lunedì 2 gennaio 2017

Verità e post-verità


Solitamente la fortuna di un neologismo si è sempre misurata sullampiezza e sulla durata che il suo impiego riusciva a conquistare, sicché in passato trovava registrazione solo dopo aver adeguatamente consolidato la sua posizione nel linguaggio corrente. Si pensi, per esempio, a «nostalgia», termine coniato nel 1688, che deve tuttavia attendere più di un secolo per essere trovato sulle pagine di un dizionario.
Di pari passo a una percezione del tempo e dello spazio che si andava sempre più rapidamente evolvendo rispetto a quella del passato, la fortuna di un neologismo è venuta sempre più spesso a misurarsi sulla velocità e la forza con le quali se ne diffondeva luso, al punto da convincere anche i più sussiegosi difensori della lingua a introdurre nel lemmario certi termini che, dopo un prepotente erompere nel discorso pubblico, spesso diventano rapidamente desueti, per poi essere rievocati quasi esclusivamente come cifra di un particolare momento storico. Anche qui potrà tornare utile un esempio, e il primo che mi viene in mente è quel «cristargare» che a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta del secolo scorso venne a indicare il riprodurre la targa automobilistica sui cristalli di una vettura in modo da scoraggiarne il furto.
Se qualcosa ci è lecito asserire riguardo al come un neologismo trova fortuna, ancorché effimera, più difficile è tentare di capire cosa gliela dia, e questo per la semplice ragione che la parola solitamente si adatta alla cosa che intende rappresentare attraverso un processo di reciproco aggiustamento, dato il continuo, seppur talvolta impercettibile, mutare di entrambe, mentre invece il neologismo pretende di cogliere il senso di qualcosa che spesso è tutto in fieri, spesso assegnandogli il senso che non di rado è tutto nella previsione di quel che sarà il factum, che mostra tutto il limite di una scommessa. Per questo, quando qualcosa che ci appare nuovo cerca un nome altrettanto nuovo, la fortuna premierà quello in grado di rappresentarne in modo più efficace lindeterminatezza col ricorso a formule che hanno la pretesa di dare ineffabilità al vago.
Così mi pare stia accadendo con la «post-verità», dove il prefisso sta per «dopo», ma anche per «dietro», indicando nel contempo qualcosa che verrebbe dopo la verità, come sua trasformazione in altro, o che le starebbe dietro, usandola come una maschera. In entrambi i casi, dato il valore assoluto che si tende a dare alla verità, il termine suona inquietante, perché implica un inevitabile sminuirsi di quel valore o, peggio, il suo usurparlo da parte di ciò che, per l’essere anche solo in minima misura lontano dal vero, è inevitabilmente falso, dunque scopertamente insidioso.
In questo porsi dinanzi a un termine del genere pare diventi del tutto secondario chiedersi se si abbia modo di avere qualche solida certezza su cosa sia la verità: tutti riteniamo di sapere cosa sia, almeno quando non ce n’è chiesta la definizione. Le cose si complicano terribilmente quando siamo costretti a fornirne una, senza la quale un termine come «post-verità» diventa ancor più indefinibile di quello che vuol essere per illuderci di aver con esso colto la sostanza che si vuole assegnare a una particolare e nuova specie del falso. In altri termini, direi che vero e falso cercano nella «post-verità» una ridefinizione che risponda al meglio ai nuovi modi in cui essi ci si ripresentano dinanzi, senza peraltro poter pretendere di riuscirci, perché non possono riproporsi alla nostra attenzione senza il carico di ambiguità che li contraddistingue in radice.
Il fatto è (e qui riprendo una mia riflessione di qualche tempo fa) che ogni definizione di verità è una tautologia. Tautologia più o meno manifesta, ma tautologia. Si va dalla tautologia dichiarata tale col definirla «l’essere vero» (De Mauro) o «ciò che è vero» (Treccani), a quella che va in cortocircuito con un termine facente funzione di sinonimo, per più con realtà, e allora la verità diventa la «aderenza alla realtà» (Palazzi) o la «rispondenza piena e assoluta con la realtà effettiva» (Devoto-Oli) o, ancora, la «conformità a una realtà obiettiva» (Treccani), dove questa realtà rimanda inevitabilmente al vero, in quanto «qualità e condizione di ciò che è veramente» (Palazzi). Quando poi dal tentare di definire la verità si passa ad analizzare le sue accezioni in ambito filosofico e scientifico, teologico e linguistico, logico e psicologico, le cose non vanno meglio, perché «non c’è una definizione univoca su cui la maggior parte dei filosofi di professione e gli studiosi concordino, e varie teorie e punti di vista della verità continuano ad essere discussi» (Wikipedia), e perché in ciascun ambito il termine va assumere un significato che risulta inservibile in un altro.
Si prenda, per esempio, il significato di verità per un teologo come Tommaso, che la ritiene coincidente all’Essere e in pratica assimilabile a Dio: sarà accezione praticamente inservibile per un epistemologo come Peirce, che la ritiene il risultato di un accordo di un determinato gruppo di soggetti, su un determinato assunto, in un determinato spazio, in un determinato lasso di tempo. Oppure si prenda il suo significato per un matematico come Gödel, per il quale non tutto ciò che è vero è anche dimostrabile: del tutto incompatibile con la definizione che di verità dà un logico come Frege, secondo il quale il vero è categoria illusoria.
Non va meglio neppure trasferendo interamente il vero al reale, per tenercelo, perché la realtà è maledettamente sfuggente ad una percezione che voglia dichiararsi qualitativamente e quantitativamente assoluta e tradursi in conoscenza oggettiva: offrirà in se stessa gli strumenti per valutare la congruenza tra un aspetto del reale e un suo corrispettivo, in ciò che dunque avrà efficacia di mera dimostrazione di una congruenza interna ad un sistema, del quale però la conoscenza soggettiva è parte inalienabile. E così la realtà sarà comprensibile, ma mai interamente, né sarà mai possibile ridurla a pura oggettività, perché ad essa è connaturata la frammentarietà della percezione e della comprensione relativa, che non può mai tradursi in conoscenza assoluta.
È in questo punto, che poi è quello dove ci si dovrebbe arrendere all’impossibilità dell’onniscienza, dell’impossibilità di rappresentarci il vero al di fuori di uno spazio soggettivo, che nasce la trascendenza. Con essa si fa strada in molti l’idea che l’assoluto sia una meta e che la verità sia un fine. Tutto è promesso all’uomo in una verità assoluta, tutto gli è chiesto in cambio di quella. Quasi sempre, allora, accade che il soggettivo, per questa sua vorace fame di assoluto, cerchi di imporsi come oggettivo, non di rado con mezzi assai opinabili, assai opinabilmente giustificati dalla bontà del fine, tutto illusorio.
È che forse dovremmo sbarazzarci di una parola come «verità» o usarla in modo assai più cauto, perché a darle il significato di qualcosa indiscutibile si corre il serio rischio di conferire a qualcuno lautorità di impedire ogni discussione su cosa sia vero e cosa no, il che è già di per sé una negazione della verità, almeno a intenderla come risultato sempre parziale, sempre imperfetto, di una conoscenza che ha negli stessi suoi strumenti gli invalicabili limiti.
