sabato 30 ottobre 2010

“La Ruby dice che sei come la Caritas...”


“La Ruby dice che sei come la Caritas. Tu confermi, dici che sei di buon cuore. Nulla osta al fatto che io non abbia tette, vero? Bene, anch’io ho dei problemini: metti 10.000 euro nella busta, filantropo”.

Si dovrebbero comporre ordinate file di cittadini, ciascuno con la sua busta in mano, all’uscio di ogni residenza del nostro caritatevole presidente, Palazzo Grazioli, Arcore e le altre diciotto. Ma file lunghe chilometri.


giovedì 28 ottobre 2010

Un qualche Ugubaldo


I froci non figliano, fanno invecchiare la società e rovinano Inps. E sono di cattivo esempio: vedi un frocio e ti viene la tentazione di imitarlo. E fanno cose contro Dio e la Natura, scegliete cosa sia peggio, a piacere. Insomma, sono inutili a se stessi e dannosi alla società. Se non lo fanno perché sono cattivi, è perché sono malati: mazzate o cure psichiatriche, dipende dalla scuola di pensiero. Tolti dal mallo del lessico alto, sono questi in nuce gli argomenti che stanno tra dottrina morale e dottrina sociale per ciò che attiene alla questione omosessuale: è solo secondariamente omofobia, perché, levando anche il guscio, troviamo la teoria di un uomo preordinato e con due sole scelte: retto o deviato. Piglia un’omelia del cardinal Carlo Caffarra, una conferenza di Ettore Gotti Tedeschi, un libro di Marcello Pera, un editoriale di Giuliano Ferrara, un pippone di Claudio Risè: leva il superfluo e ottieni il branco che pesta il gay, stessa violenza e stessa tautologia. Che senso ha fare una legge che aumenti le pene per quei reati consumati con l’aggravante dell’odio omofobo? Finché certi argomenti continueranno a camminare su gambe non azzoppate da un po’ di froci un po’ incazzati, Rocco Buttiglione potrà continuare a esprimersi nelle categorie della filosofia medievale. Ci sarà pure un qualche Ugubaldo che a cavalcioni di Aristotele teorizzi la correlazione tra sodomia e cattivo raccolto: ecco, quello sarà il filosofo di cui lodare la straordinaria attualità. Se l’ha detto Ugubaldo, che non fu mai azzoppato...  

In fondo sono pezzentelli


Certe notizie mi turbano forse più di quanto meriterebbero. Ma qui siamo di fronte a un nababbo che regala un dono da 500-600 euro a un multimilionario che poi se lo rivende ad un terzo del suo valore. Senza averne mai fatto uso. Conservandone per anni la confezione.

Gli elettroliti


Il IX Congresso di Radicali italiani si aprirà domani, a Chianciano Terme, quando Marco Pannella sarà al 28° giorno di sciopero della fame e al 3° di quello della sete, e dunque si esaurirà tutto in liturgia: l’ulteriore calo degli iscritti e le sempre più drammatiche difficoltà economiche del partito non avranno modo di essere trattati come problemi politici, al più se ne farà cenno come epifenomeno del suo raggrinzimento fisico. Ancora una volta i congressisti saranno precettati al sacramento della comunione radicale, che è il momento in cui si celebra la coincidenza del corpo della setta nel corpo del suo capo, sprecando ancora una volta l’occasione di mettere in discussione la struttura della cosa radicale, fatta così consustanziale in cosa pannelliana. I problemi politici saranno così trasfigurati, come sempre, ma anche sfigurati, come al solito. Perché si tratterebbe di un partito che si dice laico, ma ha natura ecclesiale, che si dice democratico, ma è a guida carismatica, che si dice liberale, ma quando mai.
Per cinque giorni, dal 29 ottobre al 1° novembre, “Marco, mangia!”, “Bevi almeno!”, “Marco, fa’ quello che credi giusto, ma sappi che siamo in forte apprensione”… Poi senza dubbio accadrà qualcosa di inaspettato, Tarek Aziz sarà graziato, Tony Blair si slogherà una caviglia, Giorgio Napolitano manderà una lettera a Marco Pannella, insomma, da tutto l’inaspettato qualcosa ci si potrà aspettare? E sarà quello che lo farà mangiare o almeno bere, col generale sollievo dell’assise che avrà così risolto le ragioni della convocazione: “Andate in pace, il congresso è finito”, il partito è sempre più nella merda, ma gli elettroliti sono tutti nei limiti.

