martedì 2 novembre 2010

Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud, Mondadori 2010



“Non c’è nulla di più sgradito che venire maltrattati da chi si crede di aiutare. Chi non era capace di capire la differenza tra la libertà appena ricevuta e la schiavitù subita per secoli andava trattato alla stregua di una belva” (Il sangue del Sud, Mondadori 2010 – pag. 94). Con la consueta chiarezza che non cede mai al comodo semplicismo – anzi, vedremo quanto complesso sia ciò che è descritto in modo chiaro – Giordano Bruno Guerri riesce a stringere in quattro righe il movente psicologico che armò l’esercito del neonato Regno d’Italia contro quanti nelle Due Sicilie rifiutarono uno Stato unitario, cercando di sabotarlo. Non è detto che davvero si aiuti “chi si crede di aiutare”, come minimo perché l’aiuto può anche non essere considerato tale, fino alla possibilità che oggettivamente non sia tale. Già, ma cos’è – sul piano storiografico – l’oggettività? Tranquillo, lettore, non sto per prendere la tangente: rimango sul libro di Guerri che mi hai chiesto di recensire.
Il fatto è che l’oggettività dell’aiuto che al Sud venne dal Nord è rappresentato come tale già nel suo sottotitolo, che è Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio: la maiuscola per Risorgimento e la minuscola per brigantaggio. Sarà stata una guerra civile, non c’è dubbio, e sarà stata anche crudelissima come tutte le guerre civili, non mancano i documenti che lo provano, ma i perdenti non avevano neppure un movimento degno di maiuscola. Non è così solo in Guerri: sfogliando la ricchissima bibliografia (pagg. 263-276) non si trova un solo Brigantaggio nei titoli, solo brigantaggio, come un fenomeno senza un’idea interna, come fatto non privo di motivi, ma senza una ratio. Ecco in cosa concorda – unanimemente – la storiografia (anche nelle sue degenerazioni neoborboniche e neosanfediste): i briganti erano in campo senza un’idea, fedeli a Francischiello e al Papa, senza dubbio, ma del brigantaggio si può dire che fu animato da queste fedeltà?
Ma leviamo pure l’elemento emotivo, e dunque retorico, della fedeltà: dietro ai briganti c’era un progetto di società capace di competere con quello espresso dalla nobiltà e dalla borghesia del Nord? L’esito della guerra civile era già tutto nella sconfitta militare subita dallo Stato Pontificio e dal Regno delle Due Sicilie, sennò come sarebbe stato possibile tanto a Mille sfessati? Ciò che muoveva Garibaldi era più forte di ciò aveva mosso Pisacane: oggettivamente Garibaldi portava aiuto, oggettivamente Pisacane no. O meglio: così parve alle genti del Sud. Quanta resistenza fu opposta alla risalita di Garibaldi da Marsala a Napoli? Calatafimi, e poi?

Il movente psicologico che armò il Nord “invasore” contro il Sud “ribelle” era tutto nella sgradevolezza del maltrattamento, che non era stato messo in conto. Il Nord capì che la soggezione e la superstizione avevano reso il Sud per sempre refrattario alla voglia di libertà, mai disgiunta dalla corrispettiva responsabilità, ma lo capì solo a Unità raggiunta, e “potremmo chiamarla la sindrome del «chi me l’ha fatto fare?»” (pag. 5). La delusione provocò una reazione spietata.
La pietas umana può essere tenuta sotto controllo solo fino a un certo punto, poi traspare, quasi sempre in favore dei perdenti: questo è molto bello e accade anche in Guerri. E tuttavia, se in questo libro i briganti trovano modo di chiarire i loro motivi, la ratio di chi li massacrò trova modo di chiarire che non ci fosse altra soluzione che il massacro, perché nel brigantaggio confluivano le trame della Chiesa e dei Borboni contro il nuovo Regno d’Italia (cfr. Cap. VIII – La Chiesa, i Borboni e i briganti – pagg. 107-122): si trattava del proseguimento del Risorgimento, la sua coda feroce e insanguinata.
“Una Unità mal condotta e peggio proseguita” (pag. 252), certo, ma “grazie all’Unità – attraverso un processo lungo, faticoso e non ancora terminato – l’Italia è diventata un grande Paese. Non lo sarebbe mai stata senza il Risorgimento” (pag. 253). Poi c’è da tenere presente – e questo è davvero inquietante – che, mentre il brigantaggio nasce come strumento di una possibile restaurazione clericale e borbonica, finisce per diventare icona, “almeno fino agli anni Sessanta del Novecento, [di] sindacalisti, contadini e braccianti alle prese con rivendicazioni, scioperi, battaglie [sicché] una certa estetica della guerriglia mise sullo stesso piano Carmine Crocco e Che Guevara [come se fosse possibile assurgere i briganti] al rango di mitici combattenti per la libertà” (pag. 260), volti a quell’emancipazione della plebe meridionale che Chiesa e Borboni non avrebbero mai permesso: esito paradossale del mito del brigantaggio, che sul piano sociale residua invece in delinquenza organizzata nelle forme della mafia, della ’drangheta e della camorra.
Guerriglieri e criminali, però, si combattono con le stesse armi.

