lunedì 17 maggio 2010

Morto quando mortificato


“Le vicende a cui fa riferimento la terza parte del Segreto di Fatima sembrano ormai appartenere al passato”, diceva il cardinal Sodano, e il cardinal Ratzinger pareva concordare: “Nella misura in cui singoli eventi vengono rappresentati, essi ormai appartengono al passato”. Trovate tutto nel documento licenziato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel maggio del 2000, quando fu reso pubblico il contenuto della profezia che Giovanni Paolo II era sicuro si fosse realizzata nell’attentato da lui subito nel 1981: dopo aver attraversato una grande città mezza in rovina e dalle strade piene di cadaveri, giunto ai piedi di una croce in cima a una montagna, un papa veniva ucciso da un gruppo di soldati, insieme ai vescovi, ai preti e ai laici che l’avevano fin lì seguito. Wojtyla era sicuro che il valore e l’effetto di quella profezia fossero chiusi nel XX secolo: povero Sodano, povero Ratzinger, cosa avrebbero potuto obiettare?
E tuttavia, neanche sei mesi dopo, a chi gli faceva notare che, al contrario, la profezia sembrasse “aperta, in sviluppo ed in compimento futuro” (lettera di monsignor Paolo Maria Hnilica, 13.9.2000), Ratzinger rispondeva rettificando, quasi ritrattando: “Nel mio «Commento teologico» non intendevo attribuire esclusivamente al passato i contenuti del Segreto, in maniera semplicistica. Le grandi visioni hanno sempre una duplice dimensione: un significato immediato e vicino, ed un valore permanente. […] Scorgiamo nel Segreto di Fatima il martirologio del secolo scorso, nel quale si riflette però la persecuzione fino alla fine del mondo” (4.10.2000).
Così facendo, la profezia tornava riutilizzabile in futuro, meglio se integrata da quanto Lucia dos Santos aveva riportato nella sua Terza Memoria (visione di Giacinta), e che nella sequenza degli eventi rivelati andrebbe collocata prima dell’attraversamento della città semidistrutta: “Ho visto il Santo Padre in una casa molto grande, inginocchiato davanti a un tavolo, con le mani sul volto, in pianto. Fuori dalla casa c’era molta gente, alcuni tiravano sassi, altri imprecavano e dicevano molte parolacce” (pag. 124).
Come non cedere alla tentazione di riutilizzare la terza parte del Segreto di Fatima per intravvedere proprio Benedetto XVI in quel “vescovo vestito di bianco”? Quella descritta nella profezia sembra più simile alla Chiesa di Ratzinger che a quella di Wojtyla: “Rispetto al 2005 la fiducia nella Chiesa è scesa di 14 punti, mentre negli ultimi due anni il consenso verso Benedetto XVI si è ridotto di 9 punti percentuali” (Ilvo Diamanti, la Repubblica, 17.5.2010). Non fischiano ancora i sassi, ma quale profezia è leggibile fuor d’allegoria?

La profezia di un papa perseguitato e ucciso è ben antecedente a Fatima, la Chiesa ne ha prodotte molte analoghe, e sempre nei momenti in cui il primato di Pietro era messo in discussione.
Riforma protestante: “In quel tempo il Papa con i cardinali dovranno fuggire da Roma in circostanze tragiche per rifugiarsi in un luogo dove saranno sconosciuti. Il Papa morirà di una morte crudele nel suo esilio. Le sofferenze della Chiesa saranno molto più grandi che in ogni altro periodo della sua storia” (fra’ Giovanni di Cleftrock, intorno al 1600).
Rivoluzione francese: “La religione verrà perseguitata e i preti massacrati. Il Santo Padre sarà obbligato a lasciare Roma” (Beata Anna Maria Taigi, 1769-1837).
Napoleone Bonaparte: “Vedo il Santo Padre in grande angoscia. Egli vive in un palazzo diverso da quello di prima e vi ammette solo un numero limitato di amici a lui vicini. Temo che il Santo Padre soffrirà molte altre prove prima di morire. Vedo che la falsa chiesa delle tenebre sta facendo progressi, e vedo la tremenda influenza che essa ha sulla gente” (Beata Anna Caterina Emmerich, 1774-1824).
Porta Pia: Verso la fine del mondo i tiranni e la gente ostile improvvisamente deruberanno di tutte le loro proprietà i prelati e i religiosi della Chiesa e li affliggeranno e martirizzeranno dolorosamente. Quelli che li sottoporranno alle maggiori violenze verranno tenuti in grande stima. Il clero non può sfuggire a queste persecuzioni, ma a causa di esse tutti i servi della Chiesa saranno costretti a condurre una vita apostolica. In quel tempo il Papa con i cardinali dovranno fuggire da Roma in circostanze tragiche per rifugiarsi in un luogo dove saranno sconosciuti. Il Papa morirà di una morte crudele nel suo esilio. Le sofferenze della Chiesa saranno molto più grandi che in ogni altro periodo della sua storia” (Estatica di Tours, 1872).
Perfino un papa, Pio X, nel 1909 (otto anni prima di Fatima), angosciato dal liberalismo: “Ho visto uno dei miei successori che fuggiva scavalcando i corpi dei suoi fratelli. Egli troverà rifugio in incognito da qualche parte e dopo un breve periodo di isolamento morirà di morte violenta”.
Diciamo che la profezia di un papa perseguitato e ucciso è abituale passatempo nei momentacci neri. Il distillato del vittimismo di chi si sente morto quando mortificato.

