lunedì 8 ottobre 2012

Che cazzo ha fatto per meritare un simile trattamento?

Tra i commenti agli ultimi post trovo un off-topic che mi invita a fare qualche ipotesi sul perché monsignor Charles Scicluna sia improvvisamente caduto in disgrazia, rimosso senza preavviso, contro ogni previsione, dall’incarico di promotore di giustizia della Congregazione per la Dottrina della Fede – col quale s’era guadagnato fama di duro nella lotta agli abusi sessuali commessi dal clero cattolico ai danni di minori, dunque esibito come fiore all’occhiello della tanto reclamizzata svolta intransigente voluta da Benedetto XVI per dare una soluzione definitiva al problema – per essere sbattuto a La Valletta, degradato a vescovo ausiliare, per giunta con decreto pubblicato nel giorno in cui i riflettori erano puntati sulla sentenza del processo a Paolo Gabriele, come nel tentativo di evitare troppe chiacchiere su quella che aveva tutti i caratteri formali della punizione esemplare. Che cazzo ha fatto per meritare un simile trattamento?

[Sul blog degli «amici di Papa Ratzinger» la questione è affrontata con una venatura di sconcerto. «Perché il Papa ha ridimensionato un suo così stretto e fidato collaboratore?». «Non ho elementi per fare un commento, per ora mi limito a ringraziare monsignor Scicluna per il suo lavoro». «L’uomo simbolo della lotta agli abusi, il prelato più vicino a Joseph Ratzinger nel combattere la pedofilia clericale e la mentalità che la vuole coprire, poteva essere “promosso” senza allontanarlo dal Vaticano». «Malta è un serbatoio di fede dove la pedofilia ha fatto male, magari è stato mandato lì semplicemente come segnale di intento di pulizia anche sul territorio». «Però se ne va dopo aver criticato alcune conferenze episcopali, compresa quella italiana». «Bando alle dietrologie, monsignor Scicluna ha terminato la sua missione e ora tocca alle conferenze episcopali agire secondo le linee guida, assumendosi onori, oneri e responsabilità». Che tenerezza.]

Penso di avere una spiegazione. Il 4 e il 5 settembre, a Twickenham, nel Regno Unito, presso il St. Mary’s University College, si è tenuto un incontro sul tema «Redeeming Power: Overcoming Abuse in Church and Society», al quale ha preso parte anche monsignor Scicluna. Alla fine dei lavori Sua Eccellenza ha concesso un’intervista a Radio Vaticana, nella quale ha fatto un’affermazione apparentemente anodina, ma che a qualche orecchio dev’essere sembrata degna del più puzzolente tra i laicisti: ha detto che l’abuso sessuale sui minori è «conseguenza» dell’abuso di potere, che è affermazione carica di gravissime implicazioni. Perché una cosa è andare a caccia di preti pedofili, additandoli come peccatori che infangano l’abito che portano addosso, un’altra è spiegare il loro peccato come uno degli effetti indesiderati del potere che Dio ha concesso al pastore sulle sue pecore. Sarà stato uno svarione, ma ha rivelato in Scicluna un errore teologico, che la carica ricoperta avrebbe potuto rivelare pericoloso. Perché un promotore di giustizia della Congregazione per la Dottrina della Fede fa funzione di pubblico ministero, ma nella Chiesa di Roma c’è sovrapposizione e coincidenza tra il potere giudiziario, quello esecutivo e quello legislativo: un crimen tanto odioso come la pedofilia non può essere in alcun modo «conseguenza», ancorché degenerata, del potere: deve rimanere, come si è sempre detto, un delitto contro la Chiesa: mai, in nessun caso, della Chiesa.

Il governo tecnico ha commesso un errore tecnico

Volendo semplificare la complessità delle motivazioni che hanno portato il Consiglio di Stato a bocciare il decreto che dal 2013 avrebbe comportato un consistente taglio dell’esenzione fiscale fin qui goduta dal clero sui suoi immobili, potremmo dire che il governo tecnico ha commesso un errore tecnico. Delle due, una. O hanno fama di professoroni ma al governo abbiamo dei coglioni. O la fama è meritata e i coglioni sono quanti avevano creduto che l’idea di far pagare il dovuto al clero fosse questione squisitamente politica.

[...]

«In nome di Sua Santità, Benedetto XVI, gloriosamente regnante, il Tribunale, invocata la Santissima Trinità, ha pronunciato la seguente sentenza…».
Può bastarci questo: una sentenza pronunciata in nome del monarca (monarca assoluto, in questo caso), previa invocazione a Dio (chiamato ad assistere la decisione del giudice, al quale evidentemente mancava la luce necessaria a illuminare i fatti). Un salto nel passato, di secoli, da brivido.
Poi, si può sorridere, perché «gloriosamente regnante», detto di Zia Pina, ha il sapore di una feroce presa per il culo. Infine, col giudice che dice «visti gli art. 402, 403 n.1 e 404 primo comma n.1 c.p.», si può scoppiare a ridere, pancia in mano. Quel c.p., infatti, altro non è che uno Zanardelli con le toppe, un coso che all’inaugurazione dell’80° anno giudiziario, tre anni fa, nel 2009, era un sentito dire nemmeno mai messo nero su bianco: «Si provveda – fu il sollecito – a stampare l’ordinamento giudiziario, i codici di procedura civile e di procedura penale, nonché il codice penale nei testi attualmente vigenti nello Stato Vaticano». Il giudice che ha condannato Paolo Gabriele deve avere il polpastrello sporco di inchiostro tanto il c.p. era fresco di stampa.
Se questa è la giustizia amministrata in terra dal Vicario di Cristo, il Giudizio Universale somiglierà a una sala-bingo.  