lunedì 1 novembre 2010

A quanti farebbe comodo che tacesse per sempre?


Ruby avrebbe bisogno di una scorta, come ne avrebbe avuto bisogno Brenda.

 

La famiglia-base-del-consorzio-civile



“Quella prima pagella, alle elementari, non la scorderò mai. Non perché i voti fossero tanto brutti o tanto belli, ma perché in prima pagina, in calligrafia arzigogolata, c’era scritto: «Giordano Bruno Guerri, figlio di Gina Guerri e di N.N.»: cioè di nessuno. Figlio di padre ignoto. Invece io il babbo ce l’avevo, eccome, e tornava a casa tutte le sere, e mi copriva di coccole e mi voleva bene. Solo che in quegli anni - parlo dei metà Cinquanta - il diritto di famiglia era crudelissimo, spietato. Mio padre aveva avuto un matrimonio, di divorzio neanche a parlarne, ed esisteva una tremenda legge sul concubinaggio per cui se avesse riconosciuto un figlio convivente e nato fuori dal matrimonio sarebbe finito in galera, come un delinquente qualsiasi. Ora, a mezzo secolo di distanza, non farò del colore lacrimoso sulla mia umiliazione e i miei tormenti di bambino, su come la faccenda dell’N.N. si riseppe subito in classe, su come la crudeltà degli altri bambini infierisse e su come per anni - anni, tutta la mia infanzia - io abbia aspettato le pagelle come uno schiaffo pubblico dal quale non mi potevo difendere. Neppure il mio forte, grande babbo, mi poteva difendere, perché lui non esisteva, era N.N., nessuno. È orribile pensare a quale ferocia possano arrivare uno Stato, una società, nell’intento di difendere la moralità pubblica, il perbenismo, la famiglia-base-del-consorzio-civile”

Giordano Bruno Guerri, il Giornale, 30.10.2010

“Dracula all’Avis”


Il bunga-bunga ha messo in ombra molte notizie degne di attenzione, per esempio la nomina a garante dei diritti dei detenuti di Roma che Gianni Alemanno ha deciso in favore di Vincenzo Lo Cascio, persona vicinissima a Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Rozzo ma efficace, Francesco Storace ha commentato: “Ci aspettiamo che, coerentemente, Alemanno nomini Dracula all’Avis”.
In altri tempi, a destra, si sarebbe aperto un dibattito sulla filosofia che informa il criterio corporativistico delle rappresentanze. Sarebbe finito a sediate in faccia, ma il dibattito si sarebbe aperto.

