andato prescritto, o a quella in cui il giuramento era sull’impegno di ricostruire L’Aquila «com’era prima del terremoto», e basta andarci per
verificare. Stavolta leggo cosa dice la sua primogenita, quella che dei cinque figli gli somiglia tanto che non ti stupiresti se le venisse il cancro alla prostata. Ed è una bella intervista, calda, appassionata, parole di cui ogni padre andrebbe fiero, sia si trattasse di un povero cristo perseguitato dalla magistratura, sia si trattasse di un pezzo di merda coi mezzi per farla sempre franca. Bello il finale, soprattutto, dove sta l’apice del climax:
«Parla così perché è sua figlia», dice
l’intervistatore; e lei, fiera e solenne:
«No, quello che dico è la pura verità». Splendido. Perfetto. Però, volendo, si poteva chiudere anche meglio: con un bel «giuro sulla testa di papà».
Missione all'Onu
Suppongo
siate stati in ansia riguardo agli esiti della missione di Marco Pannella all’Onu, no? Come? Manco sapevate fosse in missione? Vergogna, fatevelo dire. Perché è
vero che il regime lo censura senza pietà negandogli le prime pagine dei
quotidiani, le aperture dei tg e i talk show che meriterebbe
sette volte a settimana, però pure voi, teste di cazzo, potreste interessarvene
un pochino invece di star lì a perdere tutto il vostro tempo su recessione, tasso di
disoccupazione e amenità del genere che la partitocrazia vi scodella in
tavola al solo scopo di distrarvi dalle sue eroiche iniziative: non accampate scuse, c’è
Radio Radicale, non l’ascoltate? Solo Stampa & Regime? Immaginavo. Non ci fosse
Massimo Bordin, la mattina, lo Stato butterebbe al cesso 13 milioni di euro all’anno.
Vabbe’, fa niente, ora vi ragguaglio io. La scorsa domenica, conversando con Valter Vecellio, che vi consiglio di osservare bene nel suo sovrumano sforzo di comprendere...
Capito? Poco? È perché siete delle teste di cazzo, ve l’ho detto. Probabilmente manco sapete chi sono gli uiguri. Vabbe’, fa niente, ora vi semplifico. In pratica, la missione era concepita in questo modo: partenza da Roma, arrivo a New York, di corsa in taxi al palazzone dell’Onu, toc-toc all’uscio dell’ambasciatore cinese e come quello apriva:
«Ciao,
ambasciato’, so’
venuto a dìtte che, se date un po’ d’autonomia a li tibetani e a li uiguri, ve do la parola mia – parola de Pannella, do you know? – che quelli nun n’approfitteno e nun ve mettono li piedi sur collo. Famo er federalismo, nun v’attizza? Pensatece bene prima de di’ no, sinnò me costringete ar satiagrà e poi so’
cazzi vostri».
Non vi precipitate a dare giudizi azzardati: sembra arteriosclerosi, ma è nonviolenza pannelliana, quella che, male che vada, ci scappa un soggiorno a New York. Chi paga aereo, albergo e ristorante alla Madonna pellegrina e ai quattro o cinque devoti che la portano in spalla? Domanda triviale, chi volete che paghi? Tutto alla voce «iniziative transnazionali», cosa pensate state finanziando quando date l’obolo ai radicali?
Ma queste sono questioni marginali, meglio andare al sodo: come è andata? Beh, non è proprio tutto chiaro, ma pare che non gli abbiano nemmeno consentito di far toc-toc, ’sti stronzi di cinesi. Peggio per loro, ovviamente.
Non vi precipitate a dare giudizi azzardati: sembra arteriosclerosi, ma è nonviolenza pannelliana, quella che, male che vada, ci scappa un soggiorno a New York. Chi paga aereo, albergo e ristorante alla Madonna pellegrina e ai quattro o cinque devoti che la portano in spalla? Domanda triviale, chi volete che paghi? Tutto alla voce «iniziative transnazionali», cosa pensate state finanziando quando date l’obolo ai radicali?
Ma queste sono questioni marginali, meglio andare al sodo: come è andata? Beh, non è proprio tutto chiaro, ma pare che non gli abbiano nemmeno consentito di far toc-toc, ’sti stronzi di cinesi. Peggio per loro, ovviamente.