domenica 7 ottobre 2012

Ladri in casa del Papa


«Si è parlato molto, giustamente, del processo a Paolo Gabriele. Giustamente perché l’oggetto del giudizio, a parte l’inusualità dell’evento in sé – un processo penale in Vaticano non si vedeva probabilmente da oltre un anno – riguardava una materia, il “furto in casa del Papa”, inaudita e, francamente, inaudibile. Nel senso di inconcepibile, inimmaginabile, al di là della fantasia, se non fosse, com’è effettivamente, accaduto» (Avvenire, 7.10.2012).
Un furto di casa del Papa, in realtà, non è cosa inaudita. Anche se fu sempre smentito dagli organi ufficiali vaticani, è molto probabile che nel 1969 ci sia stato un precedente. Secondo alcuni si trattava di tre quadri (un Perugino, un Van der Weyden e un Mino da Fiesole), prontamente sostituiti con tre copie, ma alcuni avanzarono l’ipotesi che si trattasse di «documenti straordinariamente importanti» (di qui in poi quanto virgolettato è tratto dall’inchiesta che Pietro Zullino firmò per Epoca, XX/999, 16.11.1969 - pagg. 38-43). Secche, dicevamo, le smentite: don Pasquale Macchi, segretario particolare di Paolo VI, monsignor Fausto Vallainc, direttore della Sala Stampa Vaticana, e LOsservatore Romano (5.11.1969) reagirono prontamente, anche se con dichiarazioni non del tutto collimanti. Benny Lai, per esempio, annota nei suoi diari (Il “mio” Vaticano, Rubettino 2006 - pag. 424):



E tuttavia erano tempi in cui una smentita ufficiale della Santa Sede equivaleva allintimazione di non insistere, cè da comprendere la difficile situazione in cui precipita «il redattore dellagenzia romana che ha fatto il colpo [il quale] non ha più pace:  Il segreto professionale mi impedisce di rivelare le mie fonti – protesta – ma sono ottime fonti. Per quali ragioni dovrei rischiare un licenziamento propagando stupidaggini?».
Le fonti gli avevano rivelato che il furto cera stato tra la metà di luglio e la metà di settembre, mentre Paolo VI era a Castel Gandolfo e nei suoi appartamenti erano in corso dei lavori di manutenzione. Cosa fosse stato rubato, e chi l’avesse rubato, non si seppe mai. D’altra parte erano tempi in cui un furto non poteva essere acconciato, come oggi, nella pantomima della condanna a 18 mesi: a quei tempi – ci rammenta Pietro Zullino – «per il furto grave la pena vigente è ancora quella del vecchio Stato Pontificio, cioè la fucilazione».    

Bagattelle

L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina Editore, 2007) apriva con una lettera del cardinale Carlo Maria Martini a mo’ di prefazione, che Vito Mancuso assicura egli «scrisse sapendo che sarebbe stata pubblicata» (la Repubblica, 6.10.2012) e che invece Gianpaolo Salvini dice «non [fosse] destinata alla pubblicazione» e dunque sia stata pubblicata «con molta poca correttezza» (La Civiltà Cattolica, 3895, IV, 3-106). La polemica ha per tramite il blog di Sandro Magister, che ha ripreso l’accusa di Salvini, prima, e la replica di Mancuso, dopo. Con una significativa omissione: Mancuso scrive che il suo «blog [è] ormai diventato un avamposto del cattolicesimo più conservatore». La cosa è innegabile, sarà per questo che Magister non riporta e non contesta il giudizio. Rimane inspiegabile perché l’Espresso continui a servirsi di un vaticanista con le sue posizioni.

