giovedì 6 maggio 2010

Reliquia e icona, comunque feticcio


Il fatto che la Sindone di Torino sia stata definita “icona” da Benedetto XVI, e non “reliquia”, è stato sottolineato da un gran mucchio di penne, anche assai dotte, e tutte hanno appuntato a margine la sostanziale differenza del significato dei due termini.
Bene, io considero questa differenza del tutto irrilevante al fine ultimo che la Santa Sede affida al telo nell’economia salvifica: può non essere “reliquia” (s’è scritto pure che Giovanni Paolo II l’abbia definita tale, ma a me non risulta), può non esserlo, perché da icona serve in egual modo, e cioè da “feticcio”. Mi spiego subito, per evitare che si consideri arbitraria l’introduzione di questo terzo termine nella questione.
Se il mistero è trascendente, ciò che ne dà traccia nell’immanente è suo segno: tra reliquia e icona c’è solo differente profondità del segno, e Cristo sta a quel telo come il significato sta al significante.
Si vuole una prova? La dà proprio Benedetto XVI, subito dopo aver detto che la Sindone è icona: “Infatti essa è un telo sepolcrale, che ha avvolto la salma di un uomo crocifisso in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù, il quale, crocifisso verso mezzogiorno, spirò verso le tre del pomeriggio”.
Quell’“infatti” è meno paradossale di quanto sembri, perché esprime l’elemento feticistico comune a reliquia e a icona. Per dire, se al polso del morto, sull’icona, ci fosse impronta di orologio fermo alle tre, il telo sarebbe concorde ai Vangeli, e da feticcio potrebbe funzionare tale e quale. Tutt’è poter far conto su quanto i feticisti siano disposti a chiudere un occhio.

mercoledì 5 maggio 2010

L'Unità d'Italia per Santa Sede e Lega: perché e soprattutto come.


Sull’Unità d’Italia – intesa come evento storico e sua ricorrenza – si vanno delineando posizioni che solo in apparenza sono concordi o discordi. Le posizioni di Santa Sede e Lega, per esempio, sembrano discordi, ma non lo sono affatto, come dimostra quanto scrive Francesco D’Agostino (Avvenire, 5.5.2010), che, dopo aver definito l’Unità d’Italia “evento storico di grande rilevanza” e “ricorrenza di grande valore, celebrare la quale [è] un dovere e non un’opzione facoltativa”, passa a dare le definizioni di Unità e di Italia, sulle quali un leghista non avrebbe nulla da ridire.
L’Unità – quella che si realizza nel 1861 – è mera ratifica storica, evento epifenomenico di una identità italiana antecedente ad ogni guerra di indipendenza, antecedente ad ogni invasione e dominio straniero, connaturata – indovinate in cosa – nel suo carattere cristiano. Letteralmente: “L’Italia, da un punto di vista culturale, artistico, linguistico e soprattutto religioso, era già unita da secoli e secoli [prima del 1861]. L’Italia è, dunque, un fatto metastorico, è la perifrasi geografica di un carattere “soprattutto religioso”: l’evento storico del 1861 dà a questo carattere una dimensione statuale, ma quella nazionale è antecedente alla fondazione dello Stato unitario, ed è identità di nazione cristiana.
Messo questo paletto, Francesco D’Agostino ci si appoggia e lamenta confusione tra statuale e nazionale, confusione che lo Stato fa pesare alla Nazione, al punto che la “troviamo perfino nella nostra Costituzione, quando parla di territorio «nazionale» (art. 16) oppure quando (art. 87) afferma che il presidente della Repubblica rappresenta l’unità «nazionale»”. Trattandosi di entità identitaria “soprattutto religiosa”, provate a immaginare chi debba essere considerato rappresentante dell’unità nazionale al posto del presidente della Repubblica. “È evidente che tra Stato e Nazione esiste uno strettissimo rapporto – concede Francesco D’Agostino – che [però] non giustifica però l’assimilazione dei due concetti. Lo Stato fa riferimento al «potere» (e alle modalità del suo esercizio), la Nazione invece all’«identità» di un popolo (e alle sue forme espressive)”, che – ripetiamolo – sono culturali, artistiche, linguistiche e soprattutto religiose: è fatta bella sintesi della doppia obbedienza (a Cesare e a Dio) e della doppia fedeltà (allo Stato e al Papato) che, quando maturano contraddizione interna, non rendono difficile scegliere quale sacrificare.
Siamo ancora e sempre alla Lettera a Diogneto: è fatta giustificazione della disobbedienza al “«potere» (e alle modalità del suo esercizio)”, che sono laiche per principio, in favore dell’obbedienza alle espressioni identitariamente congrue alla natura di una Nazione cristiana, anzi cattolica, quando è necessario. Ed è necessario quando a dichiararlo tale è il rappresentante dell’unità nazionale, che incidentalmente ha prerogativa magisteriale.
E dunque “è indubbio che l’Italia attraverso l’Unità abbia consolidato indirizzato lo sviluppo della sua economia, abbia ottenuto maggiore attenzione nel concerto politico d’Europa, abbia garantito che alcune delle sue regioni più povere ottenessero significativi benefici, abbia soprattutto favorito movimenti demografici al proprio interno, indispensabili per la modernizzazione del Paese. Non dimentichiamoci però che ciò è potuto accadere perché, già molto, molto prima di costituirsi in Stato unitario, l’Italia si era già costituita, attraverso la sua lingua, i suoi costumi, la sua arte, la sua religione in nazione e tra le più antiche d’Europa”.
Bello, eh? E però rimane un problemino: com’è che questa nazione così antica, naturalmente espressa come identità cristiana, si è così tenacemente opposta alla fondazione dell’Unità statuale? Che senso acquista, la breccia di Porta Pia, in questa graziosa costruzione di Francesco D’Agostino? La Nazione italiana voleva o non voleva l’annessione dello Stato Pontificio al Regno di Savoia? In parte sì e in parte no, potremmo dire, se non vogliamo che la graziosa costruzione crolli.
E che sostengono, i leghisti? La stessa cosa. C’era chi voleva l’Unità d’Italia e c’era chi non voleva, c’è chi l’accetta di buon grado e chi a fatica. Sia, ma si affermi che è espressione di un potere, non di una identità. Il primo è riformabile, l’identità no. Tra la fedeltà allo Stato e la fedeltà ad una identità di Nazione (padana in quanto pre-italiana), quale è sacrificabile?