«Mussolini era uno che ci sapeva fare»
Nell’episodio
narrato da Giovanni Ferrara ne Il fratello comunista (Garzanti, 2007 – pag. 87), e
che risale ai primi anni ’70, suo nipote appare tal qual è oggi. Non deve scandalizzare, dunque, quando afferma che «Mussolini era uno che ci sapeva fare» (Agorà – Raitre, 17.5.2013): era cretino già allora.
mercoledì 15 maggio 2013
Volerlo, deciderlo, farlo
Chi ha
un certa consuetudine con queste pagine di diario pubblico sa bene che, pur
essendo medico, ho sempre evitato di impancarmi a esperto in materia, e il più
delle volte, quando ho trattato un tema di natura clinica (per lo più è
accaduto in ordine a questioni di natura bioetica), mi sono sempre limitato ad
argomentare sulla base di elementi che non implicassero speciali competenze: il
metodo che mi sono imposto è stato quello di applicare un minimo di logica a
dati che chiunque potesse aver modo di verificare, anche senza avere una laurea
in medicina o una pratica clinica. Anche per questo non sono mai ricorso alla
casistica personale, tanto meno in quella forma aneddotica che ho sempre considerato più
scorretta, perché più insidiosa, dell’assunzione di autorità: la casistica
personale, infatti, supplisce alla inaffidabilità dei piccoli numeri con la
suggestione della narrazione didascalica e fa subdolamente, anche quando
involontariamente, cattiva didattica. Io ho sempre voluto evitare la didattica,
anche quando in piena onestà di coscienza potevo ritenerla buona, e non ho mai
pensato che un procedere secondo logica necessitasse d’altro che strumenti logici.
Non
verrò meno a questa regola neppure oggi, dunque mi intratterrò sul caso di
Angelina Jolie evitando ogni considerazione di tipo specialistico, trascurando
del tutto gli elementi di pertinenza genetica, oncologica, epidemiologica, ecc.
Sulla base delle mie conoscenze e della mia esperienza ritengo che la scelta
della signora non sia affatto folle, anzi, mi pare ampiamente motivata, ma
vorrei trattare la questione sotto un altro punto di vista, che da quanto ho
letto a firma di espertoni, espertucci e nient’affatto esperti mi sembra sia
stato del tutto trascurato. Questo punto di vista rende irrilevante il fatto
che io sia specializzato in ostetricia e ginecologia e che da più di trent’anni
il mio lavoro consista anche nella diagnosi di carcinomi mammari: «ritengo che
la scelta della signora non sia affatto folle, anzi, mi pare ampiamente
motivata», fate finta l’abbia detto un agronomo o un imbianchino.
E
dunque, a rischio di apparire rozzo al mio lettore: a chi appartiene il corpo
di Angelina Jolie? Voglio dire: quand’anche il rischio dello sviluppo di un
carcinoma mammario avesse ragion d’essere solo in una sua fobia, quand’anche l’intervento
al quale si è sottoposta non sia soluzione congrua per un rischio reale, o
addirittura fosse sostanzialmente inutile, chi avrebbe potuto impedirle di fare
del suo corpo quello che voleva? E in forza di quale diritto che annullasse quello
di disporne liberamente? Per motivi religiosi o igienici ci si può amputare il
prepuzio. Ci si può liberare di pene e testicoli se ci sente femmina
imprigionata in un corpo maschile. C’è qualche parte del mio corpo che mi è
vietato sottoporre a piercing o tatuaggio? Potrei continuare all’infinito,
perché le pratiche di intervento cruento sul corpo umano, anche di là da
indicazioni poste da specifiche condizioni cliniche, sono infinite, e in buona
parte praticate fin dalla notte dei tempi. Escluse quelle che vengono
effettuate su soggetti che le subiscono in mancanza di piena libertà e
responsabilità, quali sarebbero quelle da vietare, o da condannare moralmente,
o da biasimare come pericoloso cattivo esempio, e perché?
Io
ritengo che il polverone sollevato dalla confessione di Angelina Jolie sia
quasi del tutto dovuto all’elevata valenza simbolica che ha il seno femminile.