Zaccheo: molto ricco, molto peccatore e basso di statura


Per chi crede al caso, è un caso, ma chi dietro al caso sa vedere la divina provvidenza non può che rimanere affascinato dal fatto che ieri – proprio ieri – la liturgia della domenica prevedesse una meditazione sull’episodio evangelico di Zaccheo (molto ricco, molto peccatore e basso di statura), al quale Gesù perdona ogni peccato previa consistente elargizione. C’è da segnalare solo lieve discrepanza tra il testo del Vangelo, dove si legge che Zaccheo elargisce “la metà dei miei beni” (Lc 19, 8), e quello che Benedetto XVI sceglie a commento: “diede via la sua ricchezza” (S. Girolamo, Omelia sul Salmo 83, 3), intendendo “tutta”. Insomma, la Chiesa offre il perdono a Silvio Berlusconi, c’è solo da discutere sul prezzo: tutto il suo patrimonio, calcolato intorno agli otto miliardi di euro, o solo la metà?

Si scherza, naturalmente, non ci è dato far altro: la Ruby gli costa molto di più della Patrizia o della Noemi, siamo costretti a constatare che l’anima del povero premier ha piena ipostasi nelle sue sorti politiche. Anche per questo il declino di Silvio Berlusconi sembrerebbe ormai inevitabile, perché, se fino a ieri se la cavava con qualche leggina, qualche sgravio fiscale, un po’ di soldi alle scuole dei preti e un baciamano al papa, adesso il perdono della Chiesa gli costerebbe addirittura il doppio di quanto a Zaccheo costò quello di Gesù.

domenica 31 ottobre 2010

Farinacci


Anche Giordano Bruno Guerri (il Giornale, 31.10.2010), come Giorgio Israel (Il fascismo e la razza, Il Mulino 2010), pensa che nel 1938 gli italiani fossero razzisti, che il razzismo in Italia non fosse solo il “fenomeno secondario” di un nuovo progetto di società ma un carattere identitario, e che questo spiega perché le leggi razziali furono accolte senza mugugni, anzi perfino con qualche entusiasmo. Mentre con Israel non si capisce bene donde venga, questo antisemitismo, con Guerri abbiamo la spiegazione data dal fascistissimo Roberto Farinacci: “Se, come cattolici, siamo divenuti antisemiti, lo dobbiamo agli insegnamenti che ci furono dati dalla Chiesa durante venti secoli. […] Noi non possiamo nel giro di poche settimane rinunciare a quella coscienza antisemita che la Chiesa ci ha formato lungo i millenni”. Adeguarsi alle richieste di Hitler non costava niente: è sulla tradizione dell’antigiudaismo cristiano che l’Italia cattolica diventava ecumenicamente antisemita con la Germania luterana.

Se no, no



Intervistato da Stefano Lorenzetto per Panorama (4.11.2010 - pagg. 38-44), Ettore Gotti Tedeschi si riposiziona: a botta calda aveva detto che non si trattava di riciclaggio, che si trattava di un errore fatto da chissà chi, ma non da lui, non dallo Ior, nemmeno dal Vaticano –  e chissà chi intendeva usarlo – non v’era dubbio che vi fosse per attaccare lui, lo Ior e il Vaticano; ora concede che, forse sì, si tratta di riciclaggio, ma che lui non centra, e che il responsabile potrebbe, forse sì, essere uomo dello Ior e/o del Vaticano, ma che né Ior né Vaticano centrano niente, non posso entrarci, sempre innocenti in partenza. Il dispositivo retorico è lo stesso usato per i preti pedofili appena si scopre che sono pedofili, smettono di essere preti e qui dovrebbe convincerci che il denaro nella piena disponibilità del Vaticano può essere sporco solo quando quella disponibilità non è piena: quando cè ipotesi di illecito bancario, insomma, la banca che per definizione è strumento del bene non può aver commesso il male e, dunque, se si constata un illecito, chiunque sia lautore, non conta che a trarne utile siano stati lo Ior e il Vaticano: in partenza, sono da considerare vittime dellillecito, se dellillecito si ha notizia. Se no, no.