A parte Entrando in coma, Daniele Capezzone avrebbe potuto prendersi una grande rivincita su Marco Pannella, oscurandogli la celebrazione eucaristica di Chianciano. Ma il ragazzo è incapace di covare vendette, tutt’al più di trascinare la sua esistenza in una piatta sequenza di comunicati stampa e dichiarazioni ai tg.


mercoledì 27 ottobre 2010

Il problema morale


Quando la malafede è tanto palese, quasi esibita con fierezza, passa la voglia di biasimarla: il giudizio morale, che è la dannata tentazione di chi osserva le vicende umane, indugia, come se il biasimo risultasse tanto facile da poter essere ingannevolmente ovvio. Viene voglia, in questi casi, di mettere da parte l’indignazione e armarsi di altro criterio.
Si prenda la prima pagina de il Giornale di mercoledì 27 ottobre: “Fini è indagato ma l’hanno nascosto”. Dovrebbe trattarsi del fatto che la Procura di Roma si è decisa ad archiviare il caso che poneva l’ipotesi di truffa nell’affare Montecarlo: cadono tutte illazioni sulle quali il quotidiano aveva imbastito una campagna durata mesi, ma nel titolo non ve n’è notizia. Anzi, proprio nel momento in cui l’indagine si conclude, e con l’accertamento che l’indagato è estraneo ad ogni genere di colpa o dolo, perché di fatto non sussiste circostanza di contravvenzione o reato, il Giornale annuncia che “Fini è indagato”, come se l’indagine fosse ancora in corso e dunque l’esito fosse ancora incerto.
Un po’ meno disonesto sarebbe stato un “Fini era indagato ma l’hanno nascosto”, ma il fatto è che il nascondimento non è mai stato tale: la giustizia dovrebbe poter funzionare in questo modo e c’è da lamentarsi di quando non è così, non del contrario.

Quando la malafede è tanto palese, non la si può liquidare con un po’ di disprezzo: da chi fa questa merda di giornalismo l’attenzione deve spostarsi alla merda di lettore che vi è affezionato, perché l’uno senza l’altro non ha senso. Ci dev’essere un lettore – è evidente – che a tanta palese malafede non batte ciglio, anzi, è proprio quella che vuole e cerca e trova: il Giornale non fa che offrirgliela. Ecco che trattenere il biasimo verso i Feltri, i Sallusti, i Porro non è stato vano: abbiamo individuato altrove il problema morale.


martedì 26 ottobre 2010

Supplica




“Tra volontà di vivere a qualunque costo e atonia morale non c’è discrepanza”
Guido Ceronetti, Albergo Italia, Einaudi 1985 – pag. 56

Dio mi è testimone che Filippo Facci mi è simpatico fin dentro l’intimo. È wagneriano, vabbe’, nessuno è perfetto, ma tutto il resto in quel ragazzo è delizioso: è adorabile pure quando esagera. E tuttavia sarebbe venuto il momento che la smettesse con quel suo tormentone su quanto sia assurdo che una stellina del varietà possa diventare ministro a due soli anni dall’ultima scosciata: abbiamo capito, siamo d’accordo, non è necessario ripeterlo se non si ha niente da dire. Dovrebbe rimembrare – consiglio due o tre scale cromatiche di sottofondo – che non è passato molto tempo dall’ultima volta che ha rubacchiato dallo scaffale di un supermarket al momento in cui è diventato la più brillante firma del garantismo craxiano. Via, un po’ di indulgenza per la povera Mara! Alla poverina vengono gli sfoghi di pelle ogni volta – e via, basta.


Capezzone piglia un cazzotto in faccia

Non si fa, è reato.