Dichiarazione di scetticismo radicale? Tuttaltro. Direi sia solo un monito a non fidarsi mai della piena intelligibilità di un factum, tanto meno quando è ancora in fieri: ogni sua comprensione è giocoforza incompleta, perché quello che ce lo ridà è sempre un modello, che raramente si rivela incorreggibile, e questo vale per tutto ciò che si fa oggetto della conoscenza, dallinfinitamente piccolo allinfinitamente grande, passando per quello che c’è in mezzo: quando la conoscenza non ha timore di abbandonare un modello per adottarne un altro che sembri più adeguato alla comprensione, diventa inevitabile considerare la transitorietà di quella che fino a quel momento si era commesso l’errore di reputate come ultima e inemendabile verità sulla tal cosa, sulla tal persona, sul tal accadimento. Con ciò dovrebbe apparire sufficientemente ridicolo luso di un termine che è immancabilmente appiccicato a ciò che si ritiene definitivamente acquisito, poco importa se in forza delle nostre personali convinzioni o di quelle di unautorità cui conferiamo il potere di pensare per noi, e invece spesso ne facciamo perfino abuso, per costruirci sicurezze che vengono regolarmente spazzate via dal semplice cambiamento di prospettiva che consegue al costante mutare del tempo e dello spazio che sono le coordinate del nostro essere. Si dovrebbe rinunciare a parlare di «verità» per ciò che hic et nunc ci sembra indiscutibile: sarebbe di gran lunga meno pericoloso luso di un termine come «comprovabilità», che allassunto altrimenti definito «vero» conferisce un valore di affidabilità esclusivamente sulla possibilità di controllo, convalida e condivisione che è nella facoltà di chiunque sia disposto a rispettare le elementari leggi della logica, che trasposte sul piano dellargomentazione sono le sole a poter dar ragione di ciò che è corretto, in quanto poggia su premesse incontestabili, valido, perché rifugge da tautologie o contraddizioni, e persuasivo, come efficace risultato del processo che ne articola lo sviluppo in unaffermazione. Sostanzialmente si tratterebbe di adottare il metodo scientifico per tutto ciò che liquidiamo troppo sbrigativamente come «vero» o «falso». Ve ne sarebbe anche per poter rinunciare a parlare di «post-verità», che almeno a voler prendere per buona la definizione che ne è comunemente data, sarebbe «una notizia completamente falsa, ma che, spacciata per autentica, è in grado di influenzare una parte dellopinione pubblica» (Wikipedia): cè già un termine che risponde a questa descrizione, ed è «fattoide». Preferirlo a «post-verità» presenta almeno due vantaggi. Il primo è che ci consente di evitare limplicita assunzione di categorie come «vero» e «falso» che pressoché costantemente esigono il ricorso a unautorità che è da presupporsi onnisciente. In secondo luogo, il «fattoide» include anche quella minima deformazione del factum come effettivamente comprovabile (sul quale, cioè, sia possibile il controllo, dandogli convalida e perciò rendendolo condivisibile) che comunque è in grado di alterarne il senso.
Stabilito che una «post-verità» non è altro che un «fattoide», e che con «fattoide» perde la pericolosità che assume nel reclutare difensori di una «verità» che non deve mai essere messa in discussione, cè da considerare perché si sia sentita la necessità di coniare – chiedo scusa per il bisticcio – un nuovo neologismo per qualcosa che è sempre esistito, almeno fin da quando si è spacciata per autentica la notizia completamente falsa che luomo sia un mix di fango e alito di Dio, con la conseguente influenza su gran parte dellopinione pubblica. Forse è proprio il ricorso al prefisso «post-» a potercene dare una ragione, pensando a quale funzione sia chiamato per altri neologismi che pure lo sfruttano per dare al termine cui è legato, quasi sempre con più efficace resa di significato, che comunque sembra deliberatamente conservare un che di ambiguo se non di vago, il senso di qualcosa che di quel termine indica il superamento, la revisione, levoluzione in altro che, se non ne è la negazione, ne è almeno la riconsiderazione in chiave critica, se non addirittura polemica, quasi sempre a decretarne la crisi («post-modernità», «post-democrazia», ecc.). Se questa interpretazione coglie nel segno, diremmo che la «post-verità» viene sentita come una seria minaccia per la «verità», con la quale concorre in persuasione. Tanto più seria, questa minaccia, perché mostra di riuscire a ottenere incredibili successi che resistono perfino alle inoppugnabili smentite di quello che ha spacciato per «vero» e poi è stato dimostrato «falso».
Come è possibile che questo accada? La domanda assume con sempre più frequenza toni preoccupati, muovendo a chiedersi cosa vi possa metter freno. Giacché poi si dà per pacificamente assodato che la «post-verità» nasca nel web, e lì acquisti forza, fino a esorbitarne, per andare ad adulterare la «verità» perfino nei santuari in cui fino a poco tempo fa essa era custodita con venerazione e difesa senza eccessiva fatica, la soluzione sembra dover essere trovata nel ucciderla sul nascere, e lì dove prende vita. Soluzione necessariamente violenta, questo è ovvio, ma come non ritenerla sacrosanta, questa violenza, visto che è in difesa della «verità»? Dando questo nome a ciò che si ritiene anteriore e superiore allinterpretazione del factum, la sua interpretazione consolidata può ben dirsi trascendente. Altra cosa sarebbe chiamare «fattoide» il factum che non regge al saggio di comprovabilità, e faticare quanto dovuto a mostrarne linfondatezza, e dunque linattendibilità: significherebbe scendere nellagone fidando nella bontà dei propri argomenti, ad averne di corretti, validi ed efficacemente persuasivi. La tentazione di usare la violenza è comprensibile, quando non si è certi di averne o quando, pur certi che siano validi e corretti, si dispera possano essere anche persuasivi.
Ci sarebbe unaltra soluzione, ma imporrebbe un cambiamento di prospettiva: da «come può, il falso, sembrare vero?», la domanda dovrebbe esser posta in altro modo: «come può, lagorà, farsi persuasa al falso più che al vero?». Superando le categorie di «vero» e «falso», la domanda non è difficile: giacché la persuasione non è che la resa alla forza di un argomento, vi sono condizioni nelle quali questa resa si può più facilmente ottenere grazie a una fallacia che a un retto argomento. Ma cosa caratterizza queste condizioni? Lalta vulnerabilità a strumenti retorici di forte impatto, ancorché invalidi e scorretti. E cosa determina tale vulnerabilità? Un perdurante stato di soggezione a «verità» che per affermarsi si sono servite proprio di tali strumenti. In conclusione, occorre riconoscere che la tendenza a credere in qualcosa che non ha i requisiti di «comprovabilità» non è altro che il prodotto di una lunga storia che si è data solco nella indiscutibilità di alcune «verità»: non si riesce a far troppa differenza tra «verità» e «post-verità» quando non si è avuta educazione a ragionare. 