sabato 6 ottobre 2012

Il vizio del compromesso

Ieri, ad Assisi, Giorgio Napolitano ha tenuto un discorso nel quale i commentatori dell’attualità politica hanno cercato e trovato gli immancabili messaggi cifrati che di solito vengono intessuti nella filigrana della solenne retorica da cerimonia. Non è stato difficile individuarli e decriptarli per trovarli coerenti al ruolo che il Quirinale si è cucito addosso da poco più di un anno in qui: il Presidente della Repubblica vuole chiudere il suo settennato preparando il terreno ad una XVII legislatura da Große Koalition, con un governo di unità nazionale guidato da un garante super partes in grado di dar vita a una stagione costituente, nello spirito che non ha mai smesso di ispirare quanti hanno creduto nella convergenza dei più consistenti filoni culturali e politici italiani del Novecento.
Non è mia intenzione argomentare contro questa illusione, l’ho già fatto in più occasioni. Qui mi limiterò a dire che quei filoni hanno cominciato a farsi sempre più eterogenei già negli anni Ottanta, per sfilacciarsi e perdere i loro connotati sociologici negli anni Novanta (quelli culturali avevano subìto sensibili «variazioni» già negli anni Sessanta), per arrivare ad essere a formule vuote di sostanza già da parecchio prima che finisse il millennio: Giorgio Napolitano ripropone la reazione alchemica tentata già tante volte, senz’alcun esito significativo se non nell’amalgama consociativa. C’è, di più, che la Seconda Repubblica ha lasciato ai reagenti solo il loro vecchio nome, che Giorgio Napolitano fa bene a non citare. E tuttavia, sgusciandoli dal baccello, troviamo i soliti piselli gialli e grinzi: «La società italiana sta attraversando una fase di profonda incertezza ed inquietudine, nella quale sarebbe da rivisitare e più fortemente affermare la nozione di “bene comune” o quella di “interesse generale”»; «quel che in Italia acuisce l’incertezza e produce grave disorientamento è l’inadeguatezza del quadro politico ad offrire punti di riferimento, percorso come è da spinte centrifughe e tendenze alla frammentazione»; «i tanti fenomeni di degrado del costume e di scivolamento nell’illegalità, insieme ad annose inefficienze istituzionali ed amministrative, provocano un fuorviante rifiuto della politica»; «basta con contrapposizioni sterili e delegittimazioni reciproche che soffocano il nostro paese e la nostra società»; «dalla schiettezza del dialogo possono venire stimoli e un rilancio morale del paese, che oggi ne ha bisogno come in pochi altri momenti da quando ha ritrovato la libertà»; «[occorre] suscitare tra gli italiani una più diffusa presa di coscienza e mobilitazione morale e civile». Come in Gramsci, in Togliatti e in Berlinguer, è sempre un’emergenza a porre la necessità di mediare: si fa fatica a capire che ogni emergenza che ha conosciuto l’Italia era sempre il frutto di una mediazione precedentemente voluta ad ogni costo.
È qui che il portato politico del discorso che Giorgio Napolitano ha tenuto ad Assisi perde ogni specifico, rimandando l’attenzione a quel substrato culturale che è la nostra damnatio: non abbiamo avuto Riforma, non abbiamo avuto Rivoluzione. Giorgio Napolitano ha rammentato che «l’Italia risorse, sulle rovine del fascismo, a libertà e democrazia in uno straordinario moto di avvicinamento tra ispirazioni ideali e politiche diverse e apparentemente inconciliabili, ma in effetti già incontratesi nel crogiuolo dell’antifascismo». Bene, chi può negare che fossero davvero inconciliabili? Il ritardo che ci separa dai paesi in cui il progresso fu la materializzazione dialettica dei conflitti è in larga misura dovuta proprio a quel voler conciliare a tutti costi l’inconciliabile. «Così – ha continuato – nel porre le basi di una nuova convivenza e crescita civile e sociale, nessun muro tra posizioni dei credenti e dei non credenti sbarrò la strada alle forze politiche rappresentative delle une e delle altre, come testimonia la storia dell’Assemblea Costituente». Si dovrebbe aggiungere che fu questo ad appiccicarci sul collo la zecca dell’art. 7 della Costituzione: era la premessa a quel genere di convivenza tra credenti e non credenti che ci avrebbe portato inevitabilmente ad uno Stato nello Stato. E invece è proprio nell’art. 7 che Giorgio Napolitano vede la perfetta realizzazione del…

[Questo è quanto avevo scritto ieri sera. Era la prima parte di un post che nella seconda intendeva analizzare i passi di un discorso che a mio parere è stato la summa storica degli errori che ci hanno dannato e che per Giorgio Napolitano, invece, sono scaturigine dei «valori fondamentali» della Costituzione quale «incontro tra due solidarismi, quello cristiano e quello socialista». Il Presidente della Repubblica ha citato passi di Croce, Nitti, La Pira, Marchesi, Elia e Bobbio che hanno in comune una sola cosa: la rassegnazione di un popolo che non ha avuto Riforma né Rivoluzione.
Ero assai indeciso se continuare il post o lasciarlo nella cartella da sempre zeppa di incompiuti. In questo caso, l’indecisione dipendeva dal fatto che su questa damnatio ho scritto centinaia di pagine negli anni passati. Inclinavo a lasciar perdere, quando su Google Reader è arrivato il feed di un post di Luca Sofri che nel discorso di Giorgio Napolitano ha letto roba – scrive – «assolutamente condivisibile e al tempo stesso assolutamente irrilevante, acqua fresca e routine insieme», trovandolo perciò «completamente inefficace», dai «contenuti troppo generici, che non indicano nessun fattore concreto di questa crisi morale, nessuna strada per superarla, nessun responsabile, nessun elemento puntuale». È evidente che deve aver letto solo gli stralci ripresi dagli organi di informazione, alla ricerca – come scrivevo in capo al post – degli «immancabili messaggi cifrati che di solito vengono intessuti nella filigrana della solenne retorica da cerimonia». Luca Sofri non li ha trovati, eppure erano bene in vista: Giorgio Napolitano indica nell’esperienza del governo Monti il preliminare – come ho detto – ad una Große Koalition, a un destra-centro-sinistra ri-costituente.
Era inevitabile, allora, che gli errori di sempre – gli errori che hanno attraversato i sessant’anni e più di vita repubblicana – venissero rievocati come eredità piuttosto che ipoteca. A Luca Sofri, invece, è sfuggito il portato e il portante, sicché ciò che ha detto il Presidente della Repubblica gli offre spunto solo per alcune considerazioni su Matteo Renzi. Si è trattato, invece, di uno dei discorsi più significativi di Giorgio Napolitano e – ahilui, ahinoi – significativo di quanto il peggio della cultura politica italiana ha saputo esprimere nella seconda metà del Novecento: il mito del compromesso, delle larghe intese, della mediazione che spegne o dilaziona i conflitti. Occorre, allora, ripetere ciò che ho scritto tante volte…
Anzi, no, è del tutto inutile. ]