“Lei è un bugiardo e un mascalzone, vada a farsi fottere” (Massimo D'Alema - Ballarò, 4.5.2010)


Però dandogli del lei, pur sempre segno di un certo autocontrollo.


martedì 4 maggio 2010

Segnalazione

Le spente luci della città.

1977


Oh, nooo!



Mi pare disonesto il voler vincere a tutti i costi, non il riuscire anche a perdere pur di togliersi uno sfizio. Non mi sembra affatto scandaloso il comportamento della Lazio, né quello dei tifosi laziali. Male solo per l’assenza della virgola e del punto esclamativo.

Non è possibile riforma della Chiesa


Sul numero di Internazionale ancora in edicola (844/XVII) è pubblicato un articolo di Paul Kennedy, tradotto da Bruna Tortorella, apparso il 13 aprile sull’International Herald Tribune, e che vale la pena di leggere (qui, nella versione originale).
Kennedy chiede sforzi terribili alla Chiesa: “the strongest possible affirmation of the doctrine of the sheer evil of the abuse of power and trust”, “to remind all clergy that sexual abuse is not only a mortal sin but also a major transgression of criminal law”, “to articulate a sensible and just way of dealing with the superiors of the abusers”, tutta roba che la sovvertirebbe dal di dentro.
Dal di dentro, la Chiesa si sente corpo mistico di Cristo, i suoi preti vengono “costruiti” in questa convinzione: gerarchia organica dove le parti non si sentono distinguibili dal tutto, sicché Kennedy pretende davvero troppo, cioè che la Chiesa si abbassi ad essere una comunità qualsiasi.
È sul suo peculiare che la Chiesa pensa di aver sempre puntato con profitto, e nulla le farà cambiare idea nel posto dove l’idea si forma: durare è il suo unico scopo, oltre e sopra ogni altra cosa, anche a dispetto delle apparenze. Non è possibile riforma della Chiesa, se non posticcia.