Mansueto


“Sono pronto ad accettare consigli per un uso utile del web. Voi che siete sempre in rete, che consigli date a un vescovo?”. Sono certo che non vorrete far mancare i vostri suggerimenti a monsignor Mansueto Bianchi, che l’altrieri ha aperto un blog. Attenzione, qualcuno gli ha già suggerito di mettere in moderazione i commenti. 


domenica 16 maggio 2010

Quella cazzo di Mercedes




Bella, vero? È una decappottabile che la Mercedes Benz mise in vendita nel 1960. Hans Küng ne acquistò una uguale col denaro fruttatogli da un libro assai fortunato (The Council: Reform and Reunion, 1961), e con quella venne a Roma nel 1962, chiamato come consulente al Concilio Vaticano II.
Un giorno, Hans Küng ebbe la malaugurata idea di invitare un suo collega a fare un giro in auto. Più o meno della sua stessa età, anche lui tedesco, anche lui teologo, anche lui chiamato a Roma come consulente al Concilio, Joseph Ratzinger accettò. Vi offro una veduta dell’interno della vettura,



immaginate Küng alla guida, Ratzinger al suo fianco e tutto intorno Roma, bellissima come sempre a primavera. Ma per entrare meglio nella scena – tra poco vedremo che si tratta di una “scena primaria”, nella quale ogni dettaglio ha la sua importanza – vi offro pure un ritratto dei due all’epoca del fatto.


Bene, la rivalità professionale è cosa naturale e invidiare le fortune dei rivali è cosa umana. Una Mercedes rossa, poi, può ferire di brutto. Quasi per sillogismo, Joseph fa: “Hans, stai diventando troppo évident”.

La “scena primaria” ha la sua porca importanza nel tentativo di spiegare cosa porterà Ratzinger, da posizioni in tutto simili a quelle di Küng, a posizioni pressoché opposte. Da subito però anticipiamo che non mancherà di rifarsi della bruciante invidia di quel giorno: appena fatto papa, inviterà subito Küng a Castel Gandolfo, che a cilindrata batte ogni decappottabile.
Quella cazzo di Mercedes non smetterà più di torturare Ratzinger, per oltre quarant’anni. Possiamo esserne certi perché non ha mai smesso di raccontare quel giro in auto di tanti anni prima per sottolineare che fin da quel giorno in Küng era in embrione “the dissident theologian as international media star”: superfluo sottolineare, perché più che implicito, che in chi glielo rimproverava fin da allora fosse in embrione il “semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore” destinato alla guida di ben più prestigioso volante.

sabato 15 maggio 2010

O tempora o mores



Dove son più i bei tempi in cui l’ultimo avviso ti arrivava con la testa mozza di un cavallo? Oggi, ti mandano la coda di una allegoria.

venerdì 14 maggio 2010

Segnalazione

Del Mou di cui nessuno parla.

[...]


Prima della condanna definitiva a 5 anni e 4 mesi per associazione a delinquere e corruzione, anzi, assai prima della condanna in primo grado, quando era ancora indagato, Francesco De Lorenzo rigettava ogni accusa con un argomento che sembrava fortissimo: sono ricco, non ho bisogno di rubare. Oggi, Silvio Berlusconi pensa sia argomento riutilizzabile: “La gente è consapevole di quanto ho costruito da solo, prima di entrare in politica, sa che il mio spirito non può essere la ricerca di un arricchimento”.

Porco Giuda!