giovedì 4 ottobre 2012

Quel cazzo di Mercurio in Gemelli

Non riesco a godermi niente troppo a lungo, sarà quel cazzo di Mercurio in Gemelli che mi rende volubile, sempre in cerca di nuovi stimoli. La scorsa settimana, per esempio, non mi sono perso una sola mancata messa in onda di Qui Radio Londra: alle otto e mezzo in punto ero su Raiuno per la fine del tg, il blocco pubblicitario e l’inizio di Affari tuoi. Molto bello, devo dire. Eccitante, se vogliamo. Già venerdì, però, ho sentito che la tensione calava. Ho insistito lunedì, martedì mi è scappato uno sbadiglio, ieri non sono riuscito ad arrivare alla sigla di testa di Affari tuoi: Giuliano Ferrara mi annoiava anche da assente. 

Non mi quadra

«Nel decreto di sequestro della procura di Roma sui beni di Franco Fiorito, è stato disposto che le tre auto, la Jeep, il Bmw e la Smart, siano affidate alla Guardia di Finanza per attività di polizia giudiziaria. Mentre il denaro dei conti correnti italiani sarà trasferito al Fondo Unico per la Giustizia» (ansa.it, 4.10.2012). Sarò tonto, ma non mi quadra.
Il denaro che Franco Fiorito ha sottratto dalla cassa del gruppo consiliare del Pdl della Regione Lazio, a chi apparteneva? Insomma, ha rubato allo Stato o al Pdl? Se non erro, si trattava di fondi che venivano erogati al suo partito in base ad una legge dello Stato, nella misura stabilita da un decreto della Giunta regionale approvato a maggioranza. Allora ripeto: ha rubato allo Stato o al Pdl? Perché il decreto di sequestro dispone che il maltolto torni alle casse dello Stato invece che a quelle del Pdl? Forse neppure così ho reso l’idea, provo a spiegarmi meglio.
Vi fa differenza se la banconota che vi sfilo dalla tasca con destrezza io la spendo in ostriche e champagne o per l’acquisto del biglietto aereo che mi porterà in una capitale europea dove si tiene un meeting internazionale contro la tortura? Se il denaro che vi ho costretto a darmi puntandovi un coltello alla gola lo do a una puttana per un pompino o a un mendicante cieco perché suona da dio il suo violino, vi fa differenza? Vedo cadervi dalla giacca il portafogli, non vi avverto, lo raccolgo e lo svuoto: vi fa differenza se spendo quanto vi era contenuto per l’acquisto di due lussuose cravatte o se lo do a un prete perché celebri una messa cantata in suffragio de li mejo mortacci mia? A me no, non farebbe alcuna differenza, ma devo essere un’eccezione, perché, su quanto va emergendo riguardo ai fondi che la Regione Lazio erogava ai gruppi di tutti partiti politici rappresentati in seno al Consiglio Regionale, senza eccezioni, rilevo tanta indignazione sul modo in cui stato speso il maltolto, ma ne rilevo assai poca sul fatto che quello fosse denaro pubblico.
Non voglio trascurare il fatto che in un moto d’animo come l’indignazione l’elemento morale sia inevitabilmente destinato a giocare un ruolo primario, ma questo non riesce comunque a darmi piena spiegazione del perché a chi gira la tangente al proprio partito o drena una fetta dell’erario alla propria chiesa, almeno in Italia, sia concessa l’attenuante che di solito si nega a chi commetta lo stesso sopruso ma a esclusivamente a proprio beneficio.
Ci eravamo espressi in stragrande maggioranza contro il finanziamento pubblico della politica, ma siamo ancora disposti a chiudere un occhio se quello che ci viene tolto contro la nostra volontà va alla politica, ci incazziamo a morte solo se apprendiamo che un politico se l’è messo in tasca: ci sentiamo anticlericali solo per la parte che se ne va in camauri foderati in ermellino, mentre quella spesa in due minestrine alla mensa dei poveri non ci sembra più refurtiva. Finanziare un partito di tasca nostra? Mettere mano alla borsa per sfamare un indigente? Sì, probabilmente lo faremmo e ma se ci è tolta la libertà di farlo o di non farlo, pazienza, il furto si sopporta meglio.

mercoledì 3 ottobre 2012

[...]