Bastavano gli auguri degli uiguri


Solo Federico Orlando dalle pagine di Europa faceva gli auguri a Marco Pannella, sabato 1° maggio. Il giorno dopo cadeva il suo 80° compleanno e le cose non erano troppo diverse: due o tre brevi sul cartaceo, praticamente nulla alla tv e sul web non andava meglio (non più di sei o sette blog facevano cenno alla ricorrenza).
Con candida spudoratezza non tratteneva l’amarezza, il monumento, e nella conversazione domenicale a Radio Radicale confessava di aver ricevuto sms solo dagli intimi: il Regime non s’era fatto vivo, dal Palazzo nessun affettuoso messaggio. Troppo tardi per avere un riscontro il giorno dopo, ma oggi, martedì 4, qualche attenzione s’è smossa: ancora Federico Orlando, Furio Colombo, e poi il solito pensierino buono per la sua nomina a senatore a vita, che ormai è un tormentone. Insomma, il solito giretto stanco attorno al monumento, qualche piccione l’ha sorvolato senza scacazzo, niente banda, pochi fiori.
Sarebbe la conferma dell’odiosa consegna del silenzio imposta ai media dalla odiata partitocrazia: un resistente dovrebbe trarne conforto per le proprie tesi e, volendo, esaltazione. Bastavano gli auguri degli uiguri, per dire, ma è evidente che non siano bastati a Marco Pannella.

L'ennesimo Michelangelo-non-Michelangelo



Everett Fahy è stato a capo del dipartimento di pittura europea del Metropolitan Museum per molti anni e per molti anni ha avuto sotto gli occhi la Testimonianza di San Giovanni Battista lì esposta, ma solo adesso se ne viene con la bella idea che l’opera non sia di Francesco Granacci ma di Michelangelo Buonarroti. Ad esser più precisi, non è che lo dica, ma lo suppone sulla base di elementi tanto inconsistenti da far venire più di un dubbio. Esaminiamoli.
Una figura tenderebbe l’indice come in un disegno di Michelangelo conservato al British Museum (Il Filosofo), ma basta anche solo un superficiale raffronto per verificare notevoli differenze sulla postura del tronco e del braccio, oltre che sull’angolo tra polso e dito.
Un’altra figura – femminile e chiusa in un ampio panneggio – avrebbe posa simile a quella di una figura – maschile e nuda – dipinta da Michelangelo sullo sfondo del Tondo Doni: anche qui ci vuole molta fantasia per vedere una analogia, se non per le gambe incrociate, ma nel dipinto di Michelangelo la gamba sinistra è posta sulla destra, mentre nella Testimonianza di San Giovanni Battista è il contrario.
La posa del Battista richiamerebbe quella di un nudo michelangiolesco conservato al Louvre ma, anche qui, le differenze sono numerose: la massa muscolare, l’inclinazione e la torsione del busto sulle anche, la linea delle spalle, la disposizione delle braccia, i tratti del volto.

Di ancora minor peso le altre “prove”: il fatto che il dipinto sia ad olio, mentre il Granacci preferiva la tempera (vero, ma non esclusivamente); il fatto che all’indagine radiografica siano stati rilevati pochi disegni preparatori sotto la pittura (come se un elemento del genere sia degno di essere preso in considerazione per attribuire un’opera a chi non ne faceva affatto); il fatto, infine, che l’opera potrebbe essere attribuita a Michelangelo perché la data della sua realizzazione coinciderebbe con un periodo nel quale era libero da commesse (e qui non vale neanche la pena di considerare la solidità di una “prova” del genere).
Ciò che stupisce, tuttavia, è che a nessuno sia venuto in mente di fare una semplice considerazione relativa a un elemento che molto ben rappresentato nella Testimonianza di San Giovanni Battista: le rocce che riempiono la scena. La loro conformazione non trova alcun analogo in quelle ritratte nelle opere sicuramente attribuibili a Michelangelo, basti pensare alla varietà che ne è offerta negli affreschi della Cappella Sistina e a quelle che fanno da sfondo alla Crocifissione di San Pietro o alla Battaglia di Cascina. Le rocce dipinte nella Testimonianza di San Giovanni Battista, invece, sono in tutto simili a quelle che Francesco Granacci ritrasse nella pala di sinistra del Trittico della Crocifissione o sullo sfondo a destra nella Madonna della Cintola.

Non è tutto. Nella Testimonianza di San Giovanni Battista la proporzione tra il capo e il tronco non è affatto michelangiolesca e molte figure sono ritratte con una rigidità che, se bisogna pensare almeno a un contributo di mano diversa da quella del Granacci, a tutti si può pensare tranne che al Buonarroti. Impensabile, ad esempio, che un Cristo come quello qui raffigurato sia opera di Michelangelo: basta uno sguardo alle pieghe della sua tunica.
Per non parlare della vegetazione che fa da sfondo, in tutto simile a quella dipinta dal Granacci in Giuseppe dinanzi al Faraone, e degli uccelli che volteggiano in cielo, uguali a quelli nel cielo della Adorazione di Gesù Bambino.
La Testimonianza di San Giovanni Battista è proprio del Granacci, e in ogni caso nulla prova che Michelangelo ci abbia messo mano.