Avesse deciso di farsi asportare la milza per ragioni analoghe a quelle che l’hanno
portata alla mastectomia bilaterale, la confessione non avrebbe suscitato tanto
scalpore. In più, alla mastectomia bilaterale è seguito l’impianto di protesi
mammarie, che non alterano la fisionomia del soggetto sottoposto a quel tipo di
intervento demolitore, e che per giunta è scelta sempre più spesso adottata da
chi abbia subito una mastectomia per un carcinoma mammario già sviluppato. E
dunque? Cos’è successo di così sconvolgente con la decisione di Angelina Jolie?
Non è neanche la prima ad adottare questa decisione a fronte di un alto rischio
genetico per lo sviluppo di un carcinoma mammario. La cosa sconvolgente – per chi
ne è stato sconvolto – è stata la ratio che ha guidato verso la decisione:
estromettere da un progetto di vita, per quanto fosse possibile, un rischio;
farlo con determinazione, estromettendo anche tutto ciò che è il fatalistico
mettersi nelle mani della provvidenza; elevare la femminilità al di sopra dello
stereotipo che allega il genere al proiettato fantasmatico di una cultura
maschilista. Un po’ come scegliere il taglio cesareo anche quando il parto
potrebbe essere spontaneo: per il semplice volerlo, deciderlo, farlo. Beh, sì, non
c’è dubbio, c’è chi può rimanerne sconvolto.
Un’altra escort
Francamente
incomprensibili, le dichiarazioni del dottor Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione
nazionale magistrati, che s’è lamentato del video girato da Giuliano Ferrara in
parrucca rossa (non metto il link per decenza): mirava a screditare la dottoressa Ilda Boccassini, ha detto. In
realtà, se pure fosse stato questo, l’intento, non si capisce come sperasse di
raggiungerlo. Si tratta di una patetica buffonata che scredita, se ancora fosse stato necessario, chi l’ha
ideata e chi l’ha realizzata, questo sì, ma non c’è da stupirsene, tenuto conto
che, al punto in cui è giunto il processo a carico di Silvio Berlusconi, ai suoi
lacchè non resta altro. Tanto meno è il caso di dolersene, perché il vero senso di quel
video è di natura esorcistica: con la parodia del pm si è tentato di attenuare
la schiacciante mole delle prove che ha prodotto a sostegno della sua tesi
accusatoria. Esorcismo ad uso interno, buono a stemperare l’ansia dei
cortigiani e dei servi in attesa della sentenza che molto probabilmente sarà di condanna. Uno spettacolino di corte,
direi. A giudicare dalla fattura, aggiungerei che non siamo troppo lontano dai
gusti del principe: non c’era già un’altra escort che si travestiva da Ilda
Boccassini ai festini in casa Berlusconi?
martedì 14 maggio 2013
Aspettiamo la sentenza
Della
signora Karima El Marough, in arte Ruby Rubacuori, ha detto che ha una «furbizia
orientale». Più che un pregiudizio razziale mi pare un luogo comune salgariano,
d’altra parte il Marocco è più a occidente di Milano.
Poi ha detto: «La Procura condanna…», invece
di dire: «La Procura chiede la condanna…». Un lapsus, senza dubbio, e i lapsus rivelano
gli intimi desideri di chi vi incorre, ma cosa c’è di strano nel fatto che un
pm desideri la condanna dell’imputato che ritiene colpevole?
E poi? Quale altra
pecca si rimprovera alla dottoressa Ilda Boccassini? Ma, soprattutto, tra coloro che straparlano
di queste due sbavature come se fossero i punti sui quali crolla tutto l’impianto
accusatorio, quanti hanno ascoltato tutte le cinque ore e un quarto della
requisitoria?
Io l’ho fatto e la mole di prove dirette e indirette portate a
supporto della tesi di colpevolezza mi sembrano più che sufficienti a
dimostrare che Silvio Berlusconi è davvero responsabile di quanto gli è
attribuito nella formulazione d’accusa.
Non parlo di ciò che qualche moralista
può rinfacciargli sul piano umano o di ciò che qualche cultore del galateo
istituzionale può rimproverargli sul piano del decoro e dello stile: parlo del reato di
sfruttamento della prostituzione minorile, un reato per il quale egli stesso si
è speso perché fossero inasprite le pene.
Aspettiamo la sentenza, d’intanto mi
sembra di poter dire che il pm abbia lavorato bene. E mi sembra di trovarne conferma
negli strepiti di chi oggi, dopo la requisitoria, afferma che è inconsistente,
che Silvio Berlusconi non ha mai pagato una puttana in vita sua, tanto meno
minorenne, e fino a ieri si affannava a trovargli attenuanti definendolo «utilizzatore
finale».