giovedì 29 dicembre 2016

Meno male, va’

Presi come eravamo dallo scannarci su una questione tutto sommato frivola quale era la revisione di una quarantina di articoli della Costituzione, non abbiamo dato la dovuta attenzione a quella che sarebbe stata la più grave conseguenza di una vittoria del No, anzi, se proprio vogliamo essere onesti, nemmeno labbiamo presa in considerazione, e ora eccoci a doverne sopportare il peso sulla coscienza: anche se non ha tenuto fede allimpegno di abbandonare ogni attività politica nel caso in cui la sua riforma costituzionale fosse stata bocciata – cose che si dicono, via – a Renzi è bastato dimettersi dalla Presidenza del Consiglio per restare senza uno stipendio: non è parlamentare, lo statuto del Pd non contempla una mesata per il Segretario, Nardella non può restituirgli Palazzo Vecchio come Gentiloni gli ha promesso di fare con Palazzo Chigi, né il babbo può riassumerlo perché intanto la Chil post ha avuto un crac: «non ho uno stipendio, non ho un vitalizio» – scrive su Facebook – un esodato, insomma, ma a considerare lesiguità delle misure che il suo governo ha preso in favore delle famiglie monoreddito, la faccenda non pone alcun problema: a casa Renzi uno stipendio arriva, perché sulla Gazzetta Ufficiale era ancora fresco linchiostro con cui era andata in stampa la Buona Scuola, quella che dà ai presidi la discrezionalità della chiamata diretta, e lAgnese fu chiamata, e assunta a tempo indeterminato, per merito naturalmente, honni soit qui mal y pense, un po come capitò al babbo della Boschi, che fu chiamato alla vicepresidenza di Banca Etruria quando la figlia diventò ministro, ma solo 3'16" dopo, a svergognare ogni malevola insinuazione. Daltra parte le foto di Chi danno ragione alle politiche economiche del governo Renzi: anche con un solo stipendio, in Italia, nessuna famiglia resta senza pandoro, a Natale. Questo in gran parte ci consola, perché è vero che, votando No, abbiamo lasciato Renzi senza stipendio, ma per fortuna il paese ha degli ottimi ammortizzatori sociali. Non si lamentassero, ’sti disoccupati. 