Il mio 5xmille


Un lettore gli aveva fatto notare che una pubblicità strillasse a tutta pagina: “Usa il preservativo!”, il giorno prima, sullo stesso numero che apriva con un suo editoriale di condanna della “cosa più schifosa che sia mai stata inventata”, e cioè del preservativo. “Figura di cacca – ammise Giuliano Ferrara – ma la pubblicità ha i suoi costi e i suoi ricavi” (Il Foglio, 4.12.2007).
A quel lettore parve risposta piena e onesta, sicché bonariamente chiuse un occhio quando dall’archivio de ilfoglio.it scomparve il .pdf della “figura di cacca” (3.12.2007), tuttora irreperibile. E lo chiuderà anche stavolta che Il Foglio pubblica a tutta pagina una pubblicità che invita a destinare il 5xmille all’Associazione Luca Coscioni, a sostegno delle sue battaglie in favore di “libertà di ricerca scientifica, fecondazione assistita, testamento biologico, eutanasia, pillola del giorno dopo, Ru486…”.
Tutta roba che un fogliante comme il faut schifa fin dal profondo delle sue viscere, ma allora vuol dire che la questione dei costi e dei ricavi di questa pubblicità si sposta da Il Foglio all’Associazione Luca Coscioni.

C’è da supporre che la pubblicità non riuscirà a convincere molti foglianti. Chi abbia una mezza idea di destinare il proprio 5xmille proprio all’Associazione Luca Coscioni, dunque, sarà legittimato a chiedersi che senso abbia spendere dai 5.000 ai 10.000 euro, se non di più, per una pubblicità con quei contenuti su un giornale di quel genere? Vogliamo biasimarlo se gli sembrasse di buttare i propri soldi nel cesso?
Ok, Luigi Manconi e Angiolo Bandinelli sono dirigenti dell’Associazione Luca Coscioni e anche collaboratori de Il Foglio, certe reciproche carinerie sono quasi d’obbligo, eccetera. Ma può andar bene come spiegazione?

Avevo una mezza idea di destinare il mio 5xmille all’Associazione Luca Coscioni, ma penso che lo dirotterò all’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (92051440284), che almeno non lo spreca comprando spazi di pubblicità su Avvenire.   

lunedì 3 maggio 2010

Livelli


Al netto del lecito, Lory Del Santo arriva all’attico dove Claudio Scajola neanche al primo piano.

sabato 1 maggio 2010

Comunicazione di servizio


Il post qui sotto mi ha tutto sbrodolato di bile, vado a darmi una ripulitina alle terme. Ci si rivede lunedì sul tardi, al massimo martedì.

Intellettuali dei miei mocassini


Uno torna a casa, la sera, con la curiosità che lo divora dal mattino, quando ha letto un articolo di Goffredo Bettini e ha fatto il calcolo delle reazioni potrà scatenare in rete.
Sono le volte che uno sarebbe tentato di disdire ogni appuntamento di lavoro per restarsene tutto il giorno davanti al pc, a seguire in real time il montare della discussione nella blogosfera, l’accendersi dei fuochi di polemica, il comporsi delle varie posizioni sui punti sollevati dal Bettini, uno che nel Pd, cioè nel più grande partito di opposizione, non è certamente l’ultimo degli stronzoni.
Naturalmente uno va al lavoro, ma ogni tanto il pensiero torna all’articolo, e la curiosità lo morde: “Chissà che glossa ci starà scrivendo sopra, l’Adinolfi! Chissà che folgoranti bagliori di critica, il Civati, lo Scalfarotto, il Sofri, il Costa, il Gilioli! Chissà che colpi di bazooka da Beppe Grillo, chissà che pirotecnica di freddure e battutine dagli acari della blogosfera del più ambiguo centrosinistra! Ci starà già girando sopra un video, quel geniaccio di Zoro?...”.
Bene, uno torna a casa, la sera, e il climax gli scende nei mosassini: l’articolo di Bettini non ha piegato un pelo di cazzo a nessuno. E vabbe’ che Bettini sta in cantiere per la manutenzione, ma intelligenze del suo calibro non dovrebbero muovere la discussione? “Contro il nichilismo il centrosinistra non può non dirsi (e farsi) cristiano”, mica polpettine, e la blogosfera peri- e para-piddina? Un perfetto niente. Cose che avrebbe potuto dirle un Pera, e al Bettini non lo cagano neanche di striscio.