[...]
Solo Napolitano
poteva tenere a battesimo un governo come quello in carica, ed è per questo che
chi nel Pd voleva un’alleanza con Berlusconi ha dovuto bruciare Marini e Prodi,
escludendo a priori l’appoggio a Rodotà. L’idea è venuta appena il risultato
elettorale ha fatto cadere il sogno di portare Bersani a Palazzo Chigi, ma
forse era già in fieri da prima che si andasse al voto, da quando si era
cominciato a capire che al Senato sarebbero mancati i numeri, però la speranza
di rabberciare la maggioranza col voto di qualche transfuga del M5S non le dava
ancora la forza che avrebbe acquistato il 26 febbraio. Lì si è deciso di darle
corpo, e a qualsiasi prezzo. Il tradimento del mandato elettorale si sarebbe
consumato in modo palese, la base del partito si sarebbe lacerata, l’alleanza
con Sel sarebbe saltata: tutto
questo si sapeva, ma lo stesso si è deciso di dar vita a un governo al quale Berlusconi
avrebbe potuto staccare la spina in ogni momento, quando gli sarebbe tornato
comodo, senza perdere neanche un voto. Non c’erano alternative? Più corretto dire
che sono state scartate tutte: l’obiettivo era il governo che in campagna
elettorale si era solennemente escluso potesse nascere. Quale logica ha
sostenuto questa linea?
Io penso
che la regia dell’operazione abbia la chiara impronta di quella «destra
comunista», già tutta in embrione nella «svolta di Salerno», che portò Togliatti
all’alleanza con Badoglio e Casa Savoia. Il fatto che quella «svolta»
rispondesse unicamente agli interessi di Stalin, e che Togliatti si sia
limitato ad obbedire agli ordini partiti dal Cremlino, passa in secondo piano per
Mario Pirani (la Repubblica, 14.5.2013), che pure risale a quel periodo per
spiegarsi la logica che ha dato vita al governo Letta. Ora, è vero, la storia
non concede controprove, ma sappiamo che Togliatti fu sempre supino ai voleri di Stalin: è
azzardato immaginare che, se a Mosca fosse tornato comodo che il Pci imboccasse
la via insurrezionale, Togliatti non avrebbe mai teorizzato alcuna «via
italiana al socialismo», Secchia non avrebbe mai lasciato il posto ad Amendola
al quarto piano del Bottegone, Napolitano e i miglioristi sarebbero stati
strozzati in culla, ammesso e non concesso che avessero potuto emettere un
vagito? Non ha senso discutere del passato ricorrendo ai «se», d’accordo, ma
una cosa è certa: la «svolta di Salerno» fu la madre di tutti i successivi tentativi,
riusciti o falliti, che il Pci mise in atto per arrivare nella mitica «stanza
dei bottoni», e fu sempre evocata, in primo luogo dai suoi dirigenti, come una scelta
coraggiosa di maturità politica contro ogni velleitarismo e ogni avventurismo. Non
mancò mai, d’altronde, chi nella linea decisa da Togliatti nel 1944 vide la prima
grande prova del suo cinismo, il primo dei tanti tradimenti che la dirigenza
del Pci avrebbe consumato ai danni dei suoi militanti e dei suoi elettori. Tutto
sommato, è un errore, perché già nel 1936, quando il regime fascista sembrava
indistruttibile, Togliatti gli offriva collaborazione dalle pagine di Stato
Operaio: «Noi tendiamo la mano ai fascisti, nostri fratelli… Siamo disposti a
combattere assieme a voi e a tutto il popolo italiano per la realizzazione del
programma fascista del 1919».
Anche
nel comunista più ripulito persiste incoercibile la tentazione al compromesso
con quello che è indicato come peggior nemico del popolo fino a quando c’è speranza di
sconfiggerlo e annientarlo. Naturalmente parlo del comunista che abbia
responsabilità dirigenziali e che il crollo del muro di Berlino ha impreziosito
con un «post»: parlo del post comunista che sta al Quirinale o in Largo del
Nazareno. Fino a quando Berlusconi è stato con un piede nella fossa, la sua
demonizzazione era uno strumento eccezionale per galvanizzare militanti ed
elettori, per fare incetta di voti di quanti volevano sbarazzarsi della mostruosa atipia. Poi, quando sfuma il sogno di poterlo impiccare a testa in giù, ecco
l’impellente bisogno di un governo di «coesione nazionale», di una «große
Koalition», lamentando «il fatto – e qui cito Napolitano – che in Italia si sia
diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni,
convergenze tra forze politiche diverse», «segno di una regressione, di un
diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere
le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che
ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche». Di
colpo, l’elettore che votava Pd per mero antiberlusconismo, convinto che quello
fosse il voto utile, diventa un bruto, o come minino un incolto che nulla sa
della politica come arte del possibile.