“Cari fratelli e sorelle, «sta scritto […] nel libro dei Salmi: […] il suo incarico lo prenda un altro. Bisogna dunque che […] uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione» (At 1, 20-22). Così disse Pietro, leggendo ed interpretando la parola di Dio in mezzo ai suoi fratelli, radunati nel Cenacolo dopo l’Ascensione di Gesù al Cielo. Fu scelto Mattia…”.
Sua Santità attacca l’omelia citando gli Atti degli Apostoli nel punto in cui c’è da scegliere un sostituto di Giuda, ma evita di citare il suo nome e i puntini sospensivi eliminano ogni collegamento – anche indiretto – all’apostolo traditore.
Poco oltre cita ancora Mattia, così “associato agli undici apostoli” (At 1, 26), ma senza spiegare che si tratta del 13°: non parliamo del 12°, per piacere, era un fetente, anzi, un porco (il famoso porco Giuda).
Siamo alla rimozione delle ragioni che spingono a colmare il posto lasciato vuoto. C’è bisogno di nuovi preti, ma evitiamo spiegazioni sul perché del buco: chi conosce gli Atti sa, per tutti gli altri è reclutamento ordinario.

Fare finta!


Piegatura in ottavo parallelo, intestazione della Segreteria della Camera dei Deputati, grafia che Gianfranco Fini non ha negato essere sua, ci è stato mostrato il particolare di un foglio sul quale abbiamo letto «fare pace? fare finta!»: un brevi manu a Walter Veltroni, s’è detto, ma “con buona pace di tutti i dietrologi – era la pronta smentita – [quanto scritto su quel foglio] si richiamava a un riferimento storico illustrato da Amato, che in quel momento stava parlando del ruolo della Comunità di Sant’Egidio nel difficile conflitto tra Serbia e Kosovo”.
Abbiamo un documento audiovideo di quell’incontro, possiamo verificare, e abbiamo due elementi a disposizione.

(1) L’intervento di Giuliano Amato.
Un commento come «fare pace? fare finta!» può avere un qualche senso, e in quale punto? Con tutta la buona volontà, non si capisce. Questo elemento a disposizione non chiarisce, anzi, confonde.

(2) Una presumibile traccia di quel foglio. E qui siamo più fortunati.
Il video apre su Fini: qui nessun foglio sporge dal taschino della sua giacca per tutto il tempo in cui è inquadrato in primo piano (00:00-08:33); né vi sporge alla fine dell’intervento dell’oratore che gli succede, Franco Frattini (come è evidente in 21:43-21:48); sporge, invece, alla fine dell’intervento del terzo oratore, Walter Veltroni (come evidente in 31:35-32:02).
Se quello che sporge dal taschino della giacca di Fini è proprio il foglio di cui stiamo parlando, «fare pace? fare finta!» non è stato scritto a commento di un richiamo storico illustrato da Amato, per il semplice fatto che fin lì Amato non aveva ancora parlato: era il quarto oratore.
Non ci resta che tenere d’occhio il taschino della giacca di Fini: se il foglio rimarrà lì fino alla fine, e il Presidente lo porterà via con sé, non può essere lo stesso foglio che sarà poi trovato sul tavolo, recuperato da un cronista.
Il foglio è ancora lì alla fine dell’intervento di Amato (47:53-48:02), e nelle inquadrature che riprendono Fini nel corso del quinto ed ultimo intervento (Marco Impagliazzo), ma non vi è più alla fine dell’incontro (01:00:39-01:01:03): è quello rimasto sul tavolo.
Non è stato scritto mentre parlava Amato, non era un appunto da portare via.

Radici



La spossatezza del commentatore


La pedofilia. Quella dei preti. Che poi neanche di quello si tratta, ma di abusi sessuali su minori commessi da preti. Bene, come vogliamo definire lo sdegno delle opinioni pubbliche dinanzi alla rivelazione di tanti episodi criminali del genere in tutto il mondo? “Barnum antipedofilo”, pensate possa andar bene? Volendo trascurare l’orrore del crimine per concentrarci solo sull’intensità dello sdegno – mettiamo caso che si voglia argomentare in difesa delle gerarchie ecclesiastiche che hanno coperto e favorito il crimine – può anche andar bene: l’immagine del circo (mediatico-giudiziario) torna utile.
Bene, ora leggiamo: “Psicopatologia shakespeariana del perverso barnum antipedofilo”, e scopriamo che a muovere questo circo è una perversione. Strano, vero? Uno avrebbe detto che in questione fosse la perversione dei preti: sbagliato, la perversione sta nello sdegno ad essa, per “proiezione”. La “proiezione” tramuta in sdegno il desiderio di stuprare bambini che sta nell’inconscio di quanti si sdegnano per lo stupro di tanti bambini: elegante, vero? E mica è tutto.
L’elegantone che suggerisce questa spiegazione psicoanalitica dello sdegno che sta grandinando addosso alle gerarchie ecclesiastiche, per spiegarci che è psicopatologia, risale da Freud a Shakespeare, come da bignamino alla voce Psicoanalisi (se aveva più spazio a disposizione ci metteva pure gli altri pre-freudiani: Sofocle, Nietzsche, Dostoevski…).