C’è un tizio che lamenta di essere stato rinchiuso per venti giorni in una cella tanto stretta da non poter neppure stendere le braccia e nella quale la luce era accesa ventiquattr’ore al giorno. Ringraziasse il cielo di essere nato nel XX secolo.

lunedì 1 ottobre 2012

Lana e latte

Il decreto emanato la scorsa settimana dalla Conferenza episcopale tedesca poteva destare sorpresa solo in chi ignorasse che in Germania non è mai venuto meno l’obbligo di decima che per oltre un millennio il laico ha dovuto versare al chierico: i vescovi tedeschi non hanno fatto altro che mettere meno su bianco una regola da tempo scolorita in usanza, tuttavia messa in discussione solo da chi ai tempi della Riforma da cattolico diventava protestante. Qui da noi l’obbligo di decima è venuto meno nel 1887, sarà per questo che in Italia i commenti alla notizia sono stati più scandalizzati che in Germania. La cosa più strana, però, è che nessun vaticanista ha spiegato cosa sia davvero la Kirchensteuer che prima del 20 settembre era usanza ed ora è regola: ho letto due o tre dozzine di articoli sull’argomento, ma non ho trovato un solo cenno alla decima, che ne è la sostanza.
Non vi annoierò col trattatello di storia, vi rimando alla pagina che mi pare sintetizzi meglio i termini della questione così come s’è venuta a delineare nel corso dei secoli. Vorrei però richiamare l’attenzione su ciò che spiega perché una tassa di franca impronta feudale sia riuscita a residuare proprio in Germania. Le due gambe con le quali la Riforma mosse i suoi primi passi furono la Bibbia in volgare e il rifiuto dell’autorità romana nelle sue emanazioni ecclesiastiche coincidenti e spesso sovrapposte a quelle civili: un cristiano che intendesse rimanere cattolico in una terra in cui il protestantesimo diventava confessione maggioritaria non aveva altro modo per ribadire la propria fedeltà a Roma che nel continuare ad accostarsi ai testi sacri adeguatamente interpretati da un chierico al quale versare quella tassa che fin dal XII secolo a. C. (Lv 27, 30-32) era stata fissata per la mediazione tra cielo e terra. Già sei o sette secoli dopo abbiamo prova che tra gli ebrei più di un furbetto la evadesse: promettendo «benedizioni sovrabbondanti» se il tributo fosse regolarmente versato, minacciando di mandare «insetti divoratori» a distruggere i raccolti se non fosse fatto, il Signore ingiungeva: «Portate le decime intere nel tesoro del tempio perché ci sia cibo nella mia casa» (Ml 3, 10). Il problema di sempre: i sacerdoti devono pregare, non hanno tempo per lavorare, qualcuno deve pur pensare a riempir loro la pancia. Siamo al nocciolo del problema: se tra cielo e terra c’è bisogno di un ponte, c’è bisogno anche di un pontifex e del pagamento di un pedaggio. Nel IV tomo della sua Istoria del Concilio di Trento, il cardinale Pietro Sforza Pallavicini registrava quanto la Conferenza episcopale tedesca avrebbe ribadito alcuni secoli dopo, niente di più: «Le decime si paghino interamente alle chiese alle quali toccano. Chi le sottrarrà o le impedirà, si scomunichi».
In Germania non s’è consumato alcuno scandalo, si è solo riaffermato che il gregge deve al pastore quanto è necessario in lana e in latte. Magari si facesse la stessa chiarezza nei paesi di tradizione cattolica come il nostro: alla Chiesa di Roma andrebbe dal 3 all’8 per cento del reddito netto di ogni cattolico intenzionato a restar tale, per tutti gli altri verrebbe meno l’obbligo che di fatto, invece, pesa su tutti.

La Prestigiacomo lascia il Pdl: «Sono disgustata»

Come disse quella che facendo la doccia dopo il bukkake trovò un pelo di cazzo sulla saponetta.

venerdì 28 settembre 2012

Una vita fa


Sarà che andarono vendute solo 48 copie, questa l’avevo completamente rimossa. Trovato il ritaglio de Il Mattino tra le pagine di un libro, mi sono messo alla ricerca del cofanetto. Ahimè, l’ho trovato. 

giovedì 27 settembre 2012

[...]


Certe volte, mentre leggo, mi prudono le mani, mi vien voglia di impugnare un nodoso randello. Dura il tempo che la pagina scorra via, poi tutto torna a posto. Talvolta, tuttavia, rileggo, rileggo e rileggo, e sogno ad occhi aperti: ho lì davanti chi ha scritto quella pagina, e mi gratto. 