Il grafico si è fatto le ossa a Postalmarket



“Ingeritevi”


Di recente ha avuto il mandato di rievangelizzare l’Europa e muove i primi passi alla guida del dicastero che gli hanno cucito addosso ad hoc. Fa tenerezza, monsignor Rino Fisichella. Soddisfatto della promozione, senza dubbio, ma preso da un velo d’ansia, come se non sapesse da cosa cominciare: moltiplicare le processioni e le recite pubbliche del rosario oppure un bel dibattito pubblico con il presidente della Fondazione Italianieuropei? L’indugio ansioso è subito sciolto, vada per la seconda.
E dunque eccolo, il Fisichella. Si è sempre mosso più da mondano che da chierico, habitué di ogni girone alto della società secolarizzata, masticando più politica che teologia, più quotidiani che Bibbia: è lui che mandano a rievangelizzare l’Europa, probabilmente sanno già da cosa comincerà, lo avranno scelto proprio per questo. Da dove volete che cominci? Da un bel dibattito pubblico sul tema delle radici cristiane d’Europa, con Massimo D’Alema.

Mentre seguo il dibattito, mi viene da pensare a Peppone e don Camillo: si sono già spartiti Brescello, ma continuano a far finta di lottare, di fatto convivendo grazie a un patto, neanche tanto tacito… Faccio per vergognarmi di questa volgare analogia, ma è proprio il moderatore a proporla chiudendo il dibattito: Piero Schiavazzi paragona D’Alema e monsignor Fisichella proprio a Peppone e don Camillo, senza pudore. Citando Nadia Urbinati, Schiavazzi dice che “un certo grado di tensione tra la sfera civile e la sfera religiosa è fisiologico per la democrazia: questa dialettica non deve essere mai repressa, ma non può essere mai risolta”. Si è data replica dell’antico muso-contro-muso narrato da Guareschi, ma un minimo d’etica condivisa è possibile.
Non ha torto nel tirare queste conclusioni. Infatti, D’Alema ha detto che “l’Europa ha bisogno – in modo vitale, in questo momento – dell’apporto cristiano per restituire forza ai suoi valori e al suo progetto” e ha detto che per lui è stata una grande stronzata levare dalla Carta europea il riferimento alle radici cristiane d’Europa. E però ha detto pure che bisogna fare un compromesso (una vera mania, da Togliatti a Berlinguer, e oltre): i non credenti devono riconoscere che “la fede religiosa è un lievito essenziale per una società più giusta, per una comunità autenticamente umana”; e i credenti devono riconoscere che “non c’è un monopolio dell’etica, [e che] ragioni integralmente umane possono fondare un impegno personale, civile, politico coerente con i principi etici”.
Ha letto i più recenti documenti ufficiali del magistero sociale della Santa Sede, ha letto le ultime prolusioni della Conferenza episcopale italiana – ha tenuto a far sapere, come se un politico potesse farne a meno, ma lui no, perché è D’Alema – ed è tutta roba che gli è piaciuta; e rammenta l’udienza che Giovanni Paolo II gli concesse (non rammenta la sua presenza in San Pietro alla canonizzazione del fondatore dell’Opus Dei, vabbe’, non si può rammentare tutto); e, insomma, non avendo una zia suora, cerca come può di far capire che ha comunque le referenze per un dialogo con il mondo cattolico, anche se si è sempre dichiarato non credente.
Dialogo che vorrebbe in esclusiva: chiede che la Chiesa molli quei politici che intenderebbero “usare il cristianesimo come ideologia dell’occidente”. Poi, dopo una mezza dozzina di ellissi che vanno a convergere su Berlusconi: “Lasciate che io dica esattamente il contrario di quello che ci si potrebbe aspettare di ascoltare da me. Altro che chiedere alla Chiesa e al mondo cattolico di non ingerirsi. Io direi: ingeritevi. Se non ora, quando?”.

Eccoci al cuore della questione che sta dietro a tutte le magniloquenze: D’Alema chiede alla Chiesa un aiutino. E tuttavia, quando fa riferimento a “quel cristianesimo che annuncia la liberazione dell’uomo”, mostra di non capire che arriva in gran ritardo: quel tipo di cristianesimo è stato bollato come poco cristocentrico, adesso va di moda un altro cristianesimo. Mostra di non capire che la Chiesa non potrà mai rinunciare al monopolio dell’etica, non potrà mai negoziare su quanto non ritiene negoziabile, non potrà mai consentire che ragioni integralmente umane estrudano il trascendente dalla nomopoietica. Insomma, D’Alema mostra di non aver capito un cazzo della Chiesa degli ultimi trent’anni. Peggio: pensa che il pragmatismo che il suo compare Amato ricicla dal pragmatismo di Acquaviva possa tornar buono a stabilire un nuovo patto con le gerarchie ecclesistiche, come, quando e se il blocco sociale di questo centrodestra dovesse sfaldarsi costringendo Santa Sede e Cei a riposizionarsi. Pia illusione, ma vediamo da dove muove.