Ci sono articoli che ti lasciano senza parole, perché le ultime sono inservibili, suonano come insulto. Riproduco qui sotto quello di cui è capace Ruggero Guarini. Fate voi, a me ha spossato.

giovedì 13 maggio 2010

C'è sempre chi sa far più di te


Neanche il tempo di dire che D’Alema è la peggior sciagura del Pd, e Veltroni riappare per farti venire dei dubbi.

Tridimensionale!




Detto con simpatia, Berlicche è uno stronzetto di cui consiglio la lettura a chiunque abbia l’hobby della demistificazione, a mo’ di stretching.
Vi viene voglia di smontare a pezzettini la questione del Filioque? Un post di Berlicche vi preparerà il muscolo. Esempio?
Vi è venuta voglia di mettere un po’ di ordine fra tutte le puttanate raccontate da chi ritiene autentica la Sindone? Basterebbe il piccolo saggio di Luigi Garlaschelli sull’ultimo numero di MicroMega, ma se proprio avete la fissa del fai-da-te e volete affrontare qualche quintale di cartaceo, scaldatevi con questo post di Berlicche.

“Cari amici laicisti, […] io sono cattolico e la mia fede non poggia su quel telo; se saltasse fuori che [la Sindone] è stata fatta nel Medioevo, come sostenete, ne prenderei nota e basta. Però, se fosse stata realizzata da qualche ignoto protoscienziato del 1300, allora quello che vorrei veramente è il brevetto”.
Troverete questo rivoltare la frittata in quasi tutti quelli che sono stati in difficoltà con le prove materiali: se la Sindone è un falso, dimmi come è stata falsificata; se non sai dirmelo, tutte le evidenze contrarie alla sua autenticità perdono sostanza; e allora sono autorizzato pure ad appoggiarci la mia fede, ma giusto un pochino, e tu mi devi lasciar fare, senza darmi del cretino.

“Una procedura per imprimere un’immagine su un telo che non usa pigmenti”, dice Berlicche, come se non fosse possibile.
“Con una nitidezza di particolari impressionante”, dice, “e con informazioni tridimensionali!”, esclama. E qui lo stretching arriva all’estensione che potremmo definire autodimostrativa: Berlicche lo sa che, se la maschera di Agamennone sta alla faccia di Agamennone, la faccia di Cristo sulla Sindone sta al muso di un levriero afgano?

A gentile richiesta, due parole su Di Pietro


Paolo Garbet mi fa: “Nel 99% dei casi mi trovo d’accordo con tutto quello che lei scrive, ma quando parla di Di Pietro non la seguo più. In un paese devastato da corruzione e illegalità, e definitivamente seppellito da un debito pubblico che in parte è causato proprio dalla corruzione, c’è un solo politico che ha il coraggio di dire: chi delinque deve andare in galera. D’accordo, non sarà il massimo come eloquenza o leadership, ma perché stroncarlo in questo modo?”.
Ottimo argomento per un post, ma bisogna rettificare due o tre cosette. Mai rimproverato a Di Pietro deficit di eloquenza, perché quello è il suo deficit più scusabile, mentre ne ha uno che mi è sempre parso incolmabile, e su quello – quasi solo su quello – ho sempre appuntato le mie critiche (stroncature mi pare termine esagerato): il deficit di quella cultura che riconosce garanzie all’indagato, all’imputato e al condannato.

Ciò che mi dà un fastidio davvero insopportabile in Di Pietro – da sempre, fin dal 1992 – è la sua insofferenza ai limiti che l’indagine deve rispettare per non degenerare in tortura (fisica e psicologica), ai limiti che sono posti alla pubblica accusa in quella sostanza che fa la forma della procedura (penso che siano meglio dieci colpevoli in libertà che un solo innocente in carcere), ai limiti che devono essere posti alla pena perché non si esaurisca in vendetta, funzione che peraltro non le è nemmeno riconosciuta (dovrebbe essere finalizza al recupero del condannato, diteglielo).
Non mi si fraintenda: credo nella necessità di combattere la corruzione e l’illegalità, e credo nella necessità della certezza della pena, tutt’è capire a quale prezzo, e ritengo che quello chiesto da Di Pietro costi un di più che serve a reclutare consenso.