Il reato c’è

Il reato c’è, la sentenza definitiva pure, il condannato è recidivo, dunque non capisco perché ad Alessandro Sallusti dovrebbe essere risparmiato il carcere e penso che il suo vittimismo sia fuori luogo. Quello che però mi dà davvero fastidio è la solidarietà di tutti o quasi, anche di chi solitamente manderebbe in galera chiunque sia raggiunto anche solo da un avviso di garanzia. Sarà che siamo in Italia, il paese dove di giorno ci si sgozza e la sera si va tutti a cena insieme, e Alessandro Sallusti è della tavolata.
In carcere abbiamo decine di migliaia di imputati in attesa di giudizio, decine di migliaia di ragazzi pizzicati con una decina di grammi di hashish in tasca, decine di migliaia di poveracci arrivati in Italia su barconi sfondati, e pare debbano rimanerci, ma Alessandro Sallusti non può andarci. Ha diffamato, non ha mai rettificato, non ha soddisfatto la parte lesa prima della sentenza, rifiuta l’affidamento ai servizi sociali come alternativa al carcere, aspetta la grazia dal Quirinale, ma a chiederla non ci pensa nemmeno: sa che in galera non può andarci e quasi certamente non ci andrà. 

martedì 25 settembre 2012

Camillo Ruini, Intervista su Dio, Mondadori 2012

«Eminenza, visto il ruolo che lei ha avuto nella Chiesa italiana, e data la maggiore libertà di cui ora gode, molti si aspetterebbero un libro di memorie o sull’attualità ecclesiale o su temi pastorali. Lei invece parla di teologia e parla nello specifico di Dio. Perché?».
Intervista su Dio (Mondadori, 2012) apre con una domanda che il lettore non smetterà di ripetersi fino a pag. 277, dove il cardinal Camillo Ruini finalmente spiega: «Il libro è scritto per aiutare chi crede ad avere una consapevolezza più esplicita delle ragioni della propria fede […] È scritto inoltre per chi vorrebbe credere, ma è incerto e perplesso […] Non mi illudo che un libro di questo genere possa far cambiare la scelta di chi ha deciso di non credere, o comunque preferisce non pronunciarsi riguardo a Dio».
Era meglio dirlo subito, così il giudizio non sarebbe stato troppo severo: sembrava avesse l’ambizione di rimettere filosofia e scienza sotto le natiche della teologia, questo libro, e invece si tratta solo di un vademecum ad uso del bravo propagandista. Sua Eminenza deve essersi ispirato a quelle dispense che il Pci distribuiva ai suoi attivisti sul finire degli anni Cinquanta, in particolar modo a Il materialismo dialettico in 100 domande, prezioso manualetto che l’attivista modello mandava a memoria per sentirsi forte nei battibecchi da osteria.
Si possono scusare le tirate da bignamino di filosofia a Sua Eminenza, si può chiudere un occhio sulle sue grossolane semplificazioni di Kant, Hegel, Heidegger e Wittgenstein, sulle sciocchezze che desume dagli assunti della meccanica quantistica, su ciò che rinfaccia all’illuminismo addomesticando le tesi di Horkheimer e Adorno (che peraltro non cita) alla critica del secolarismo del suo Lonergan: non è un libro, è un prontuario.

domenica 23 settembre 2012

L’anniversario a cifra tonda


L’anniversario, soprattutto l’anniversario a cifra tonda, è il momento meno indicato per discutere proficuamente di un evento, di cosa veramente sia stato, di cosa possa avere ambiguamente significato: il rito della celebrazione spinge le analisi di comodo a cercare l’ufficializzazione senza farsi scrupoli nel metodo e nel merito, e la sequenza delle revisioni, che è la sostanza stessa della storiografia, si cristallizza. Potremmo dire che gli anniversari sono un ostacolo all’analisi storiografica.
Col Concilio Vaticano II è già accaduto nel gennaio del 2005, per il 40° della sua chiusura, e non c’è dubbio che accadrà tra qualche settimana, in ottobre, per il 50° della sua apertura: anche stavolta, come allora, si confronteranno senza esito proficuo le analisi di comodo che non hanno mai smesso di contendersi polemicamente il titolo di retta ermeneutica dell’evento.
C’è a chi torna comodo, infatti, che il Concilio Vaticano II abbia rappresentato un momento di rottura: è quanto sostengono – con opposto giudizio in merito, ovviamente – i cattolici «tradizionalisti» e quelli «progressisti». Poi c’è a chi torna comodo che il Concilio Vaticano II non volesse rompere niente, né lo potesse, né l’abbia fatto: è quanto sostengono – con giudizio pressoché unanime – le alte gerarchie ecclesiastiche e i cattolici che negano la legittimità di categorie come «tradizionalismo» e «progressismo».
Posizioni inconciliabili, ovviamente, ma ve n’è una terza che potrebbe metterli d’accordo, se non fosse che è scomoda per questi e per quelli. È la tesi che abbozzai nel paginone che il 19 gennaio 2005 fu pubblicato su L’Indipendente di Giordano Bruno Guerri (lo allego in appendice): il Concilio Vaticano II fu frainteso da tutti, dagli stessi padri conciliari; quando i segni del fraintendimento furono evidenti, e non ci volle molto, si capì che era stato possibile per le ambiguità disseminate nei documenti conciliari; la rottura stava nel volerli prendere alla lettera, la continuità stava nell’ammettere che tutto si era consumato nell’infelice tentativo di sincretizzare «tradizionalismo» e «progressismo».