Pazienza

Su queste pagine mi sono misurato in diverse occasioni con quelle congetture più o meno balzane che di tanto in tanto propongono letture alternative di grandi opere darte del passato, per lo più con la pretesa di rivelarci messaggi che gli autori avrebbero voluto celare in esse con tale cura da averne fin lì impedito la lettura a intere generazioni, per ragioni che spesso restano senza spiegazione anche dopo la rivelazione, mentre talvolta ne vengono fornite di così bislacche da far miseramente rovinare limpianto dellipotesi avanzata, già di per sé assai instabile, per quanto in certi casi di qualche indubbio fascino.
Quanta buona fede vi sia nel credere di aver fatto una sconvolgente scoperta del genere è questione che si potrebbe pure ritenere irrilevante, ma che assume il suo bel peso nel constatare che quasi sempre lopera darte e il suo autore sono famosissimi: mai una volta che la scoperta sia relativa allopera di un autore minore, la rivelazione pretende sempre di fare il botto su Leonardo, su Michelangelo, su Caravaggio, daltronde a chi mai potrebbe interessare il reale significato di quel «nemo in patria sua aceptus» che si legge sullo zoccolo della gabbia in cui è rinchiuso un pappagallo nella tela di Pier Francesco Cittadini (1616-1681) riprodotta a pag. 39 del numero di ottobre 2013 della casa d’asta Dorotheum e messa all’incanto al vil prezzo di base di soli 25.000 euro? Per il professor Alberto Cottino «the inscription may refer to the sitter or the collector, possibly a refugee from another country or italian state, who commissioned the present painting», ma – beccatevi ’sto scoop – non è così: posso dimostrarvi in meno di 12.000 battute spazi inclusi che il riferimento è al Canto XIII dell’Adone di Giovan Battista Marino, nel quale Adone è trasformato appunto in pappagallo da Falsirena.


Scherzavo, se non si è capito. Volevo solo farvi un esempio di come una scoperta del genere otterrebbe solo una tiepida pioggerellina di «e ’sti cazzi!». Altra cosa, converrete, se avessi detto che ho le prove che furono gli alieni a suggerire a Leonardo il progetto di quello che tutti fin qui hanno pensato fosse un prototipo di carrarmato.


Molti mi manderebbero a cagare, qualche mattocchio potrebbe prendere per buoni i miei argomenti, ma in ogni caso avrei ottenuto l’attenzione che volevo. In questo genere di scoperte, in fondo, è attiva la stessa vis creativa che interpreta un accadimento come il risultato di un complotto: impossibile negarlo senza con ciò dimostrarsene vittima o, peggio, complice, mentre l’onere della prova inconfutabile pare che passi da chi prospetta l’ipotesi a chi la rigetta, e nessuna obiezione è mai del tutto valida a rigettarla, perché in fondo chi può portare prove inoppugnabili che gli alieni non esistano e non abbiano suggerito a Leonardo il progetto di quella che in realtà è una navicella spaziale? Perché ti ostini a escluderlo?

Così temo sia accaduto per chi ha creduto di poter dimostrare che, nella Creazione di Adamo affrescata sulla volta della Cappella Sistina, Michelangelo Buonarroti abbia voluto «inscrivere il gruppo di Dio e degli angeli nella sagoma di un cervello umano».


Sulla questione mi sono già intrattenuto con un post (La bufala di Michelangelo neurologoMalvino, 9.2.2014) che a oltre due anni e mezzo dalla sua pubblicazione – così mi avverte la pagina delle statistiche di accesso al blog – continua a esser molto letto e linkato qui e lì, ricevendo critiche che penso possano essere ben riassunte dallultimo dei commenti al post, di appena due giorni fa, che qui riporto integralmente: «Mi scusi, ma il fatto che una prima descrizione anatomica del cervello sia stata pubblicata a stampa nel 1664 non significa che prima di quella data (anche molto prima) tali studi anatomici non erano stati fatti. Anzi, proprio perché la prima grande pubblicazione in materia avvenne nella seconda metà del XVII secolo, mi sembra molto probabile che gli studi fossero iniziati da almeno un secolo. È vero non ci sono prove che Michelangelo conoscesse la forma della sezione sagittale del cervello, ma fossi in lei non liquiderei la questione solo avendo a disposizione come argomentazione che il Cerebre Anatome fu pubblicato nel 1664. La somiglianza con il cervello, una volta fatta notare è sorprendente. Potrebbe essere pareidolia ma potrebbe anche non esserlo. Questo fatto non andrebbe bollato come bufala, tuttal più come una congettura» (Boulayo). Toni civili. Argomenti che, pur trascurando molto di quanto da me ampiamente spiegato in quel post, meritano comunque di essere presi in considerazione. E dunque.