Qui mi torna utile l’osservazione che mi fa un lettore che si firma incubomigliore: “Di Pietro, a mio parere, veste i panni di un semplice notaio, più che di un giustizialista. Il problema è che da noi pure il notaio diventa un barbaro forcaiolo se dall’altra parte la menzogna è imperativo. La metafora, l’iperbole e l’esagerazione e le loro eco fanno poi parte sicuramente del costume politico in generale, e del personaggio più in particolare, ma esse non sono da essere confuse con la sostanza”.
La sostanza sarebbe che gli arresti domiciliari equivalgono alla libertà per i passati in giudicato all’ultimo anno di detenzione? Era una proposta fatta per rendere un poco più decenti le nostre carceri sovraffollate: quale retroterra culturale la rigetta perché gli arresti domiciliari equivarrebbero allo sconto di un anno sulla pena?

Ma naturalmente non si tratta solo della cultura del diritto. Di Pietro non mi piace perché è speculare a Berlusconi. Come lui, è il suo partito e – insieme – ne è il proprietario, sicché come Berlusconi esagera nel mostrarsi padrone di sé, ma ne ha tutto il diritto. Troppo per chi, come me, ha orrore dei partiti come momento di promanazione carismatica e/o patrimoniale. (Insieme a Berlusconi e a Di Pietro metto pure Pannella e Bossi.)
D’altra materia rispetto a quelle usate da Berlusconi, ma le sue metafore, le sue iperboli e le sue esagerazioni hanno in comune a quelle la cifra populista, sentimentalista, con irrimediabile vocazione plebiscitaria, negazione più che esplicita di quell’apatia e dello scetticismo che dovrebbero fare la neutra laicità (in senso lato) dello spazio liberaldemocratico.

Sull’Italia dei Valori non vorrei dire troppo, mi fido di quello che ho letto su un numero di MicroMega di qualche tempo fa. (Non mi risulta che MicroMega sia rivista ostile a Di Pietro, ma l’affresco del suo partito era di merda: in mezzo a tanta brava gente, certi figuri di pessima fama, e pessimissima pure. Partito tutt’altro che adamantino, e mi pare che Di Pietro l’abbia pure ammesso, almeno in parte. E non parlo di Sergio De Gregorio, ma di roba recentissima. A naso, ho il sospetto che ce ne sia di molt’altra, per ora sommersa. Ma non vorrei che questo sospetto mi stigmatizzasse come dietrologo, forcaiolo e giustizialista, tanto meno come irrispettoso dell’onore di tutti e di ciascuno: diciamo che parlo del tutt’insieme.)

In ultimo, come fa l’antisemita che vanta di avere molti amici ebrei, vorrei dire la mia figlia maggiore vota IdV e che alle ultime regionali ho curato la campagna elettorale di un candidato dell’IdV in Campania, a gratis. Testi assai vibranti, ho scimmiottato Travaglio.

Non ci sono più le nespole di una volta


Anche a comprarle della qualità sopraffina che costa un occhio, è ormai rarissimo trovare anche una sola nespola su cento che abbia il sapore giusto, il punto giusto di dolce, il giusto retrogusto di nespola come si deve, insomma, non si trovano più le nespole di una volta. E vabbe’ che già ai tempi di Proust non si trovava più una madeleinette decente…


Non so nemmeno perché l’ho ritenuto degna di un post, ‘sta cosa. Ma è che oggi m’è capitato sotto gli occhi un Pierluigi Battista che si atteggiava a laico come se scrivesse per il Corriere della Sera diretto da Giovanni Spadolini, e volevo farmene una ragione.

Shock addizionali


Nicola Bergonzi mi segnala un articolo di Antonio Socci (Libero, 13.5.2010), annotando: “Tanta roba su Fatima, molta confusione”.
Non direi, mi sembra tutto molto chiaro su Fatima, e anche la confusione – che in apparenza è bella grossa – mi pare abbia una sua chiarezza.