Update




“La principale ideologia di oggi”


Il Foglio dedica un paginone al repulisti che, nell’anno appena trascorso dal suo insediamento, monsignor Giampaolo Crepaldi ha fatto nella diocesi di Trieste, anzi, nel giornalino diocesano: ha cambiato il direttore e ha fatto levare la rubrica delle lettere che aveva ospitato opinioni non ortodosse. Sembra poco, quasi niente, ma adesso Claudio Magris non potrà più vedervi pubblicate le sue e-mail, e chissà quanto ne soffrirà, e ciò che fa soffrire Claudio Magris non può che far godere Il Foglio, e insomma il paginone era dovuto.
Al netto delle slinguazzate a Sua Eccellenza che arrivano all’involontaria ironia di un titolo che recita C’è dottrina a Trieste, l’articolone a firma di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro (in due ci si controlla meglio, a vicenda) un pregio ce l’ha: riporta un brano della prima omelia di monsignor Crepaldi da vescovo di quella diocesi (4.10.2009), che è un potente attacco al riduzionismo (“la principale ideologia di oggi”).
“La persona viene ridotta ai suoi geni o ai suoi neuroni – lamenta Sua Eccellenza – l’amore è ridotto a chimica, la famiglia viene ridotta a un accordo, i diritti vengono ridotti a desideri, la democrazia viene ridotta a procedura, la religione viene ridotta a mito, la procreazione viene ridotta a produzione in laboratorio, il sapere viene ridotto a scienza e la scienza viene ridotta a esperimento, i valori morali vengono ridotti a scelte, le culture vengono ridotte a opinioni, la verità è ridotta a sensazione, l’autenticità viene ridotta a coerenza con la propria autoaffermazione”.
Qui il testo è interrotto da quei puntini sospensivi che sul giornale di Giuliano Ferrara sono un irresistibile invito al testo integrale, dove in questo caso si scopre che si è levato: “Sono tanti i riduzionisti del nostro tempo, che tolgono ossigeno alle nostre anime”. Duretto, senza dubbio, e però si è levato il meglio: i riduzionisti non si limitano all’errore, ma sono pericolosi. Non è dato sapere come possano asfissiare le anime dei non riduzionisti, Sua Eccellenza non lo dice, ma questo sarà un dettaglio, e perciò Il Foglio sorvola anche sul cenno. Rimane la curiosità: se riduzionisticamente concepisco la mia famiglia come una rete di accordi amorosi e non solo, e se i membri della mia famiglia accordano sugli accordi, chi asfissiamo?

lunedì 25 ottobre 2010

[...]




In modo più delicato


Ho lasciato il commento al Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente nel punto in cui L’Osservatore Romano tagliava dall’intervento del sunnita Muhammad al-Sammak, consigliere politico del Gran Mufti del Libano, un passaggio nel quale ai cristiani in Terra Santa era dato il merito di essere “in prima linea [col popolo palestinese, naturalmente] nell’affrontare e nel resistere all’occupazione [ebraica, naturalmente], a Gerusalemme in particolare e nella Palestina occupata in generale”. Più o meno ho scritto che con questa piccola attenzione di forbici il Vian si dimostrava assai premuroso nell’evitare al suo editore altri scazzi diplomatici con lo Stato di Israele.
In fondo si trattava solo di una frasetta, una superflua perifrasi che fa luogo comune nel lessico musulmano (moderato e no): non si sarà sentito nemmeno molto disonesto nel levarla, gli sarà sembrato di fare un po’ come quando all’ospite scappa una scoreggia, dove al padrone di casa corre l’obbligo di far finta di non averla sentita. Non ho voluto insistere, anzi, in cuor mio ho sentito grande tenerezza per quell’ipocrita. Poi sono stato preso da altro e ho accantonato il Sinodo per una settimana.
È dalla Lettura delle prime pagine (rubrica a cura di Lorenzo Rendi, su Radio Radicale) che nella notte tra venerdì e sabato apprendo di essermi perso molto: nella settimana i vescovi mediorientali avevano scacazzato un incredibile fuoco di batteria contro Israele, al punto che quel sabato Il Foglio sarebbe stato in edicola strillando: “Sinodo antisionista”, col direttore ad avere un appassionato fremito di ciccia: “Sinodo equivoco”.
Addirittura Il Foglio era in serio imbarazzo? Quando trovo tempo di leggere l’editoriale di Giuliano Ferrara, trovo lo stesso genere di premura usato da Vian, ma qui come se, dopo la scoreggia dell’ospite, al padrone di casa fosse occorso il cagarsi addosso. Chiedo scusa per l’eccesso di immagine, ma è che l’Elefantino – leggo – pensa bene di consolarsi con l’ampia citazione di un vescovo diverso da tutti quelli in kefia: un vescovo che sembra un Huntington inzuppato nella lectio di Ratisbona. Una fresca sferzata di islamofobia dovrebbe compensare l’antisionismo: la Chiesa mi diventa ricca di opinioni diverse, anche opposte, ma poi tutto è rimesso nelle mani del Papa.
Premura appesa a un filo di preoccupazione: sarà mica antisionista ed equivoco anche il Papa? “Evangelicamente e biblicamente Israele è un segno di contraddizione che contiene storicamente quel che l’ebraismo, «radice della fede cristiana» secondo Ratzinger, contiene in termini di teologia della storia: il genio religioso di Roma dovrebbe saperlo intercettare e riconoscere per tale, questo segno. La speranza è che le conclusioni del Sinodo, proceduralmente complesse, siano più prudenti e coraggiose del suo svolgimento”.