Inizierei dalla fine, perché è lì che mi pare ci sia il fondamento della questione, che poi è quella relativa al metodo che dà o non dà solidità a una congettura. «Potrebbe essere pareidolia ma potrebbe anche non esserlo», dice Buolayo. Certo, ma a chi tocca l’onere della prova per escludere che lo sia? E cosa impedisce di chiamarla bufala quando lipotesi non regge, e tuttavia non viene ritirata? Quando la congettura è fallace già in premessa, non assume forse modo e fine dell’affermazione ingannevole? E non è forse sulla verosimiglianza di quanto si afferma che l’inganno può sperare di andare a segno?
Mai poi è davvero così «sorprendente» la somiglianza tra le linee che compongono il disegno della Creazione di Adamo relativamente al gruppo di Dio con gli angeli e quelle che si osservano sulla sezione sagittale mediana di un cervello umano? Il manto che fa da sfondo al gruppo ha senza dubbio un forma che in parte  ma solo in parte  può essere sovrapponibile al contorno della massa cerebrale, ma, se è per questo, anche a quello della conchiglia di un lamellibranco Pecten jabobeus: cosa impedirebbe, a questo punto, di ipotizzare che Michelangelo abbia voluto dare del mollusco al Padreterno?
Nelle linee che compongono il disegno della Creazione di Adamo relativamente al gruppo di Dio con gli angeli, dove sarebbe il cervelletto? E il Ponte di Varolio? E perché l’asse del corpo calloso è spostato così in alto? Perché il bulbo mesencefalico ha forma tanto diversa?
Ma trascuriamo tutto questo, perché chi a ogni costo vuol vedere la faccia di Padre Pio in una macchia di umidità sul soffitto di una cantina difficilmente può essere convinto che si tratta di un’infiltrazione d’acqua dovuta allo scarico del bidet che perde al piano di sopra. Veniamo alla materiale possibilità che Michelangelo avesse entro il 13 ottobre del 1512, data di completamento dei suoi affreschi della volta della Cappella Sistina, nozioni di anatomia del cervello umano relativamente alla sua sezione sagittale mediana. 
Una decente descrizione di questa sezione si ha soltanto nel 1664, con Willis. Prima ci sono Vesalio, Varolio, Cartesio, Malpighi, ma tutti arrivano dai 30 ai 110 anni dopo la descrizione che Michelangelo ne darebbe nella Creazione di Adamo. E tuttavia, sì, gli studi anatomici sul cervello umano sono di molto antecedenti. Ve n’è, fra questi, qualcuno che possa aver fornito al Buonarroti le nozioni necessarie a «inscrivere il gruppo di Dio e degli angeli nella sagoma di un cervello umano»? In fondo non gli erano contemporanei degli studiosi che ci hanno lasciato i risultati dei loro studi di anatomia cerebrale? Quel Berengario da Carpi, per esempio. Non è che dia una descrizione della sezione sagittale mediana, ma non fornisce indicazioni per desumerla almeno con qualche approssimazione? 


Sì, peccato però che pubblichi le sue scoperte solo dieci anni dopo che Michelangelo ha affrescato la volta della Cappella Sistina, e non c’è notizia che si siano mai incontrati.
Leonardo, allora. Forse che Leonardo non ha lasciato risultati dei suoi studi anatomici? I due, poi, si conoscevano.


Certo, peccato però che si detestavano. Una vecchia ruggine relativa al David. Michelangelo non perdonò mai a Leonardo di aver trattato con sufficienza, e sufficienza è dir poco, quel bel tocco di marmo. «Ohilà, messer Buonarroti, che piacere vederla qui a Roma. Perché stasera non viene a desinare meco? Ho da farle vedere i miei studi anatomici sul cerebro umano, così poi, nel caso, ci cava qualche idea pe’ le su’ cosucce, che ne dice? Se non ci si dà una mano tra noi sodomiti...». No, pare poco credibile. 
Ma poi perché su questa benedetta sezione sagittale mediana del cervello non c’è uno straccio di descrizione fino a XVII secolo inoltrato? L’ho già scritto: fino alla «prima metà del Cinquecento si sapeva poco o nulla dell’anatomia del cervello, e per una semplicissima ragione: non si era ancora giunti ad approntare un valido allestimento del tessuto cerebrale in grado di consentirne lo studio macroscopico. Trattandosi di un organo che va incontro a fenomeni degenerativi in tempi brevissimi dopo il decesso, all’apertura della scatola cranica gli anatomisti dell’epoca trovavano al più solo un’informe poltiglia. Non è un caso, infatti, che fino alla metà del Seicento gli studi anatomici relativi al sistema nervoso centrale rendessero conto solo delle formazioni più resistenti ai processi putrefattivi post mortem, come i nervi cranici e il tronco encefalico, mentre il rilievo delle formazioni incluse nelle masse emisferiche trova solo riscontro occasionale e per giunta controverso». Dice niente il fatto che quanto di meno controverso v’è riguardi esclusivamente l’architettura del sistema liquorale?
Ma questo mi rendo conto che non possa bastare a dissuadere definitivamente chi abbia a cuore sostenere la solidità della congettura di un Michelangelo neurologo. Pazienza. 



lunedì 26 dicembre 2016

[...]