“L’Europa rischia di smarrire i suoi valori” e, se li perde, “perde la sua forza maggiore”. E quali sono? Per Massimo D’Alema sono la libertà e la tolleranza. Si può convenire, come no, ma precisando che si tratta di valori che l’Europa ha scoperto solo assai tardi nelle forme comunemente intese oggi. Infatti, bisogna far subito chiarezza: la libertà di cui parla D’Alema include o no quei diritti non ritenuti tali prima della rivoluzione americana e di quella francese? Immagino non si tratti della libertà di cui ci parla il Socrate di Platone, penso non sia la libertà che si esaurisce nella definizione che ne avrebbe dato Seneca; forse non è neppure la libertà per come è intesa nel Sillabo di Pio IX. Idem per la tolleranza: suppongo che D’Alema pensi più a Voltaire che a Marco Aurelio; quando dice tolleranza, credo intenda più quella mostrata dai musulmani verso i cristiani nella Sicilia sotto l’islam che quella mostrata dal Papato verso gli ebrei dal IV al XIX secolo. Sulla libertà di coscienza, sulla libertà di parola e di stampa, sulla stessa democrazia e perfino sullo stesso liberalismo, la Chiesa cattolica è venuta a dover cambiare idea e il cambiamento non è venuto dal suo interno ma dalle cannonate avute dall’esterno: fino a poco più di un secolo fa considerava la libertà di parola e la democrazia come due cancri della società. E dunque?


A parte Quell’“ingeritevi” è poco appropriato: si sono già ingeriti l’ingeribile, non ha senso l’appello. Su ciò che non mettono bocca – hanno fatto il loro calcolo, lo rifaranno solo se cambiassero le circostanze – non vogliono mettercela: non si riuscirà ad ottenerne i favori, sono e si sentono troppo forti, e a ragione. Quando Fisichella assolveva Berlusconi dal peccato mortale di blasfemia invitando a considerare il contesto, il contesto non era la barzelletta che conteneva la bestemmia, ma il quadro sociopolitico che contiene questo Berlusconi e questa Chiesa italiana non ancora del tutto post-ruiniana. D’Alema davvero non ha capito niente di cosa è accaduto alla Chiesa negli ultimi decenni.

sabato 30 ottobre 2010

“Rispettosa prudenza”


Si può capire che Sandro Bondi rimproveri a Famiglia Cristiana di “aver superato i limiti della correttezza” – l’editoriale in edicola è prossimo all’insulto – ma non si capisce perché le rimproveri la mancanza della “rispettosa prudenza propria dei cattolici”. Sarà mica una larvata minaccia?
In questione, per chi si ispiri al magistero della Chiesa, è il profilo di una figura pubblica che dovrebbe essere esemplare: quale “rispettosa prudenza” è richiesta a Famiglia Cristiana al riguardo? Sospendere il giudizio su fatti che, per l’essere di dominio pubblico, sono di cattivo esempio all’elettorato cattolico? Ma sarebbe come pretendere che il magistero taccia sullo scandaloso modello morale che sta nel consentire a ciascuno di morire come e quando voglia. E dov’era Sandro Bondi quando c’era da rimproverare ai politici cattolici del suo partito la mancanza di “rispettosa prudenza” nel dare dell’assassino a Beppino Englaro?