Bene, il Sinodo arriva a conclusione, ma per tirare le somme di tutto quello che s’è detto bisognerà aspettare. Il Sinodo, in realtà, non conta un beneamato cazzo: produce un documento che il Papa legge e può disattendere anche in toto, alla faccia della collegialità dell’apostolato episcopale, che è tutta nella forma dell’assise, sostanzialmente priva di ogni potere deliberativo (*). A deliberare sarà il Papa, che intanto chiude formalmente il Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente con una bella messa in San Pietro. All’omelia, come la Barbara D’Urso fa prima del blocco pubblicitario annunciando il servizio che seguirà, Sua Santità annuncia: “La prossima Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, nel 2012, sarà dedicata al tema «La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana». In ogni tempo e in ogni luogo – anche oggi nel Medio Oriente – la Chiesa è presente e opera per accogliere ogni uomo e offrirgli in Cristo la pienezza della vita”.
Cari fratelli maggiori, in ogni tempo e in ogni luogo – anche lì da voi – essere ebrei non vi conviene, non vi dà pieno diritto di vivere: approfittate di questa nuova evangelizzazione, convertitevi, o almeno dateci il controllo di una porzione di Terra Santa, sennò ce lo facciamo dare dai palestinesi dopo che vi avranno rimandati in giro per il mondo, a fine occupazione. Ma detto in modo più delicato.


(*) A questo modello si ispirato anche il Pdl: “Il Presidente [Silvio Berlusconi], ove sussistano ragioni particolari di opportunità, a suo insindacabile giudizio e senza l’obbligo di motivare la decisione, non dare seguito alle indicazioni delle assemblee”.

Ettore Gotti Tedeschi e Rino Cammilleri - Denaro e Paradiso - (II ed.) Lindau 2010


Toni Negri vede nel comunismo un “progetto di amore” che ha il suo prototipo mitologico nella “leggenda di san Francesco d’Assisi” che “per denunciare la povertà della moltitudine, ne adottò la condizione comune e vi scoprì la potenza ontologica di una nuova società” (Impero, Rizzoli 2002). Ammesso e non concesso che sia vero, e non è vero, bisognerebbe dedurre che i francescani abbiano da subito tradito il fondatore del loro ordine, almeno per come la vede Oreste Bazzichi (Alle radici del capitalismo, Effatà 2003; Dall’usura al giusto profitto, Effatà 2008): per lui è alla scuola teologica francescana che si deve la nascita del capitalismo, a cominciare da quel Tractatus de emptione et venditione, de contractibus usurariis et restitutionibus di fra’ Pierre de Jean-Olieu (Pietro Di Giovanni Olivi) che facendo un distinguo tra usura (sempre peccato) e giusto interesse (guadagno moralmente legittimo come ricompensa per il rischio d’impresa) avrebbe posto le basi per una giustificazione etica dell’accumulo del capitale.
È inutile andare più indietro del XIII secolo (fra’ Pierre muore nel 1298), troveremmo solo la condanna di ogni ricchezza in Mt 19, 23 (“difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli”), la tesi che Cristo non possedesse neanche la propria tunica e l’accumulo di beni mobili e immobili da parte della Chiesa, dalla primigenia usucapione del colle Vaticano fino alla falsa Donazione di Costantino.

