Perde la Germania, perde la Francia, perde la Spagna, Italia e Inghilterra inchiodate al pari, va male a tutte le nazionali di grande tradizione: grande scalpore fra quanti amano dire che “la palla è rotonda”.
venerdì 18 giugno 2010
Neanche se si spremono.
Un splendido articolo di Christopher Hitchens, apparso lo scorso lunedì su The New York Times, ci è offerto dal Corriere della Sera di oggi privo della deliziosa ciliegina del titolo originale, che è Charles, Prince of Piffle. Il quotidiano che si dà arie da giornale per gente perbenino ha preferito Lo scivolone di Carlo, che così risulta essere assai più british di un Carlo, Principe della Cazzata, che sarebbe stato assai più fedele.
Non dirò quanto mi piaccia Hitchens, l’ho già detto altre volte. Nemmeno starò a lambiccarmi sulla tendenza che in una certa stampa perbenino mi rappresenta l’istinto coatto del borghesuccio che è sempre tentato alla cifoscoliosi dinanzi ad un qualsiasi zombie di una delle ingangrenite aristocrazie europee. (Triste strascico di fiabe, un’altra cattiveria che si fa ai bambini: inoculare loro che la monarchia sia una forma politica da sogno, perché fatta di sogno, fino al succedaneo della fiaba che ti rifila per Principe un Emanuele Filiberto di Savoia e per Principessa un’Alessandra Borghese.) Non di quello, non di questo.
Dirò solo che questi borghesucci del Corriere della Sera potranno pure comprarsi un articolo di Hitchens, ma non se lo meritano. Neanche se si spremono.
Non vuol dire niente
questo governo è alla frutta, hai letto il foglio?
pure ferrara spara su berlusconi…
se trovo tempo, ti rispondo con un post
Sì, ho letto: “impotente, rassegnato, ingloriosamente pronto a mollare tutto… si comporta spesso in modo buffo…”; e poi gli dà del “mattocchio”, dell’“inetto”, e scrive che “si comporta da sciagurato, da inabile…”. Sì, ma lasciatelo dire: non vuol dire niente. Tanto meno la cosa è un indicatore, come tu ritieni. È che anche tu ti fai suggestionare dal rumore delle parole di Ferrara: se i suoi protettori non muoiono o non fuggono all’estero, rimane sotto la loro ascella ed è questo, solo questo, ciò che dà misura di quanto l’ascella sia sicura, non il fatto che lì sotto Ferrara si lamenti.
Certo, gli dà del “gigantesco e barocco Ubu Roi”, scrive che “incorre in strafalcioni giganteschi” e si vede che soffre per la “ritirata non strategica” sulla legge-bavaglio, perché ancora una volta i suoi consigli sono stati buttati nel cesso… E però sta’ tranquillo: Ferrara non molla Berlusconi: al momento – e lo scrive – è ancora convinto che “gli sbagli lo attravers[i]no senza conseguenze” e che, “dopo un’estate così così”, è il caso che “la parabola torn[erà] ascendente”, che “questo paese a occhio e croce non gli volterà le spalle”, e che “non dovrebbe correre […] rischi [di un] Piazzale Loreto e altre carognaggini”. E dunque perché mollarlo?
Barrire, certo, ma giusto per sfogarsi un po’: gli aveva suggerito di ripescare la legge Mastella per inchiodare le opposizioni e, chissà, forse poteva pure funzionare, ma ancora una volta il Principe ha schifato Machiavelli e ha fatto di testa sua. Comprensibile l’amarezza e una puntina di risentimento, si possono capire le frecciatine a Ghedini e i patetici tentativi di fare ingelosire il Principe flirtando con Fini, ma fino a quando Berlusconi sarà in sella, o con una possibilità di tornarci se fosse disarcionato, Ferrara starà con lui.
Il fatto che si rivolga a lui come nessun Bondi o Cicchitto o Capezzone oserebbe mai non significa nulla: quelli no, ma Ferrara ha bisogno di dimostrare a se stesso, prima che agli altri, che il suo servilismo è un atto di libertà e che il raggio della sua catena gli consente un’ampia circonferenza attorno alla cuccia. Questo lo trattiene dalla conversione, per esempio: da devoto, ma ateo, può baciare la mano a Benedetto XVI continuando a sentirsi un vero ometto, che poi è l’aspirazione di ogni adolescente invecchiato male.
E tuttavia capisco se quel pezzo in prima pagina t’ha impressionato. In fondo serviva a quello: a impressionare. Anch’io, in altra occasione, ci sono cascato. Non so se già la sai, ma te la racconto lo stesso.
Ho votato Berlusconi nel 1994 e nel 2001 – come vedi, sono un cascatore nato – ma già sul finire del 2003 avevo capito che la “rivoluzione liberale” era una presa per il culo. Ho cominciato a mugugnare tra me e me, poi il mugugno m’è uscito. Fu in occasione dell’affossamento della grazia ad Adriano Sofri, che Berlusconi aveva promesso a Ferrara nel novembre del 2002, per rimangiarsela un anno e mezzo dopo. Che barriti!