Di questo infelice tentativo si è molto parlato su queste pagine, negli anni passati. Tutte le volte che l’incarnazione dell’ossimoro «cattolico-liberale» apriva bocca per calare nel dibattito politico la carta del Concilio Vaticano II come espressione di un rinnovamento ecclesiastico che rendeva possibile, anzi auspicabile, la concordia tra credenti e non credenti ed era incarnazione ubiquitaria: il «cattolico-liberale» è dappertutto, a destra, a sinistra, lo si trova pure tra i radicali   per dimostrare che quella carta era truccata ho più volte usato argomenti che poi, nel 2009, ho trovato coincidenti nel Iota unum di Romano Amerio. Così mi sono fatto convinto che il cattolico «tradizionalista» è intellettualmente più onesto di quello «progressista». Che il cattolico «progressista»  il cattolico che si ostina nel fraintendimento del Concilio Vaticano II col suo credere (ancor più, col suo voler far credere) che cattolicesimo e democrazia siano compatibili è il maggior responsabile del degrado culturale e civile dellItalia.
Non è stato sempre così. Una pagina delle quattordici che aprivano il numero de il Mulino lindomani della chiusura del Concilio Vaticano II (XIV/12 - pag. 1109) era onesta.
Poi, non ho capito ancora quando, il  «cattolico-liberale» ha capito che sul fraintendimento del Concilio Vaticano II poteva costruire una posizione da spendere. Male, a guardare i risultati. 
  