Chi li capisce, questi fighetti di centrosinistra. Stanno col naso appiccicato alla vetrina delle novità elettroniche e mediatiche, non si perdono neanche un cd di quelli che contano e, se hanno letto duecento libri, si sentono già insufflati di cultura. Pronti a spaccare il pelo in sedici sulle puttanate e, quando Bettini scrive: “La fede, grazia e dono, non diventa motivo di distrazione per inseguire progetti separati dal resto della società, ma misura del limite dell'umano, dentro il quale aprirsi all’altro, combattere, testimoniare, incontrare. Le immense risorse morali dei cattolici si possono così espandere in una molecolare risposta al nulla che dilaga, così come a ogni idea onnipotente (e sappiamo in politica quanto pericolosa) dell’azione umana. Per questa via diventa naturale e prezioso l’abbraccio con l’azione e la spiritualità del non credente” – be’, quando Bettini scrive questo, paiono distratti a fare ikebana.
E così Bettini scrive dell’“ideologia atea, che poi è un assolutismo”, ma scrive pure che “tutto ci è il contrario del relativismo”, che è “nella ricerca, nel dubbio, nel dialogo che la fede può esprimersi virtuosamente nella storia e illuminarla”, e nessun blogger di quelli che contano nell’area pare abbia da commentare. Intellettuali dei miei mocassini.


Nota
Dice, vabbe’, ma linkaci ’sto cazzo di articolo del Bettini, così lo leggiamo ed eventualmente se ne parla. Non linko un cazzo, dico io. Bettini non linka me, e io non linko lui.

Mai che ti mettano la musica di sottofondo ad hoc quando sarebbe necessario, eccheccazzo!



La difficile arte del far regali



“Nel quinto anniversario dell’elezione al Pontificato, il presidente della Repubblica Italiana offrirà il 29 aprile a Benedetto XVI un concerto in suo onore nell’Aula Paolo VI in Vaticano. Nell’occasione il presidente consegnerà al Papa un’edizione in ristampa anastatica del De Europa di Enea Silvio Piccolomini” (L’Osservatore Romano, 28.4.2010).

Mi sfugge il senso del regalare la copia anastatica di un libro a chi nella sua biblioteca ne ha copia originale (stampatore Adrianus van Heck, 1453). Sarebbe come regalare a Giorgio Napolitano la copia anastatica delle 47 tessere del Pci dal 1945 al 1991.

venerdì 30 aprile 2010

[...]


L’eroe che Il Foglio ci propone oggi, affidando la sua avventura alla sapiente cura di Nicoletta Tiliacos, è il cappellano dell’ospedale di Rossano Calabro (Cs), quel don Antonio Martello che andando per feti morti ne ha trovato uno vivo, e tutto eccitato attacca: “Quello che ho visto accadere domenica scorsa non mi era mai capitato prima”. Talvolta si eccitano con poco: basta che respiri.

La tregua


Quando ti viene offerto come affarone l’acquisto di x al prezzo di xv ≤ cg (dove xv sta per il valore dichiarato di x e cg sta per “il costo di un caffè al giorno”), qualunque cosa sia, abbonamento o tessera, tieni presente che raramente il barman sputa nella tazzina del caffè prima di mettertela davanti.

La gentile signorina che continuava a telefonarmi dallo 06/6826 (anche tre volte al giorno) ha finalmente afferrato il mio ragionamento, e da qualche giorno mi dà tregua.

giovedì 29 aprile 2010

Oggi la Divina compie 40 anni


“È mia, è mia!”


In un partito carismatico il meme non fluisce solo dal leader agli accoliti: meno evidente, certo, ma c’è un flusso di memi dal basso verso l’alto, sennò da dove piglierebbe, Berlusconi, le barzellette che racconta?
Non voglio parlare del Popolo della Libertà, ma dei radicali, prendendo a esempio la barzelletta che Pannella deve a Bandinelli, e di cui Bandinelli tiene a rivendicare la paternità con un orgoglio molto liftato, riproponendone lo sketch un giovedì sì e un giovedì no dalle pagine de Il Foglio, come stavolta: “Ho più volte espresso il mio dissenso nei confronti delle posizioni culturali e politiche di stampo laicista, e per questa mia avversione ho avuto rimbrotti e diffidenze anche da parte di amici e sodali”.