Dovendone parlare, farei a ritroso: comincerei dal fatto che l’articolo di Antonio Socci andava in edicola, oggi, mentre Avvenire, in prima pagina, in basso a destra, mandava la réclame di un libro di Tarcisio Bertone (L’ultimo mistero di Fatima).
Al gregge sembrerà niente, ma in pratica accadeva un fatto strano: dal Portogallo il papa mandava a dire che la profezia di Fatima non s’è del tutto ancora realizzata; dalla felicità il Socci si sparava una pippa su Libero, perché l’aveva sempre sostenuto, contro quanto sostenuto invece dal Bertone, proprio nel libro reclamizzato dal giornale dei vescovi.

Non è tutto. La tesi esposta dal papa in Portogallo è incompatibile e alternativa a quella del Bertone: ha detto che nella profezia di Fatima “sono indicate realtà del futuro della Chiesa che man mano si sviluppano e si mostrano” (e dunque non ancora realizzate), mentre il Bertone ha sempre sostenuto che la Madonna s’era fermata al pronostico dell’attentato a Giovanni Paolo II del 1981.
Tutto qui? Macché. Indovinate chi sosteneva una tesi analoga al Bertone. Il Ratzinger, da cardinale. Sposava la tesi dell’allora Segretario di Stato, il cardinal Angelo Sodano, che sosteneva: “Le vicende a cui fa riferimento la terza parte del «segreto» di Fatima sembrano ormai appartenere al passato”, e giustappunto il Ratzinger, di rinforzo: “Nella misura in cui singoli eventi vengono rappresentati, essi ormai appartengono al passato”.

E per questo il Socci fu bruciato: sosteneva che la profezia di Fatima fosse ancora da realizzarsi. Proprio come il papa dice oggi. Comprensibile la pippa del Socci.
Comprensibile pure che il Ratzinger abbia cambiato idea, da papa, perché ogni a papa piace immedesimarsi nel papa della profezia di Fatima: attaccato a morte. Più comprensibile per Giovanni Paolo II, per l’attentato subìto del 1981 (anche se nella profezia il papa muore, e il Wojtyla no), ma non meno comprensibile per Benedetto XVI, che evidentemente si sente mortalmente ferito dagli scandali e dagli incidenti che hanno caratterizzato il suo pontificato (e manco muore di vergogna).

Inciso
Aspetto che Benedetto XVI ritorni dal Portogallo per tirare le somme di tutto quello che sta dicendo. Niente di nuovo, in apparenza, ma leggendo fra le righe, se non mi inganno, questo pontificato è a una torsione (svolta sarebbe termine inadeguato): lo scandalo dei preti pedofili è stato un colpo più duro di quello che è ci apparso e sotto la botta arrivano a scricchiolare la pretesa della eccezionalità dell’istituzione ecclesiastica rispetto alle istituzioni laiche, la natura gerarchica della Chiesa e quell’estroversione ecumenica un po’ molesta che sembrava voler essere il cazzutissimo stendardo di questo pontificato. Mi pare che si sia arrivando a dire che è stato frainteso anche il primo Concilio Vaticano, oltre che il secondo: siamo ad una crisi che non è di immagine ma di autocoscienza, che fa sentire urgente – non ha importanza quanto strumentalmente – un certo disincarnamento dal corpo mistico di Cristo, per un ripensamento della funzione dei carismi in seno alla comunità cattolica. Al problema che i preti siano sempre di meno, e tuttavia indispensabili perché la comunità cattolica regga sulla tradizione, con ciò che così si prospetta per la tradizione, è venuto ad aggiungersi il problema che i preti sono sempre meno palesemente l’alter Christus in serie che dovrebbero essere: si impone un nuovo clero o un nuovo Cristo, oppure – qui la torsione – un nuovo modo per ripensare la funzione sacerdotale.

E dunque a Nicola Bergonzi rispondo: no, tutto è molto semplice. Una profezia che era stata buona in Portogallo nel 1917 (chissà perché nessuno parla mai della situazione politico-istituzionale del Portogallo del 1917 e della condizione della Chiesa portoghese in quel contesto), che era stata ottimamente ricicciata in chiave anticomunista (dando per scontato che la Madonna già sapesse della rivoluzione russa di lì a qualche mese), che tornava buona per incastonare Karol il Grande nella galleria dei Grandi Santi (campa cavallo!), che poteva tornar buona pure per delegittimare il Vaticano II (o almeno i suoi “fraintendimenti”, tutti nello spirito, e malinteso, rispetto alla lettera) – una profezia così versatile, dico, era un peccato metterla in soffitta: ancora riutilizzabile.