“Antica mitologia”


Voi saprete che i cristiani sono perseguitati in molti paesi, per lo più dagli indigeni, per lo più membri di altre confessioni religiose: sono sgozzati dai musulmani in alcuni paesi di tradizione islamica, bruciati vivi dagli indù in India, ecc. In ciò si realizza – consentitemi l’inciso – uno dei punti bassi di quella sinusoide che parrebbe essere destino dei cristiani: essere perseguitati, perseguitare, essere perseguitati… Credete che, se non fossero almeno po’ perseguitati, non prenderebbero a perseguitare? Concesso, ma significherebbe che hanno perso il vizio che musulmani e indù non hanno ancora perso. Chiuso l’inciso.
Ora, ciò che nei cristiani v’è di ammirevole sta nella disarmata mitezza con la quale subiscono le persecuzioni in paesi di tradizione non cristiana da membri di altre confessioni, continuando a tendere la mano in segno di amicizia, chiedendo e offrendo rispetto per le reciproche differenze. Ne dà prova il messaggio di auguri che il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso ha inviato agli indù per la festa di Dipavali, che la Sala Stampa della Santa Sede ha detto essere “simbolicamente fondata su un’antica mitologia”.
Bene, ciò è corretto: il Dipavali (da dipa, lampade) prende origine da un episodio della vita di Rama, quando al ritorno dal suo esilio ogni abitante di Ayodhya accese in suo onore una lampada all’uscio di casa. “Antica mitologia”? Può darsi, ma non più dell’episodio in cui Gesù disse al primo Papa: “Su di te edificherò la mia chiesa” (Mt 16, 18).
Ora provate a dire ad un papista che il Papato regge su un  mitologia e vedete se non gli vengono le crisi epilettiche: state delegittimando il mandato che sta nella Successione Apostolica, come minimo siete degli schifosi luterani. E che facevano i papisti ai luterani quando stavano in cima all’onda sulla sinusoide? E dunque: se qualche indù si offende a sentirsi degradare a mito il suo Rama e gli viene lo stesso tipo di epilessia...?

“La Ruby dice che sei come la Caritas...”


“La Ruby dice che sei come la Caritas. Tu confermi, dici che sei di buon cuore. Nulla osta al fatto che io non abbia tette, vero? Bene, anch’io ho dei problemini: metti 10.000 euro nella busta, filantropo”.

Si dovrebbero comporre ordinate file di cittadini, ciascuno con la sua busta in mano, all’uscio di ogni residenza del nostro caritatevole presidente, Palazzo Grazioli, Arcore e le altre diciotto. Ma file lunghe chilometri.


giovedì 28 ottobre 2010

Un qualche Ugubaldo


I froci non figliano, fanno invecchiare la società e rovinano Inps. E sono di cattivo esempio: vedi un frocio e ti viene la tentazione di imitarlo. E fanno cose contro Dio e la Natura, scegliete cosa sia peggio, a piacere. Insomma, sono inutili a se stessi e dannosi alla società. Se non lo fanno perché sono cattivi, è perché sono malati: mazzate o cure psichiatriche, dipende dalla scuola di pensiero. Tolti dal mallo del lessico alto, sono questi in nuce gli argomenti che stanno tra dottrina morale e dottrina sociale per ciò che attiene alla questione omosessuale: è solo secondariamente omofobia, perché, levando anche il guscio, troviamo la teoria di un uomo preordinato e con due sole scelte: retto o deviato. Piglia un’omelia del cardinal Carlo Caffarra, una conferenza di Ettore Gotti Tedeschi, un libro di Marcello Pera, un editoriale di Giuliano Ferrara, un pippone di Claudio Risè: leva il superfluo e ottieni il branco che pesta il gay, stessa violenza e stessa tautologia. Che senso ha fare una legge che aumenti le pene per quei reati consumati con l’aggravante dell’odio omofobo? Finché certi argomenti continueranno a camminare su gambe non azzoppate da un po’ di froci un po’ incazzati, Rocco Buttiglione potrà continuare a esprimersi nelle categorie della filosofia medievale. Ci sarà pure un qualche Ugubaldo che a cavalcioni di Aristotele teorizzi la correlazione tra sodomia e cattivo raccolto: ecco, quello sarà il filosofo di cui lodare la straordinaria attualità. Se l’ha detto Ugubaldo, che non fu mai azzoppato...  