Quando la racconta Pannella, la barzelletta di Bandinelli è irriconoscibile, perché arricchita dai contributi di Pullia (roba new age), di Strik Lievers (armoniche cielline) e di Di Leo (fronzoli ratzingeriani). E però Bandinelli legittimamente saltella strepitando: “È mia, è mia!”, perché l’impalcatura della barzelletta è sua, è sua.
In breve, siamo dinanzi ad una “grande sfida politico/culturale alla quale né la laicità né la religiosità possono sottrarsi, pena la sconfitta”, e il loro nemico comune è il laicismo, una bestia atea, materialista, intollerante, che, a sentire il nostro, piglierebbe origine da Filippo il Bello, diventerebbe massonico per andare a innervare lo stato nazionale, fino a ispirare Lenin, Atatürk e Saddam Hussein. È che, quando s’accalora, Bandinelli si fa vento con le sue vecchie garzantine.

Laicità e religiosità contro laicismo, perché vera laicità è genuinamente religiosa (a meme metabolizzato, Pannella dice che i radicali sono alfieri della “religione laica”), mentre il laicista è ateo (senza nemmeno essere ateo devoto, sennò Bandinelli sarebbe disposto a chiudere un occhio).
Crocianesimo di risulta, insomma, la metafisica del pannellismo di stretta ortodossia.

Post





Luca Sofri non è molto soddisfatto di quella che sarebbe stata – scrive“la mia prima puntata di Ballarò”. Ce ne sarà almeno una seconda, dunque, e sarebbe interessante sapere chi gliene abbia dato assicurazione. Soprattutto sarebbe interessante sapere se questa assicurazione gli è stata data prima o dopo quella puntata.
Se gli è stata data dopo quella prova che egli stesso giudica infelice, avrebbe ragione a scrivere che “ci possono essere casi di incompetenze promosse senza che se ne capisca la ragione”. Se gli è stata data prima, invece, prenderebbe forza l’ipotesi avanzata da L’89, quella di “uso di mezzo pubblico a fini pubblicitari per un editore esterno”, dando ragione a chi sostiene che questo porrebbe gli estremi di conflitto di interesse, come fa Daniele Sensi, che a ragione commenta: “Si fosse trattato di personalità vicine al centrodestra, oggi la blogosfera tutta, costernata ed indignata, non parlerebbe d’altro”.
E invece se ne parla pochissimo, e quel pochissimo è affettuosamente soffice o ambiguamente reticente, fatta eccezione per Fulvio Abbate, che a Luca Sofri dà del “figlio di papà”, rinfacciandogli di godere dei benefici di un “supponente nepotismo di sinistra”: solo Abbate riprende l’immagine che Roberto Cota ha evocato a Ballarò per rintuzzare le maliziose insinuazioni di Sofri jr. su Bossi jr., quella del bue che osa dare del cornuto all’asino, e solo Jimmomo arriva al categorico (“un paio di stronzate e antipaticissimo”).

Ho visto la puntata di Ballarò assai distrattamente ma, se incrocio al post di Luca Sofri quel che me n’è parso in tv, senza ironia e senza voler far lo strambo a tutti i costi, direi che mai come oggi quel suo musetto da carlino mi torna simpatico: sa che ha fatto una figura di merda e per un attimo mette da parte quella posa da Maurizio Costanzo della blogosfera, facendo dimenticare perfino la sua Maria De Filippi e l’annessa corte di Amici, Saranno famosi, ecc.
Devo dire che, anche se mi è sempre stato sul cazzo, mai come oggi Luca Sofri mi fa tenerezza, e quasi mi pento di aver tante volte espresso giudizi severi nei suoi confronti [*]. È capace di capire che ha fatto una figura di merda: non è poco, depone in suo favore.
Prometto che da oggi in poi lo seguirò senza pregiudizio.

 
 
[*] Ai tempi in cui friggeva patatine in un McDonald’s, Giulio Meotti mi chiedeva consigli su come farsi notare da Giuliano Ferrara e m’intratteneva quotidianamente sulle ingiustizie che il mondo fa patire ai figli di nessuno, e i suoi lamenti s’appuntavano spesso sui privilegi dei figli di papà, e Luca Sofri era l’antonomasia che preferiva. Ne sarò stato influenzato.