E la réclame del libro del Bertone? In pratica, la tesi del Bertone definisce farlocchissima questa riutilizzazione prima che venga tentata da Benedetto XVI in Portogallo: e ad Avvenire non c’è un coglione che colga il controsenso.
Consigliare quel libro al gregge è come fargli brucare peyote: la realtà di Fatima sbava e si fluidifica, la profezia s’allunga come un salamino, si strozza e s’ammoscia.

Mi sembra tutto molto chiaro, caro Bergonzi, ma le suggerisco una metafora: immagini un Benedetto XVI un po’ samurai, immagini che dica Chiesa dove Battiato dice town, e il resto lo lascio alla sua libera interpretazione. Stanno ai cazzi amari, riciclano profezie inservibili, spacciano droghe per tossici sempre meno raffinati.



mercoledì 12 maggio 2010

Un Ghino strepitoso


“Era tutto scritto, tutto previsto, si sapeva già, la sofferenza della pedofilia era stata profetizzata dai pastorelli portoghesi fin dai primi del novecento” *.


Repetita


Nell’arco di un quarto d’ora, prima a Ottoemezzo e poi a Tetris, su La7 c’è Antonio Di Pietro: più che una somma, è un elevazione al quadrato: le cose che dice da Luca Telese – con le stesse parole, le stesse pause, gli stessi incisi che ha appena usato da Lilli Gruber – acquistano una forza che non hanno (e qui non vale neanche la pena di citarle), e questo è un saggio del potere televisivo.
Qui s’è trattato di un evidente caso di negligenza dell’addetto al palinsesto, ma una cazzata ha goduto dell’effetto di potenziamento che acquista se ripetuta due volte in breve tempo, senza contraddittorio, con due cravatte diverse, dal proprietario di un partito.

“Il perdono non sostituisce la giustizia”


Nella Lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda (19.3.2010) era concetto ancora vago, espresso nell’invito ai vescovi a “cooperare con le autorità civili”, ma “nell’ambito di loro competenza”. Il prete pedofilo veniva a perdere le tradizionali coperture, ma un vescovo diocesano non era tenuto denunciarlo, anche se venuto a conoscenza dei suoi crimini fuori dalla confessione: per la prima volta era invitato a collaborare con le autorità civili, a crimine già denunciato, niente di più.
Nella Guida alla comprensione delle procedure di base della Congregazione per la Dottrina della Fede riguardo alle accuse di abusi sessuali, pubblicata poco dopo (ma la Santa Sede l’ha datata 2003), v’è paradossalmente un po’ di più, e non si capisce perché Sua Santità non l’abbia ricordato ai vescovi irlandesi: “Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte”. Non è ancora una rinuncia piena alle prerogative giuridiche e giudiziali che la Santa Sede ha sempre rivendicato sui suoi preti (anche per i crimini da essi commessi ai danni di laici, compresi gli abusi sessuali su minori), ma è qui che si viene a creare la crepa.

Alcuni fanno notare che, per salvare la faccia, Benedetto XVI sta svendendo libertà, autonomia e potere della Chiesa, cedendo a una visione secolarizzata del peccato che lo riduce a reato, sottraendolo alla logica che lo inscrive nell’economia del pentimento e del perdono, della dannazione e della grazia.
Lo spiega molto bene Pietro De Marco, con l’ansia che si conviene a chi ha cara la tradizione: “La richiesta di trasparenza nella vita della Chiesa e, per dire così, nella sanzione pubblica dei suoi peccati, va razionalmente commisurata alla sua essenza di responsabile rappresentante di una Verità che salva. La tutela dei diritti individuali nella chiesa, di conseguenza, non può inseguire […] i diritti […] dell’individuo contemporaneo. Ma deve anche seguire, nella definizione dei diritti dei fedeli, una logica di diritto sacro e, nel rapporto con gli ordinamenti statuali, salvaguardare anzitutto la propria libertà essenziale, la libertas ecclesiae che la rende idonea a quanto essa annuncia e rappresenta. Sotto tale vincolo possono essere concordate interpretazioni tra gli ordinamenti penali di chiesa e stato”, ma ciò per il codice penale è favoreggiamento e complicità può essere discrezione e misericordia per il Codice di Diritto Canonico: “La civiltà giuridica della Chiesa […] distingue tra foro interno e foro esterno, tra due spazi di giudizio diversamente istruiti, per dire così”, e attenzione a quando esce un “per così dire” a chi ha cara la tradizione: vi sta rifilando un pacco.
Ora gli è che il pacco sta diventando pesante in mano a Benedetto XVI e allora eccolo dire, in volo per il Portogallo, che “il perdono non sostituisce la giustizia”: affermazione che mette i “diritti individuali nella chiesa” sotto un’ipoteca secolare.