In fondo sono pezzentelli


Certe notizie mi turbano forse più di quanto meriterebbero. Ma qui siamo di fronte a un nababbo che regala un dono da 500-600 euro a un multimilionario che poi se lo rivende ad un terzo del suo valore. Senza averne mai fatto uso. Conservandone per anni la confezione.

Gli elettroliti


Il IX Congresso di Radicali italiani si aprirà domani, a Chianciano Terme, quando Marco Pannella sarà al 28° giorno di sciopero della fame e al 3° di quello della sete, e dunque si esaurirà tutto in liturgia: l’ulteriore calo degli iscritti e le sempre più drammatiche difficoltà economiche del partito non avranno modo di essere trattati come problemi politici, al più se ne farà cenno come epifenomeno del suo raggrinzimento fisico. Ancora una volta i congressisti saranno precettati al sacramento della comunione radicale, che è il momento in cui si celebra la coincidenza del corpo della setta nel corpo del suo capo, sprecando ancora una volta l’occasione di mettere in discussione la struttura della cosa radicale, fatta così consustanziale in cosa pannelliana. I problemi politici saranno così trasfigurati, come sempre, ma anche sfigurati, come al solito. Perché si tratterebbe di un partito che si dice laico, ma ha natura ecclesiale, che si dice democratico, ma è a guida carismatica, che si dice liberale, ma quando mai.
Per cinque giorni, dal 29 ottobre al 1° novembre, “Marco, mangia!”, “Bevi almeno!”, “Marco, fa’ quello che credi giusto, ma sappi che siamo in forte apprensione”… Poi senza dubbio accadrà qualcosa di inaspettato, Tarek Aziz sarà graziato, Tony Blair si slogherà una caviglia, Giorgio Napolitano manderà una lettera a Marco Pannella, insomma, da tutto l’inaspettato qualcosa ci si potrà aspettare? E sarà quello che lo farà mangiare o almeno bere, col generale sollievo dell’assise che avrà così risolto le ragioni della convocazione: “Andate in pace, il congresso è finito”, il partito è sempre più nella merda, ma gli elettroliti sono tutti nei limiti.

A parte Entrando in coma, Daniele Capezzone avrebbe potuto prendersi una grande rivincita su Marco Pannella, oscurandogli la celebrazione eucaristica di Chianciano. Ma il ragazzo è incapace di covare vendette, tutt’al più di trascinare la sua esistenza in una piatta sequenza di comunicati stampa e dichiarazioni ai tg.


mercoledì 27 ottobre 2010

Il problema morale


Quando la malafede è tanto palese, quasi esibita con fierezza, passa la voglia di biasimarla: il giudizio morale, che è la dannata tentazione di chi osserva le vicende umane, indugia, come se il biasimo risultasse tanto facile da poter essere ingannevolmente ovvio. Viene voglia, in questi casi, di mettere da parte l’indignazione e armarsi di altro criterio.
Si prenda la prima pagina de il Giornale di mercoledì 27 ottobre: “Fini è indagato ma l’hanno nascosto”. Dovrebbe trattarsi del fatto che la Procura di Roma si è decisa ad archiviare il caso che poneva l’ipotesi di truffa nell’affare Montecarlo: cadono tutte illazioni sulle quali il quotidiano aveva imbastito una campagna durata mesi, ma nel titolo non ve n’è notizia. Anzi, proprio nel momento in cui l’indagine si conclude, e con l’accertamento che l’indagato è estraneo ad ogni genere di colpa o dolo, perché di fatto non sussiste circostanza di contravvenzione o reato, il Giornale annuncia che “Fini è indagato”, come se l’indagine fosse ancora in corso e dunque l’esito fosse ancora incerto.
Un po’ meno disonesto sarebbe stato un “Fini era indagato ma l’hanno nascosto”, ma il fatto è che il nascondimento non è mai stato tale: la giustizia dovrebbe poter funzionare in questo modo e c’è da lamentarsi di quando non è così, non del contrario.