Tema difficile, quello del rapporto tra cattolicesimo e capitalismo. Pensavamo di averlo risolto trovando lo spirito del capitalismo ne l’etica protestante (Max Weber, 1904), ma non è così.
Tutto è cristiano, no? Se il cristianesimo è positivamente (storicamente) guidato dallo Spirito Santo che mai lascerà Roma, come potrebbe non essere cattolico il “sano” capitalismo senza il quale la multinazionale vaticana non avrebbe scheletro? A posteriori, il capitale può e deve essere precipuamente cristiano, perciò cattolico, sicché solo il magistero della Chiesa può dire quando è veramente “sano” un capitalismo: due in una, abbiamo giustificazione dei caritatevoli riciclaggi dello Ior e la pretesa di dettare le regole nel buco del culo del secolarismo, dove lo sfruttamento della forza lavoro e la rendita da interesse producono lo sterco del diavolo da filtrare e purificare.
Tutto ciò che viene dall’uomo, che è creato a immagine e somiglianza di Dio, dev’essere degno del creatore e non fa eccezione il plusvalore: il prezzo del pane deve tutelare la creatura nel panettiere e nel suo cliente, perché entrambi sono debitori di una decima alla Chiesa. Fate dettare le regole del capitalismo alla Chiesa, perché essa sa l’esatto valore della dignità umana e l’esatto prezzo della manifattura e della materia prima: fate compilare i listini ai frati, fate ridistribuire ai preti, la Chiesa sia primo e ultimo calmiere sociale.
Chi è che teneva cassa fra gli apostoli? Giuda, il traditore di Cristo. Fate che si compia la Passione: il Mistero vive solo se rivive ogni volta rinnovato.

E allora fate dire a Ettore Gotti Tedeschi che l’economia mondiale deve pigliare consiglio dal Papa. Be’, certo, non in termini così brutali: in questa riedizione molto rimeditata di Denaro e Paradiso (Lindau 2010) – c’era di mezzo la Caritas in veritate – il presidente dello Ior (insieme a Rino Cammilleri) ripiglia la tesi di Bazzichi (originariamente non sarebbe neanche del Bazzichi, ma è dal suo Alle radici del capitalismo che pesca a larghe mani) e – a suo modo – pensa di poter dimostrare che il capitalismo è tanto più virtuoso quanto più è cattolico.

A parte: non scandalizzi che san Francesco sia tradito dai teologi francescani come Cristo da Giuda, aveva pure lui le mani bucate.


Nichi Vendola non mi piace



Nichi Vendola riassume in sé il peggio di molti tipi umani che detesto anche quando danno il meglio di sé (cosa che accade molto raramente). Del cristiano ha il culto di un protocristianesimo tutto letterario, malamente scopiazzato dalla cattiva lettura che Pier Paolo Pasolini fece di Alfred Loisy, ma anche la visione salvifica del momento fusionale (comunità come eucaristia, società come corpo mistico), di una prossimità vissuta non come relazione ma come evento. Del cattolico ha il rispetto per quanto di irrazionale v’è nella pietà popolare e nei rituali della superstizione tribale del mitologico Sud cattolico, con qualche alibi scientifico costruito sulle tesi di Ernesto De Martino e molto umore rustico rubato a Rocco Scotellaro. Poverino, non afferra che il cattolicesimo tirreno e ionico è tutto sanfedista. Del politico ha il peggio di ciò che sta in un populista e qui, per non dilungarmi troppo, piglierei dalla sua scheda autobiografica: “Ho un anello al pollice, regalatomi da un pescatore di Mola di Bari, era la fede di sua madre: rappresenta per me una specie di matrimonio con il popolo” (nichivendola.it). A confronto con l’orsacchiotto plastica che una bambina donò come portafortuna a Sergio Cofferati quando era candidato a sindaco di Bologna, e che Sergio Cofferati dice di portare sempre in tasca (Linus, 442/2004 – pag. 5), l’anello al pollice è vomitevole. Ma il peggio del peggio Nichi Vendola lo dà da comunista e, ancor più, da comunista italiano, perennemente in assetto tattico, sempre a traino di una retorica da difficile ma indispensabile compromesso, sempre dolente in ogni sorriso, sempre un po’ falso in ogni invettiva. Dell’oratore nato, che è un tipo umano fra quelli che più detesto, ha l’inclinazione al lessico affabulatore con l’uso del climax a triplette. Fateci caso: Nichi Vendola usa sempre tre perifrasi per ogni immagine, sempre tre sinonimi per ogni sostantivo, per ogni aggettivo, per ogni verbo, per ogni avverbio, e parla come se pigliasse da un intimo universo di sensazioni che somiglia a un dizionario dei sinonimi. Sarebbe stato un ottimo sommelier, di quelli che paiono trovare il termine prezioso o ardito nel naso, nel palato o perfino in trasparenza. Del narcisista ha il vittimismo trionfante. Del gay ha quell’ostentata smania di mostrarsi sobrio che è assai più irritante dell’ostentata smania di mostrarsi trasgressivo. Insomma, Nichi Vendola non mi piace, non mi piace proprio. E questa era la premessa.