«Quando
si ricordano queste cose agli odierni contestatori – scrive Pirani
– essi obiettano che la coerenza di quegli anni era fattibile con un partito
ferreamente disciplinato ed egemonizzato dal suo capo. Ma non era così. Come i
pochi superstiti di quell’epoca possono testimoniare, la lotta per affermare la
linea togliattiana di unità nazionale fu asperrima nel Pci e traversò, almeno
fino al 1948, la sua trasformazione in “partito nuovo”. Quella fase fu
accompagnata da polemiche dure per convincere alla “linea” le organizzazioni
meridionali che risentivano del plebeismo rivoltoso della base cui faceva da
contrappunto il settarismo di ascendenza partigiana nel centro nord. Solo un
convinto, continuo, diffuso impegno pedagogico poteva avere la meglio sulle derive
di sinistra e sulle resistenze dei vecchi quadri». Tutto vero, ma Pirani
sorvola sulla natura di quell’«impegno pedagogico»: in sostanza consisteva nell’educare
i quadri dirigenti a mentire ai militanti e i militanti ad adeguarsi ad ogni
mutamento tattico senza farsi troppe domande.
lunedì 13 maggio 2013
Mission impossible
Ve lo dicevo: il narcisismo di Marco Pannella non tollererà a lungo la ferita che gli ha provocato la nomina di Emma Bonino alla Farnesina. Bene, è già in chiara sofferenza. Al momento, si contorce,
smania...
The next day
Sono tra
quanti hanno accolto con gioia l’uscita di un album di David Bowie dopo dieci anni
di assenza e non sono rimasto deluso dall’ascolto dei 14 brani in esso
contenuti, anzi, penso che tre o quattro siano decisamente belli: Dirty boys, I’d rather be high, Heat e, più di tutti, Where
are we now?, un piccolo capolavoro che un clip diretto da Tony Oursler rende
ancora più incisivo.
Ciò che invece mi ha fatto cadere le braccia è stato
quello diretto da Floria Sigismondi per The next day, il brano che dà il titolo
all’album. La regista c’entra fino a un certo punto perché David Bowie ha
tenuto a render noto di aver scritto lui la sceneggiatura, segno che dev’esserne
particolarmente fiero. Bene, penso si tratti di una delle cose più brutte viste
negli ultimi anni. Mi risparmio di descriverlo, eccolo:
Un
inqualificabile polpettone che può trovare ragione solo nell’intento di provocare la reazione di qualche associazione cattolica, come
d’altronde è immancabilmente accaduto, per lucrarne un poco di pubblicità. Il problema non sta nella sensibilità che è stata ferita
– all’arte è consentito stressare ogni permalosità – ma nella sgangherata struttura concettuale del prodotto e nella deprimente soluzione formale che gli è stata data: siamo davanti a un plot che non ha alcuna consistenza, che scorre sciatto, senza alcuna logica a sostenerlo, tanto meno quella che muove il testo della canzone. Una vera cagata.
Nota Necessario rifarsi gli occhi, dopo un Bowie così infelice: «Space Oddity, uno dei successi di David Bowie, cantata nello spazio dall’astronauta canadese Chris Hadfield nel suo ultimo giorno al comando della ISS, a poche ore dal suo ritorno sulla Terra… Un videoclip del genere, “lontano sopra il mondo”, il Duca Bianco se lo sogna» (repubblica.it).