Quando la malafede è tanto palese, non la si può liquidare con un po’ di disprezzo: da chi fa questa merda di giornalismo l’attenzione deve spostarsi alla merda di lettore che vi è affezionato, perché l’uno senza l’altro non ha senso. Ci dev’essere un lettore – è evidente – che a tanta palese malafede non batte ciglio, anzi, è proprio quella che vuole e cerca e trova: il Giornale non fa che offrirgliela. Ecco che trattenere il biasimo verso i Feltri, i Sallusti, i Porro non è stato vano: abbiamo individuato altrove il problema morale.


martedì 26 ottobre 2010

Supplica




“Tra volontà di vivere a qualunque costo e atonia morale non c’è discrepanza”
Guido Ceronetti, Albergo Italia, Einaudi 1985 – pag. 56

Dio mi è testimone che Filippo Facci mi è simpatico fin dentro l’intimo. È wagneriano, vabbe’, nessuno è perfetto, ma tutto il resto in quel ragazzo è delizioso: è adorabile pure quando esagera. E tuttavia sarebbe venuto il momento che la smettesse con quel suo tormentone su quanto sia assurdo che una stellina del varietà possa diventare ministro a due soli anni dall’ultima scosciata: abbiamo capito, siamo d’accordo, non è necessario ripeterlo se non si ha niente da dire. Dovrebbe rimembrare – consiglio due o tre scale cromatiche di sottofondo – che non è passato molto tempo dall’ultima volta che ha rubacchiato dallo scaffale di un supermarket al momento in cui è diventato la più brillante firma del garantismo craxiano. Via, un po’ di indulgenza per la povera Mara! Alla poverina vengono gli sfoghi di pelle ogni volta – e via, basta.


Capezzone piglia un cazzotto in faccia

Non si fa, è reato.

Update




“La principale ideologia di oggi”


Il Foglio dedica un paginone al repulisti che, nell’anno appena trascorso dal suo insediamento, monsignor Giampaolo Crepaldi ha fatto nella diocesi di Trieste, anzi, nel giornalino diocesano: ha cambiato il direttore e ha fatto levare la rubrica delle lettere che aveva ospitato opinioni non ortodosse. Sembra poco, quasi niente, ma adesso Claudio Magris non potrà più vedervi pubblicate le sue e-mail, e chissà quanto ne soffrirà, e ciò che fa soffrire Claudio Magris non può che far godere Il Foglio, e insomma il paginone era dovuto.
Al netto delle slinguazzate a Sua Eccellenza che arrivano all’involontaria ironia di un titolo che recita C’è dottrina a Trieste, l’articolone a firma di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro (in due ci si controlla meglio, a vicenda) un pregio ce l’ha: riporta un brano della prima omelia di monsignor Crepaldi da vescovo di quella diocesi (4.10.2009), che è un potente attacco al riduzionismo (“la principale ideologia di oggi”).
“La persona viene ridotta ai suoi geni o ai suoi neuroni – lamenta Sua Eccellenza – l’amore è ridotto a chimica, la famiglia viene ridotta a un accordo, i diritti vengono ridotti a desideri, la democrazia viene ridotta a procedura, la religione viene ridotta a mito, la procreazione viene ridotta a produzione in laboratorio, il sapere viene ridotto a scienza e la scienza viene ridotta a esperimento, i valori morali vengono ridotti a scelte, le culture vengono ridotte a opinioni, la verità è ridotta a sensazione, l’autenticità viene ridotta a coerenza con la propria autoaffermazione”.
Qui il testo è interrotto da quei puntini sospensivi che sul giornale di Giuliano Ferrara sono un irresistibile invito al testo integrale, dove in questo caso si scopre che si è levato: “Sono tanti i riduzionisti del nostro tempo, che tolgono ossigeno alle nostre anime”. Duretto, senza dubbio, e però si è levato il meglio: i riduzionisti non si limitano all’errore, ma sono pericolosi. Non è dato sapere come possano asfissiare le anime dei non riduzionisti, Sua Eccellenza non lo dice, ma questo sarà un dettaglio, e perciò Il Foglio sorvola anche sul cenno. Rimane la curiosità: se riduzionisticamente concepisco la mia famiglia come una rete di accordi amorosi e non solo, e se i membri della mia famiglia accordano sugli accordi, chi asfissiamo?