Ora, un lettore mi chiede di commentare alcune sue dichiarazioni al margine del congresso fondativo di Sinistra, ecologia e libertà: “Afferma che occorre dialogare con il mondo cattolico, rifuggendo l’anticlericalismo… «La cosa peggiore – dice – è chiudere la discussione prima che cominci. Io voglio parlare delle questioni eticamente sensibili, ne voglio parlare anche con la Chiesa»” (corriere.it, 24.10.2010). Direi: signor governatore, le chiamano “questioni non negoziabili”, che vuole negoziare? Nel caso che alle prossime elezioni politiche – Dio non voglia! – lei fosse il leader dello schieramento avverso a quello guidato da Silvio Berlusconi (al quale peraltro somiglia moltissimo, ma su questo parleremo un’altra volta), la Chiesa con la quale lei intende parlare, discutere e trattare non avrebbe da far altro che accennare obliquamente al fatto che lei è cattolico e vive nel peccato, è comunista e perciò lontano dal magistero sociale, per levarsi il fastidio (odia discutere, le piace dare precetti): sarebbe trombato prima ancora di offrire un negoziato. Fatta eccezione per qualche prete che conta meno del due di briscola, fatta eccezione per qualche cattolico che si sente adulto, per la Chiesa è meglio un puttaniere che un ricchione, ma naturalmente dietro l’apodittico qui c’è una questione antropologica che va ben oltre il suo culo. Per quanto mi riguarda, io non la voterò mai. Dunque non è lei che rifugge l’anticlericalismo. Sono gli anticlericali come me che fuggono lei.


Foto: Patrizia Pieri

domenica 24 ottobre 2010

“E chi se ne importa”


Non era degna di rilievo la notizia che L’Osservatore Romano sparasse: “Homer e Bart [Simpson] sono cattolici”, e infatti non ci ho sprecato un rigo. È già da tempo che la Chiesa fruga nel pop cercando tracce di cattolicesimo o almeno di cristianesimo, anche se distorto, anche se solo nominale, per gonfiarlo in forma di presenza: sempre la stessa tecnica di mistificazione, che dopo un po’ annoia. Punta di lancia di questa goffa operazione è proprio il giornale diretto da Vian, ormai illeggibile per ciò che attiene a questo genere di riletture.
Voglio confessare che, quando L’Osservatore Romano riabilitò i Beatles, mi buttai a capofitto in un pippone che presumevo mi avrebbe estenuato per 30.000 battute, ma poi lessi che alla notizia Ringo Starr aveva commentato: “E chi se ne importa”. Una lezione. Smisi subito, mi passò la voglia, non m’è mai più tornata e, quando ho letto: “Homer J. Simpson è cattolico”, ho storto il muso e basta. Poi ho letto che il produttore esecutivo de The Simpson smentiva, e ho storto il muso, ma neanche m’è sembrato valesse la pena di commentare.
E allora perché tornarci sopra oggi? Oggi capita che a smentire L’Osservatore Romano sia lo stesso padre Francesco Occhetta che nell’articolo veniva citato come autorevole fonte (La Civiltà Cattolica): mai detto che Homer e Bart siano cattolici. E questo è degno di notizia.

venerdì 22 ottobre 2010

Ma gliel’ha chiesto?


Ma mi sono distratto io o davvero la signora Bignardi ha dimenticato di chiedere a Ignazietto com’è che Geronimo La Russa si trova nel Consiglio direttivo dell’Aci? Non può essere che si sia distratta lei, devo essermi distratto io: si dà tante arie di avere le palle sotto il tubino, non può averlo dimenticato.
Deve averglielo chiesto di sicuro, sarà stato mentre ero a far pipì. Ci ho messo poco: dev’essere stata una domanda secca, e secca dev’essere stata la risposta, che deve aver soddisfatto la signora, che non avrà avuto necessità di altri chiarimenti… Il tempo di sgrullarlo e la questione è chiusa: questo è il giornalismo serio e asciutto che ci manca, brava la Bignardi, che mi fa diafano il potente.
Se gliel’ha chiesto.