Nota Necessario rifarsi gli occhi, dopo un Bowie così infelice: «Space Oddity, uno dei successi di David Bowie, cantata nello spazio dall’astronauta canadese Chris Hadfield nel suo ultimo giorno al comando della ISS, a poche ore dal suo ritorno sulla Terra… Un videoclip del genere, “lontano sopra il mondo”, il Duca Bianco se lo sogna» (repubblica.it).
domenica 12 maggio 2013
«La mafia è l’essenza della Sicilia»
@ementana decide che non cinguetterà più, la polemica divampa fino a lambire i massimi sistemi e della scintilla che ha appiccato il
fuoco – l’affermazione fatta da Giuliano Ferrara nel corso di una trasmissione
condotta da Enrico Mentana: «La mafia è l’essenza della Sicilia» (La7,
7.5.2013) – non se ne parla, come se gli insulti piovuti via Twitter addosso ai
due fossero del tutto gratuiti. A chiudere la questione su questo punto – a pensare
di averla chiusa – è stato lo stesso Ferrara, che su Il Foglio di venerdì
10 maggio, rispondendo alle proteste di una lettrice siciliana, ha scritto: «Io
parlavo dell’essenza. Legga “Cose di Cosa nostra”, il bel libro di Giovanni
Falcone e Marcelle Padovani. […] [Falcone] ha detto quel che io ho ripetuto». Vi risulta che qualcuno si sia preso il disturbo di andare a leggere cosa
avesse davvero scritto Falcone? A me non risulta. Bene, ci ho pensato io.
Mi ha
mosso innanzitutto l’incredulità nel fatto che Falcone potesse aver detto una
tale scempiaggine, ma ad andare in libreria, a procurarmi il libro, a leggerlo
dalla prima all’ultima riga delle sue 190 pagine mi ha spinto il fatto che
Ferrara avesse aspettato 48 ore per dare quella risposta. Perché? Semplice: non
poteva farlo prima, non aveva ancora trovato l’intoccabile al quale mettere in bocca
quella stronzata. A trovarglielo è stato Salvatore Merlo che in un articolo
pubblicato sullo stesso numero de Il Foglio riportava un brano di quel libro: avrebbe
dovuto dimostrare che «anche Falcone ne faceva una questione di essenza».
Leggiamolo: «Un giorno ho assistito a Palermo a una scena di strada estremamente
significativa. Un tizio protesta contro un altro che ha parcheggiato di
traverso, intralciando la circolazione. Si agita, urla. L’altro lo osserva
indifferente e poi continua a parlare con un suo amico come se niente fosse. Il
tizio non fa una piega e se ne va senza fiatare. Aveva capito, davanti all’atteggiamento
sicuro dell’interlocutore, che, se avesse insistito, le cose avrebbero preso
una brutta piega e lui sarebbe uscito perdente dallo scontro. Questa è la
Sicilia, l’isola del potere e della patologia del potere».
Dimostra che «la
mafia è l’essenza della Sicilia»? A me non pare affatto, d’altronde, se «essenza»
è «quanto individua e definisce la realtà di un oggetto materiale o ideale» (Devoto-Oli),
la sua
«realtà propria e immutabile» (Treccani), in tutto il libro non v’è traccia di tale relazione tra mafia e Sicilia. In quanto al termine, poi, «essenza» è usato una sola volta,
nell’avvertenza in avantesto a firma di Padovani, e senz’alcuna attinenza alla
mafia o alla Sicilia.
Nel libro ci sono altri passaggi che implichino una
relazione tra mafia e Sicilia che consenta a Ferrara di poter affermare che,
nel dire: «La mafia è l’essenza della Sicilia», ha ripetuto quel che Falcone ha detto? Tutt’altro. Ogni volta che Falcone mette in relazione una caratteristica del mafioso a un aspetto della sicilianità, tiene a sottilineare con forza che si tratta di una degenerazione che lo rende «parossismo» (cap. II), di una sua «sublimazione a livello criminale» (cap. III): altra cosa che «essenza».
E dunque? Cosa è accaduto? Nel corso di una trasmissione televisiva condotta da Mentana, Ferrara si è fatto prendere la mano e ha fatto un’affermazione che probabilmente voleva essere provocatoria, ma che di fatto era stupida e offensiva, e che successivamente avrebbe messo in bocca a Falcone, che non si era mai sognato di affermare nulla di simile. Qualche siciliano si è risentito e ha reagito con offese alle offese. Senza dissociarsi dall’affermazione
di Ferrara, Mentana si è lamentato delle offese indirizzate a Ferrara, e così se n’è procurate altre indizzate a lui. Qui s’è turbato, ha cinguettato un addio ed è volato via.
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