Non riesco a trovare sugli ultimi numeri delledizione cartacea de Il Foglio larticolo datato 22.12.2016 a firma di Giuseppe Bedeschi cui mi rimanda il link allegato a un tweet col quale @ilfoglio_it lo segnala alle 9:20 del 26.12.2016, e già questo minstilla un po dinquietudine: non lho trovato perché so cecato o sè consumata limperdonabile scostumatezza di negare limprimatur a un accademico di così preclara fama? Nulla rispetto all’inquietudine che monta in me scorrendo l’articolo, e che provo a rintuzzare ipotizzando che il Giuseppe Bedeschi che l’ha scritto sia un omonimo, semmai un nipote, del cattedratico che per decenni si è interessato del pensiero liberale. Questo qui, infatti, scrive che «la nostra Costituzione non parla di potere giudiziario, bensì di “ordine giudiziario” (art. 104)», ma quando lo stesso articolo prosegue dichiarandolo «autonomo e indipendente da ogni altro potere», quell«altro» non gli conferisce levatura pari a quella del potere legislativo e di quello esecutivo? Donde nasce, d’altronde, la classica tripartizione che sta a fondamento dello stato di diritto se non dal distinguere e separare le tre funzioni della sovranità che invece ogni forma di dispotismo vuole indivisibili? Ed è credibile che questa separazione possa dirsi bilanciata, com’è fin dallo scopo che essa si dà, con l’assegnare potere solo a due delle tre parti in cui la sovranità va suddividersi?
Il Bedeschi che firma il pezzo su ilfoglio.it, omonimo o nipote che sia del Bedeschi che ha consumato tutta la sua vita nello studio del pensiero liberale, dice che su questo tavolino a tre gambe, di cui una devessere più corta delle altre due, lo stato di diritto reggerebbe bene lo stesso, anzi addirittura meglio. D’altra parte, aggiunge, Montesquieu non lo si è mai letto come si deve, e «molto erroneamente gli si attribuisce una dottrina della “divisione dei poteri”», perché ne De l’esprit des lois tratta del potere giudiziario «con molta circospezione».
Sia, passiamo a considerare in cosa consista, questa «circospezione», ma prima sia lecita una domanda: mentre, tutto circospetto, Montesquieu affronta la questione, smette mai di dire che quello giudiziario è un potere? Mai. Nel solo Capitolo VI del Libro XI, quello nel quale si affronta di petto la questione della tripartizione, lespressione «potere giudiziario» ricorre almeno quattro volte, se non so’ cecato e non me n’è sfuggita una quinta. Ed è vero che Montesquieu lo vorrebbe, «per così dire, invisibile o nullo», come larticolo su ilfoglio.it ci rammenta, ma in un contesto nel quale – qui il Montesquieu lo cito io – «uno dei grandi inconvenienti della democrazia» è che «il popolo non è per nulla adatto a discutere gli affari pubblici», sicché «non deve entrare nel governo che per scegliere i propri rappresentanti», precisando peraltro che «il corpo rappresentativo non dev’essere scelto per prendere qualche risoluzione attiva, cosa che non farebbe bene», ma solo «per emettere le leggi» e «per vedere se sono state eseguite a dovere», ma sia chiaro che «adattissima a produrre questo effetto è la parte del corpo legislativo composta dai nobili», e che «il corpo dei nobili dev’essere ereditario».
Qui sia consentito un inciso. Diciamo che il liberalismo non nasce molto democratico, né lo diventa subito, basti pensare a cosa scriverà Tocqueville cent’anni dopo: «Ho per le istituzioni democratiche un gusto della mente, ma sono aristocratico per istinto, cioè disprezzo e temo la folla. Amo con passione la libertà, la legalità, il rispeto dei diritti, ma non la democrazia» (Mon instinct, mes opinions – 1841). D’altronde, via, anche la democrazia non nasce propriamente democratica, basti pensare all’Atene del V secolo a.C., nella quale la schiavitù era la più evidente contraddizione al principio di eguaglianza di diritti e di doveri. C’è poco da stupirsi, quindi, se quello descritto da Montesquieu non ci pare affatto uno stato propriamente liberaldemocratico, tutt’al più c’è da aspettarsi che questo offra il fianco alla critica di scuola marxista che nel liberalismo vede un subdolo strumento di oppressione della borghesia e bla-bla-bla. E tuttavia si noti bene che, pure in un contesto come quello che abbiamo ritagliato dalle citazioni prese dal De l’esprit des loisMontesquieu non nega mai la prerogativa di «potere» alla funzione giudiziaria.
Ma torniamo all’articolo. Prende spunto dall’autospensione che, in seguito a un avviso di garanzia, il sindaco di Milano si è autosomministrato per meno di una settimana: è accaduto che Il Foglio si è precipitato a scrivere che questo è «il termometro di un’incapacità della politica a saper resistere al potere mostruoso esercitato dalla magistratura», e il Bedeschi si precipita a ribadirlo ricorrendo allautorità di uno dei «grandi pensatori liberali», il Montesquieu giust’appunto.
Già, ma come si porrebbe, il Montesquieu, dinanzi a un caso come quello di Milano? Semplice a dirsi: «i grandi sono sempre esposti a invidia, potrebbero trovarsi in pericolo se giudicati dal popolo», e quindi è il caso che «i nobili non siano chiamati a comparire davanti ai tribunali ordinari della nazione, ma davanti a quella parte del corpo legislativo che è composto da nobili». Nemmeno davanti a tutto il corpo legislativo, ma solo davanti alla parte composta dai suoi pari, e pari per diritto ereditario. E qui ritengo si possa evitare di andar oltre, supponendo si sia data piena giustificazione della fama di «grande pensatore liberale» che Montesquieu si è guadagnato presso i liberali di tipo bedeschiano. 
Ultima citazione, anche in questo caso tratta dall’opera di un nobile, non barone come Montesquieu, né visconte come Tocqueville, ma addirittura principe. Di Bisanzio, per la precisione.

domenica 25 dicembre 2016

[...]


Solo un farabutto può rimanere insensibile all’amarezza che gronda dall’intervista che Giorgio Napolitano ha concesso a Mario Ajello per Il Messaggero di giovedì 22 dicembre, ma per trarne godimento, laddove dellemerito non si sia mai tollerato lindebito esorbitare dalle sue prerogative istituzionali, si dev’essere proprio un mascalzone, e una vera carogna, poi, per goderne al punto da lasciarsi scappare, per grata riconoscenza allannuncio del suo ritirarsi a vita privata, quel solenne «vafammoccammàmmete!» che nella suburra sta a sigillo dogni estremo congedo. Niente di tutto questo da noi che siamo danimo nobile e d’indole gentile, mancherebbe altro. Letteralmente: mancherebbe altro. 