Ipse dixit




“Entro dieci giorni dalla discarica di Terzigno non proverranno odori o miasmi”

 

 

Silvio Berlusconi,

22.10.2010



“Preti che fanno il doppio gioco”


Ku prawdzie i wolnosci (Cracovia, 2010) è una raccolta di documenti della Sluzba Bezpieczenstwa, la polizia politica della Polonia comunista, tutti relativi a Karol Wojtyla, scrupolosamente attenzionato per oltre trent’anni, dal 1946 fino alla vigilia della sua elezione al Soglio Pontificio nel 1978, dai tanti informatori sui quali il regime ha sempre potuto contare nel clero polacco: il libro è di qualche mese fa, chissà se arriverà mai in Italia, ma l’ultimo numero de La nuova Europa pubblica la traduzione di altri stralci e Luigi Geninazzi stende un commento che descrive il contesto con faticosi eufemismi (Avvenire, 22.10.2010).

In pratica, il futuro Giovanni Paolo II fu spiato a lungo e a fondo da decine di preti e laici cattolici, a lui talvolta anche assai intimi, che il regime teneva a paga o teneva per le palle a causa dei loro vizietti, per lo più sessuali. Wojtyla sapeva di essere controllato molto da vicino e riuscì sempre a mantenere un profilo basso e perfino ambiguo, mentre invece andava creando attorno a sé una rete sociale sempre più estesa e forte, che avrebbe fatto da incubatrice a Solidarnosc.
Tutto molto affascinante, senza dubbio, guardando a un Wojtyla o a un Popieluszko; guardando la chiesa polacca, un po’ meno. Fu la pubblicazione di documenti degli archivi dei servizi segreti del regime comunista che provavano la sua attività di informatore a costringere alle dimissioni Stanislaw Wielgus, arcivescovo di Varsavia solo per poche ore. Il suo caso era solo la punta dell’iceberg, che emerse nel gennaio 2007, portandoci a conoscenza dell’agente Seneka, dell’agente Zagielowski, dell’agente Ares, dell’agente Erski: tutti preti e non dell’ultima parrocchia di periferia.

Bene, pare che il Geninazzi soffra nel ricordare a stesso che un Wojtyla o un Popieluszko erano l’eccezione, e che fra i membri del clero era assai alto il numero di quanti avevano trovato un concordato privato col regime comunista. E scrive che, “a leggerle oggi”, le attività dei “preti che fanno il doppio gioco” sembrano “buffe e ridicole”, ma “dicono fino a che punto [gli uomini del regime] erano decisi a spingersi nel controllo totale delle persone”. Come a dire: il comunismo era feroce e determinato, ma si serviva di traditori fessi.
Salvare capra e cavoli: Wojtyla e la chiesa polacca. E come si dimostra che la vera chiesa polacca non era anche quella che prendeva paga dal regime? “Alla fine gli spioni non sono serviti a nulla, Wojtyla diventerà papa e per il comunismo sarà l’inizio della fine”. Vince chi vince, e si piglia la ragione. Sennò per sopravvivere si adegua, e vince lo stesso. La pelle del leone rivoltata fa un buon caldo.

Piovene


L’industria dei premi letterari e giornalistici è una delle poche rimaste floride in Italia e non c’è pro loco che manchi di un vate al quale intitolare il suo: Vicenza ha Guido Piovene, giornalista e scrittore antisemita che non scrisse mai un rigo contro il fascismo e che non si è mai saputo come abbia salvato il culo dopo la guerra.
Prima di leggere che quest’anno è andato anche ad Annalena Benini, neanche sapevo che esistesse un Premio Piovene, ma ora lo so, e so che quest’anno premia Annalena Benini per “originalità, acutezza ed internazionalismo” e che a consegnarle il premio è Bruno Vespa, segretario generale della giuria, nella quale spicca il nome di Carlo Rossella.
La Benini è originale, acuta e soprattutto internazionale, così concorda la giuria. E pensare che per capire in quale mare di merda siamo immersi c’è chi ha bisogno di ponderosi studi sociologici e complicatissime tabelle.