Si capisce l’ansia di chi vede in pericolo “la libertà della chiesa di essere come è, come la sua legge canonica, la sua dottrina, il suo magistero e la sua tradizione storica l’hanno definita” (Il Foglio, 12.5.2010), ivi compreso il vizietto di certi suoi preti, che però per Giuliano Ferrara sarebbe da intendere come effetto collaterale della “specialissima paideia” cattolica, che è “cultura e prassi del rapporto intenso, vero, in un certo senso erotico, d’amore e di carità, con i cuccioli dell’umanità”. E perciò, “detto con molta autoironia”, “Benedetto XVI è fuori linea per noi foglianti”, perché, seppure “dignitosamente” e per chissà quale “spinta profetica”, si fa “umile di fronte al mondo” come l’incarnazione del potere non dovrebbe mai fare, sennò che senso ha baciargli la mano?
Insomma, pure Benedetto XVI rifiuta i consigli di Giuliano Ferrara, che sulla pedofilia dei preti era dell’idea che ci si dovesse “difendere contrattaccando” (Il Foglio, 15.3.2010). Altro che contrattacco, Sua Santità si braca, col rischio di ridurre la Chiesa ad una “agenzia secolare” come tante. Giuliano Ferrara non è neppure sfiorato dal sospetto che possa già essere così da tempo. O forse lo sa, ma semplicemente teme che così si risappia in giro.

Anagrafe degli amati


Marco Pannella è convinto che Massimo D’Alema miri a concordare un governo di unità nazionale con Silvio Berlusconi. L’ha detto tre giorni fa, nel corso di seminario che il Pd ha tenuto a Cortona, al quale non era stato invitato, come ha tenuto a premettere.
Per chi ha il vizio di tenersi informato su ciò che avviene nella galassia radicale – parliamo di qualche centinaio di viziosi in tutta Italia – non è una sorpresa: la convinzione andava prefigurandosi da tempo, da quando Silvio Berlusconi propose Massimo D’Alema al Pesc, per poi dargli un Copasir di consolazione, ennesima prova che il Regime è bicipite, e che i “buoni a nulla” sono indispensabili ai “capaci di tutto”, e viceversa.

La dichiarazione di Marco Pannella non ha fatto molto rumore: i media ci hanno sbadigliato sopra, Daniele Capezzone non l’ha smentito a nome di Silvio Berlusconi, Massimo D’Alema non l’ha mandato a farsi fottere, e perfino nella galassia radicale l’eco è stata debolissima.
Insomma, c’era bisogno di qualcosa di più forte. Voilà, tre giorni dopo: “Ho avuto tre o quattro uomini” (Chi, 12.5.2010).

Se devo dire la mia, mi pare che anche qui Marco Pannella sbagli calcolo, perché l’unica reazione seria che può aspettarsi da una dichiarazione del genere, levate le battutine salaci, è la richiesta di una anagrafe degli amati.
Non vogliamo sapere i nomi – sono cose personali, mancherebbe – ma questi tre o quattro amati hanno rivestito cariche dirigenziali nel Partito Radicale? Se sì, è accaduto prima o dopo che sbocciasse l’amore? E l’amore è finito prima o dopo che decadessero da quelle cariche?
Non tanto per imbastirci sopra malevoli congetture, ma giusto per lasciarci andare al pettegolezzo, visto che l’invito è al pettegolezzo . 

lunedì 10 maggio 2010

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Ho trovato finalmente una scusa per le dovute due righe sul decennale di Dagospia – la vita è maestra, ci detta temini – e si tratta di una foto di Umberto Pizzi, sodale del titolare, che così posso evitare di nominare, che poi è proprio quello che non mi dava una scusa.
Pizzi fotografa Geronzi e Letta sotto le tette di Mamma Lupa, in un apologo morale di quelli nelle foto a centrofascicolo de Il Borghese di Mario Tedeschi. Satira di destra, se satira. Giornalismo alla Pecorelli, se giornalismo. Detto col massimo rispetto per entrambe le cose, naturalmente. E però, in Dagospia, queste rispettosissime cose stanno senza autocoscienza, con un’autoironia da abiura permanente, smussa, sciatta, tonta, pusillanime.
Per dire: Geronzi e Letta non sono perfettamente centrati nell’apologo morale, non si sovrappongono a Romolo e Remo, sicché O.P. sta a Dagospia come un sordido ricatto sta a un buffetto ruffiano.