sabato 24 dicembre 2016

Rectius


Spesso rinuncio a intervenire in dibattiti che sollevano questioni sulle quali mi sono già ampiamente espresso in precedenza, ma nel caso posto dalla campagna che Il Foglio pare aver intrapreso per sollecitare un tribunale a dichiarare «lillegittimità costituzionale del Movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio» (non si era detto che la stampa fa sempre troppa indebita pressione sulla magistratura?) credo valga la pena tornare al punto in cui rilevavo che «i partiti italiani – tutti, quindi non fa differenza se rigettano la denominazione, preferendo quella di movimento – sono enti di fatto, non persone giuridiche, e come tali non hanno da dover render conto a chicchessia dei loro statuti, né di come è retta la loro vita interna» (Malvino, 9.8.2016).
Su queste pagine non si sono mai risparmiate critiche al M5S, talvolta anche feroci, e tuttavia spesso ho dovuto respingere con fermezza linsinuazione che io gli riservassi qualche simpatia solo per aver scritto che molti suoi avversari non avevano alcun diritto a muovergliene di simili.
Con quale faccia tosta un radicale può dare del settario a un grillino, Forza Italia può accusare il M5S di essere un partito-azienda, Salvini definire Grillo populista? Con quale faccia tosta un De Luca può avere da ridire su un Di Battista, un Orfini su un Di Maio, una Picierno su una Taverna? Con quale faccia tosta si possono sollevare critiche sulla democrazia interna al M5S, sulla gestione del suo simbolo, sullamministrazione delle sue risorse, da dirigente, militante o anche semplice elettore di un partito che non gli è per niente diverso, e in più si pappa ogni anno diverse milionate di denaro pubblico?
Lasciamo perdere, mi stavo facendo prendere la mano, torniamo alla brillante idea di sciogliere il M5S perché dentro non cè abbastanza democrazia (per inciso: dalle pagine di un giornale fondato da uno che nel Pantheon ci ha accatastato Togliatti, Craxi, Berlusconi, Benedetto XVI e Renzi, che nelle rispettive ditte, si sa, hanno sempre fatto respirare democrazia a pieni polmoni).
Ripetendomi: è fattualmente impossibile, e giuridicamente illegittimo, metter naso nella vita interna di un partito o di un movimento fino a quando non si procederà a ridefinirne la natura, conferendogli lonere di persona giuridica. Fino ad allora, «la loro linea politica continuerà ad essere tracciata a dispetto delle tesi congressuali e dei programmi elettorali, potendo così continuare a tradire la volontà dei loro elettori e degli stessi iscritti; ruoli e incarichi continueranno ad essere assegnati per cooptazione, sulla base del solo merito di una fedeltà da ottusi gregari, che è il miglior modo per selezionare la peggior classe politica; a compilare le liste elettorali continueranno ad essere i membri di segreteria; a disporre della cassa, per lo più piena di denaro pubblico, continuerà ad essere chi di fatto – e in sostanza anche di diritto – è padrone del partito». E nel caso del M5S si potrà arrivare perfino al paradosso che sarebbe lultimo a dover esser sciolto. Può darsi che sia questa la ragione per cui in Parlamento non è mai arrivato in discussione un disegno di legge che conferisca lonere di persona giuridica ai partiti politici.
Resta tuttavia la necessità di far fuori il M5S in qualche modo, capisco, e pare non basti rimangiarsi lItalicum, che adesso non va più bene solo perché i sondaggi dicono che favorirebbe la discesa degli Hyksos: occorre altro, e non si sa bene cosa, sicché si procede a tentativi, senza tener conto che probabilmente è proprio il non riuscire a trovarne uno efficace – rectius: democraticamente efficace – a renderlo sempre più forte.

giovedì 22 dicembre 2016

Simply clever

Quando si è dentro al cambiamento, è pressoché impossibile aver piena comprensione della sua portata, tanto meno prevedere quali ne saranno i tempi e i modi, e ancor meno prospettarne gli esiti. Già è tanto riuscire a cogliere alcune delle forze in atto, tentare di individuarne i vettori, costruire gerarchie di probabilità, ma nutrire convinzioni su quella che ne sarà la direttrice, o addirittura darle solidità di visione, non è che una scommessa: ci si può azzeccare, e allora ci si guadagna fama di profeta, oppure no, ma almeno l’ansia si è stemperata in letteratura di evasione.
Altra cosa, ovviamente, è osservare il cambiamento dallesterno, e altra ancora è analizzarne lo sviluppo e il risultato quando il processo può dirsi concluso, dove comunque nulla garantisce una migliore comprensione di cosa stia cambiando o sia cambiato, e di quanto, e di come, per limitarsi a esserne condizione minima necessaria.
A voler essere pignoli, in realtà, nessuna osservazione prescinde mai del tutto dallosservatore, che inevitabilmente altera sempre ciò che intende analizzare per il solo fatto di doverci necessariamente metter mano. In tal senso, anche senza dover ricorrere ad esempi come lentanglement di Schrödinger o il controtransfert di Freud, potremmo dire che si è sempre dentro al cambiamento che si intende comprendere, sia quando è in atto, sia quando è già compiuto, e nondimeno il bisogno di capire resta: la certezza di non poter mai cogliere del tutto lessenza del fenomeno non può paralizzarci, abbiamo il dovere di produrre modelli sempre migliori, pur rassegnandoci a sapere che non ne esiste uno perfetto.
Ma quale soluzione ci è data quando il cambiamento dentro il quale siamo ci ha sottratto ogni strumento per produrre un modello di realtà che sia dotato almeno di una coerenza di sistema? Non ci resta che la fierezza della contraddizione, lorgoglio della confusione, lesibizione di un Io-ossimoro che si fa vanto di essere «poco razionale», ma che nel saper «pensare con la sua testa» riesce a trovare, chissà come poi, garanzia di autocoscienza e di autodeterminazione.
Nessuno meglio di un esperto in messaggi pubblicitari sa cogliere lo spirito dei tempi, e allora ecco lo sproposito di un umanesimo «emozionalmente pragmatico», sospeso nel vuoto lasciato dalla crisi dei «veri valori» a urlare «sono», «posso», «voglio», senza saper dire cosa, nella convinzione che questo basti a dargli senso, «semplicemente». 
Siamo davvero messi male, almeno questo mi pare emerga chiaramente dal monologo di uno che non sa neppure trovare il bandolo del groviglio che lo avvolge e tuttavia pare decisamente convinto che il solo agitarvisi dentro possa bastare a renderlo «clever». Consegniamo agli storici questo documento che meglio di ogni altro parla della nostra impotenza. 