La “retroattività del lodo Alfano”


Sono necessarie alcune considerazioni su quella “retroattività del lodo Alfano” – in questi giorni è espressione comune sul cartaceo, in tv e on line – che intenderebbe denunciare come un assurdo la proposta di legge costituzionale che il governo intende portare in Parlamento. Si tratta di sospendere il processo penale quando è nei confronti delle alte cariche dello Stato e per “retroattività” qui si intenderebbe l’estendere della sospensione anche a quei processi per reati commessi in epoca antecedente all’assunzione dell’alta carica (*). Bene, non si discute che la legge faccia schifo – fa schifo – ma “retroattività” è termine qui usato in modo improprio e strumentale. Astrattamente, infatti, la retroattività di una legge non è un assurdo, né è espressione in sé di un principio ingiusto (**).
Ma è propriamente “retroattività” quella del “lodo Alfano”? No, perché qui non è in questione la depenalizzazione di un reato, ma la sospensione dei processi per quel reato. Anzi, è in questione la sospensione dei processi per tutti i reati (fatta eccezione per quelli particolarmente gravi e abietti) dei quali possa essere accusato chi ricopra un’alta carica dello Stato. E dunque l’effetto non è attivo sul tempo ma sulla persona.
In più è dichiarato come precipuo fine della norma, che stavolta non chiede legittimità alla Costituzione, ma intende riformarla, introducendo un criterio di privilegio particolare. Ne godrebbe la persona che ricopra un’alta carica dello Stato in quanto alta carica dello Stato, e in pratica può tradursi in impunità per la sua reiterabilità, ma questa non è “retroattività”: usando impropriamente il termine si cerca il pleonasmo (***), come se il privilegio non facesse già schifo di suo.



(*) In realtà, non avrebbe senso chiamarlo “lodo” perché, come è stato fatto notare da più d’uno, non c’è stato compromesso né transazione tra maggioranza e opposizione, né a esprimerlo è stata una autorità arbitrale previo accordo tra le parti. Non ha senso neppure chiamarlo “lodo Alfano”: il Guardasigilli in carica si limita a riproporre per altra via una legge varata nel 2003 su proposta di Maccanico e dichiarata incostituzionale nel 2004, poi varata ancora nel 2008 su proposta dello stesso Alfano, con modifiche apportate da Schifani al “lodo Maccanico”, e ancora dichiarata incostituzionale nel 2009. Appena più corretto “lodo Alfano-bis”, ma non di molto.
(**) Quando depenalizza un reato, per esempio, la legge ha sempre effetto retroattivo, nel senso che solitamente fa cadere le ragioni perché continui ad avere effetto la pena comminata per quel reato, anche se commesso prima dell’entrata in vigore della legge: e non sarebbe ingiusto il contrario? “Nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali”: è da diciotto secoli che si ritiene ingiusto che una legge dichiari reato ciò che prima non lo era e congiuntamente stabilisca di comminare una pena a quanti l’abbiamo commesso prima che fosse tale; ma anche il contrario: non sarebbe ingiusto – e assurdo – che la pena comminata per un reato si protraesse oltre la sua depenalizzazione?
(***) Si cerca il pleonasmo quando ci si sente inadeguati a esprimere un sentimento (in questo caso, è indignazione). Si tratta di una ingenuità lessicale che rivela inadeguatezza. 

martedì 19 ottobre 2010

Non rovinare la magia


Come tutte le nevrosi ossessive, anche quella a sfondo religioso si esprime attraverso rituali: qui, la struttura compulsiva è riccamente strutturata e vien detta liturgia. Solo la massima fedeltà a un certo tipo di procedure rituali assicura una congrua difesa al nevrotico ossessivo, e solo un attentissimo rispetto della tradizione liturgica assicura al cattolico un po’ di sollievo. Qui siamo a ciò che il cattolico racchiude nella formula “lex orandi est lex credendi”: anche qui, come in tutte le altre nevrosi ossessive, la conversione ha una funzione altamente simbolizzatrice e il corpo (postura, gesto, abito, ecc.) ne incarna i significanti. L’importanza di un certo colore di arredo e di paramento secondo l’occasione, di un certo tipo di formule e di musica, questa logistica e questa dinamica sacramentale invece che quelle – l’importanza dell’altezza da terra dell’orlo del piviale – sono tanto più cazzate quanto meno si è cattolici. Più la nevrosi ossessiva è grave, più il rituale è rigido. Più è rigido, più è magico. La perfetta fedeltà liturgica è il perfetto credo in una certa intercessione: lo scrupoloso rispetto delle procedure rituali realizza la magia.
Al contrario, se maltratti la liturgia, rovini la magia e allora non trovi pace neanche dopo morto, quasi vengono a pisciarti sulla tomba.