Appendice

Il Concilio Vaticano I (1869-1870) si tenne tre secoli dopo il Concilio di Trento. Sancì il dogma della infallibilità pontificia e, in forma d’anatema, emise la condanna del materialismo e del razionalismo. Il secolo capì? Macché. A Fatima (1917) s’era detto: «Se non smetteranno di offendere Dio [...] comincerà una guerra ancora peggiore. Per impedirla, verrò a chiedere la consacrazione della Russia al mio Cuore Immacolato [...]. Se accetteranno le mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace, altrimenti spargerà i suoi errori per il mondo, promovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. (...) Il Santo Padre mi consacrerà la Russia, che si convertirà. E sarà concesso al mondo un periodo di pace». Vennero Lenin e Stalin, invece.
Perché, in piena Guerra Fredda, fu deciso il Vaticano II? Il mondo fraintese, pensò a un’offerta d’armistizio: prese in mano l’enciclica Pacem in Terris, lesse il sottotitolo (Sulla pace fra tutte le genti nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà) e fraintese. Pace, giustizia: erano parole d’ordine scandite anche dalla Pravda. Amore, libertà: se ne parlava anche nei campus di Berkeley. Quel lessico, poi: diritti, poteri pubblici, partecipazione, solidarietà, sussidiarietà...
Fu l’enciclica più letta e più fraintesa, la Pacem in Terris. Qualche fesso vi vide addirittura socialismo, colse distorta l’eco della «condizione eguale» di san Paolo, dell’«apparente ineguaglianza» di san Basilio. L’immagine bonaria del papa contadino produsse un effetto prismatico: di qua questo «papa buono», che pure non rinunciava a farsi portare a spalla dai suoi dignitari in alta uniforme, com’era stato sempre; di là questa Chiesa, intenzionata a non perdere il treno della Storia – parve, e male  eppure così saldamente ancorata ad una Verità immobile. L’enciclica parlava di un Cristo piantato nelle cose: ma alle cose, poi, si concedeva movimento? Leggiamo.
«La pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio» (Introduzione, 1). «Sennonché il Creatore ha scolpito l’ordine anche nell’essere degli uomini: ordine che la coscienza rivela e ingiunge perentoriamente di seguire» (ibidem, 3). «La convivenza umana, venerabili fratelli e diletti figli, deve essere considerata anzitutto come un fatto spirituale» (I, 19). «L’ordine morale – universale, assoluto ed immutabile nei suoi principi – trova il suo oggettivo fondamento nel vero Dio, trascendente e personale» (I, 20). «L’autorità umana [...] può obbligare moralmente soltanto se è in rapporto intrinseco con l’autorità di Dio, ed è una partecipazione di essa» (II, 29).
Nulla, davvero nulla che si spostasse di una sola spanna da quanto scritto cent’anni prima da Leone XIII. Ma, senza nulla togliere all’inflessibilità del Magistero, si attenuavano le passate posizioni d’intransigenza, fino a offrire una sovrana ragione di fraintendimento: peccato e peccatore erano distinti, e con ciò s’introduceva il principio del confronto con le false teorie: «Non si possono [...] identificare false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo, con movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione. […] Inoltre chi può negare che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi e meritevoli di approvazione? Pertanto, può verificarsi che un avvicinamento o un incontro di ordine pratico, ieri ritenuto non opportuno o non fecondo, oggi invece lo sia o lo possa divenire domani. Decidere se tale momento è arrivato, come pure stabilire i modi e i gradi dell’eventuale consonanza di attività al raggiungimento di scopi economici, sociali, culturali, politici, onesti e utili al vero bene della comunità, sono problemi che si possono risolvere soltanto con la virtù della prudenza» (V, 84-85).
Tatticismo: gli uomini di buona volontà sono dove meno te li immagineresti, l’ateo è un uomo in attesa della fede, prima o poi si convertirà, a Dio la via. Il seme del fraintendimento era piantato. E subito se ne avvidero, perché i segnali preoccupanti non tardarono, coloro che a Roma si resero fautori della «restaurazione» tuttora in atto, con Paolo VI gemmante e con Giovanni Paolo II a pieno regime. Il nodo fu stretto attorno al Sinodo straordinario del 1985 che si proponeva di «celebrare, verificare, promuovere il concilio Vaticano II». «Promuovere» e «celebrare» si può capire, ma «verificare»? Come può un Sinodo «verificare» un Concilio? È un paradosso, e il paradosso contiene il richiamo a quanti hanno frainteso il Vaticano II: «Il concilio deve essere interpretato nella sua continuità con la grande tradizione della Chiesa», perché «la Chiesa è lei stessa in tutti i concili» (Sinodo dei Vescovi, 1985).
Nel solco tridentino tutta la produzione pontificia tende a ribadire una genealogia, un’ontologia ed una fenomenologia del Male, dalle quali il Vaticano II pare allontanarsi, per esservi ricondotto dal Sinodo dei Vescovi del 1985. Già Paolo VI aveva detto: «Credevamo che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole e di tempeste, e di buio, e di ricerche e di incertezze, si fa fatica a dare la gioia della comunione» (Omelia, 29/6/1972). Ora comincia a parer chiaro a molti che la crisi che ha colpito il cristianesimo europeo non è più principalmente o solo una crisi ecclesiale. La crisi è più profonda: è divenuta la crisi di Dio, della Rivelazione. Se la lezione del Vaticano II intende distinguere tra ateo e ateismo, «l’ateismo di oggi può in realtà già di nuovo riprendere a parlare di Dio distrattamente o tranquillamente - senza intenderlo veramente. Anche la Chiesa ha una sua concezione della immunizzazione contro le crisi di Dio» (J.B. Metz).
È tempo di suonare la carica, dunque. E con la solita spietata chiarezza il cardinale Joseph Ratzinger dà a ogni cosa il suo nome: «Il Vaticano II voleva chiaramente inserire e subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio, voleva proporre un’ecclesiologia nel senso propriamente teo-logico, ma la recezione del Concilio ha finora trascurato questa caratteristica qualificante in favore di singole affermazioni ecclesiologiche, si è gettata su singole parole di facile richiamo e così è restata indietro rispetto alle grandi prospettive dei padri conciliari». È necessario restituire a Dio la dimensione che lo inscrive nella dimensione di Mistero, riportando il credente nella posizione di appartenente alla comunità ecclesiale, figlio obbediente. La Chiesa riprende centralità (Lumen Gentium) nel suo essere comunione, non community, corpo del Cristo vivente. E don Luigi Giussani mette il sigillo: «Si apre per noi un nuovo inizio: dimostrare, ridimostrare l’evidenza della verità di quello che seguendo la Tradizione della Chiesa ci siamo sempre detti».
Potrà il successore di Giovanni Paolo II fare altrimenti? No, anche volendo. Questi 40 anni dal concilio Vaticano II sono stati la storia di questo no. Papa Luciani stava offrendo il fianco della Chiesa a un altro fraintendimento, il «Dio mamma», e la Provvidenza provvide. Non saranno tollerate altre distrazioni, siamo alla resa dei conti. O la Chiesa ne esce trionfante o perisce.


sabato 22 settembre 2012

'A Fra', facce "Povera Patria"!



grazie a Denis

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L’anno scorso baciò la teca contenente il sangue di San Gennaro, quest’anno no. La teca era la stessa, il sangue pure, e stessa chiesa, stesso cardinale, solo Luigi De Magistris era diverso: l’anno scorso devoto al Santo, quest’anno no. Oppure: l’anno scorso rispettoso della tradizione, quest’anno no. O forse: ipocrita l’anno scorso, quest’anno no. O ancora: avrà deciso di baciare un anno sì e un anno no, accontentando questi e quelli con la geniale trovata del bacio ad anni alterni. 

venerdì 21 settembre 2012

"L'ipocrita pensa che nessuna verità sia davvero innocente"


Chissà da quanto tempo avete un blog, ma rammentate l’emozione che vi diede il primo commento a un vostro post? Vi precipitaste a rispondere o l’emozione vi paralizzò? 

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Una vignetta di Vincino (Il Foglio, 20.9.2012) è finora sfuggita all’attenzione di quanti lamentano la viltà delle offese arrecate alla sensibilità dei cristiani e sfidano i blasfemi ad offendere quella dei musulmani.