martedì 20 dicembre 2016

Giacché

Giacché nel linguaggio corrente è sempre più frequente luso di espressioni che invece fino a qualche tempo fa erano oggetto di severo biasimo per il loro eccesso di colore, penso sia ipocrita pretendere che ad astenersene debba essere proprio quel ceto politico che di continuo si rimprovera di essere troppo distante dalla gente comune, quindi ritengo sia del tutto fuori luogo dare addosso a Giachetti perché ha dato del «faccia di culo» a Speranza: concedo sia espressione forte, e anche volgare, ma non dimentichiamo che «volgo» sta per «popolo» e che «culo» è usato anche da Dante Alighieri (Inferno, XXVI).
In conclusione, direi che tutta questa indignazione nei confronti di Giachetti sia francamente immotivata: ritenendo spudoratamente incoerenti le odierne posizioni di Speranza sul Mattarellum rispetto a quelle che lo stesso sosteneva in passato, si è servito di un’immagine di forte impatto per dare maggiore efficacia alla propria riprovazione di tale atteggiamento, questo è tutto.
Non si trascuri, inoltre, che Giachetti nasce radicale, quindi ha nel sangue quella smania di visibilità mediatica che non si fa scrupolo di esser soddisfatta ricorrendo a provocazioni apparentemente estemporanee, ma in realtà assai ben studiate: cosa di meglio c’era, in una noiosa assise del Partito Democratico, per esser riscaldato dai riflettori dopo la gelata delle Comunali di Roma? Si chiuda un occhio, via, ché in fondo un «faccia di culo» non ha mai ucciso nessuno.
Post hoc, ma soprattutto propter hoc, andrebbe trovata un’espressione altrettanto pertinente per un tizio – Giachetti, appunto – che prima mi fa uno sciopero della fame per abolire il Porcellum, e poi mi vota lItalicum: io direi «testa di cazzo». 

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Ho una figlia che vive e lavora allestero, quindi credo di aver diritto a uninterlocuzione diretta con Giuliano Poletti, che prima dice: «Il paese non soffrirà ad averla più fra i piedi», e poi: «Chiedo scusa, mi sono espresso male».
Volevo innanzitutto dirgli che è un incommensurabile pezzo di merda e subito dopo, nel caso si ritenesse offeso, assicurarlo che mi ha travisato.

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Se quella che Renzi ha offerto allAssemblea nazionale del Pd era la tanto attesa analisi della sconfitta rimediata il 4 dicembre, provate a immaginare cosa sarebbe stata lanalisi di uneventuale vittoria, e quali reazioni avrebbe suscitato nella platea dell’Ergife. Cetre, cimbali, siringhe, e fra due ali di folla scossa da orgasmi multipli, su un tappeto di petali di rosa, ecco avanzare il mastodontico Io-Minchia del vincitore portato in spalla dai suoi fedelissimi. Una processione di quelle che Kerényi ci ha descritto in Dionysos, più o meno. E sarà pure bello aver salvato la Costituzione, ma è l’esserci risparmiati ’sta φαλλοφορία che non ha prezzo.

sabato 17 dicembre 2016

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Al M5S resta ununica scappatoia per non pagare a caro prezzo la leggerezza di aver candidato Virginia Raggi al Campidoglio, e chissà che non possa addirittura guadagnarci qualcosa: non più tardi di domenica o lunedì, deve ufficialmente chiederle di dimettersi, sperando che ella opponga una qualsiasi resistenza, anche blanda, fosse pure in forma dindugio, per espellerla subito dal movimento e, a seguire, prodursi pubblicamente in una spietata autocritica, meglio se esagerando in severità e in contrizione, su quanto sarà il caso di presentare come unimperdonabile concessione di autonomia decisionale, un cedimento alla logica che l’eletto non debba avere vincoli di mandato. Virginia Raggi dovrà necessariamente uscire a pezzi da questa autocritica: si dirà che troppo tardi si è compreso chi fosse davvero, che si è peccato di inescusabile leggerezza nel non saper comprendere per tempo di quali interessi fosse referente, eventualmente si concederà che per far breccia nellelettorato benpensante si è ceduto alla tentazione di candidare un volto carino, ma questo sarà il caso di non dirlo esplicitamente. Di notevole importanza sarà ammettere che una prova come quella del Comune di Roma ha investito il movimento di una responsabilità sentita tanto gravosa da portare ad avallare la scelta di alcuni tecnici che il Sindaco assicurava fossero di grande competenza, con ciò attenuando la rigorosità del controllo sul loro profilo morale, sul loro mondo di appartenenza, ecc.: il M5S ammetterà di essersi fidato troppo di Virginia Raggi, di averla lasciata fare troppo, di non essere intervenuto prima, quando si faceva strada il sospetto che le sue decisioni fossero improvvide o addirittura eteroguidate, e che di questo chiede scusa agli elettori, assicurando che non accadrà mai più. Indispensabile, su questo punto, rimarcare la differenza con le altre forze politiche, respingendo col dovuto sdegno ogni tentativo di equiparazione.