A quei tempi scribacchiavo qualche letterina a Il Foglio, sicché colsi l’occasione per dire:
La risposta – tutto sommato ancora cortese – mi gelò assai più di quella data a un’altra lettera su quello stesso numero del giornale, che ingenuamente pensai fosse motivata solo da orgoglio.
Proprio per niente: la risposta a quel tal Nicola Milano faceva combinato disposto con l’editoriale del giorno prima. Avevo frainteso: quello che Ferrara aveva scritto il giorno prima su Berlusconi, su An e su Lega era solo uno sfogo del momento. La mia disillusione da liberale tradito non era quella di chi liberale non era mai stato, né lo sarebbe stato mai. Di lì a poco l’avrebbe scritto chiaro e tondo: aveva tentato, ma in fondo rimaneva comunista, più in generale convinto che l’unica democrazia possibile è un’oligarchia sapientemente mimetizzata.
Presi a disprezzarlo, come accade quando non si è capaci di ammettere di aver ammirato per fraintendimento. Felicemente ripagato, prima e dopo. Fine della storia.
Puoi fidarti quando dico che Ferrara recita dinanzi a se stesso, anche stavolta. Che poi il governo sia o no alla frutta, quella è un’altra faccenda, ma su quella Il Foglio – anche come indicatore – ormai conta poco o niente: ormai è più un’impercettibile contrazione del labbro superiore di Quagliariello o un aggettivo che esce involontariamente di bocca a Bonaiuti a fare da termometro al febbrone.
Rimando
Ho già paternamente ripreso Sandro Magister per l’avallo da lui dato alla farlocca interpretazione di un noto passo di Ambrogio (Expositio evangelii secundum Lucam, III, 23) – quello in cui la Chiesa è definita “casta meretrix” – fatta da un Biffi (Giacomo). Evidentemente non è servito, perché torna ad avallarne una non troppo diversa, e altrettanto farlocca, fatta da un altro Biffi (Inos) su L’Osservatore Romano del 18 giugno. Non posso annoiare i miei lettori ripetendomi: rimando il vaticanista de L’espresso al post nel quale gli ho spiegato perché quella che avalla come “larghezza di grazia” altro non è che “comportamento da puttana”.
La privacy, quando ci pare
Il Foglio ha scoperto la sacralità della privacy. Quando si tratta di piazzare un manipolo di ciellini in un centro per l’interruzione volontaria di gravidanza, passi. Quando si tratta di piazzare i body scanner negli aeroporti, pure. Ma quando si tratta di tutelare i momenti di intimità tra Agostino Saccà e Silvio Berlusconi, la privacy è cosa sacra: “basilare diritto del cittadino”, così recita l’appello in prima pagina.
In calce trovi la firma di Pierluigi Battista, che sui body scanner non più di sei mesi fa scriveva: “C’è sempre qualcosa di imbarazzante nello sguardo altrui che oltrepassa la soglia della pelle di ciascuno, scavalca la frontiera dell’invisibile che ciascuno di noi comprensibilmente custodisce come una sfera inviolabile. Ma non si rendono conto che quella frontiera è già stata sgretolata da intrusioni forse più immateriali ma non meno invadenti, prepotenti, arroganti. E allora perché allarmarsi proprio quando, in cambio di un momentaneo passaggio sotto l’occhio tecnologico che guarda nel corpo, si può incrementare la ragionevole certezza che il tuo viaggio non sia l’ultimo della vita?” (Corriere della Sera, 7.1.2010). Mi pare che la questione fosse ben posta: la privacy dell’individuo contro la sicurezza della collettività. Ma la collettività non ha alcun diritto di difendersi dalla corruzione? Spesso non fa più danni più di un attentato?
Appello in difesa del “diritto alla riservatezza”, contro quanto arrivi a “interferire nelle vite degli altri”, fino a “penetrare nei luoghi più reconditi e sacri del privato”: e sta sulla prima pagina di un giornale che invocava la presenza dei volontari del Movimento per la Vita alla Mangiagalli di Milano, a ravanare nelle ragioni che lì portavano una donna ad abortire.
Appello in nome di un “principio liberale”, perché, quando si tratta di parare il culo ai suoi compari, Giuliano Ferrara adora il liberalismo. Neanche gli salta per la testa l’idea di far risalire la nascita dell’“intimità” a punto in cui la necessità di coprirsi è tutt’uno con la coscienza del peccato (Gen 3, 8-11): il peccato, qui, non c’entra.
Ed ecco, dunque, che quel tanto vagheggiato progetto di società da rieducare alla morale giudaico-cristiana di colpo può fare a meno del concetto di peccato: almeno ai suoi compari spetta una zona franca, quella dell’inviolabile privato. Sul privato dei poveri cristi, invece, quello che riguarda l’intimità dei loro corpi e delle loro vite, Il Foglio non fa sconti: è roba di interesse pubblico.
A parte
Sugli appelli in generale, e su quelli de Il Foglio in particolare, una parola definitiva di Leonardo Sciascia (Luca Massaro).
A parte
Sugli appelli in generale, e su quelli de Il Foglio in particolare, una parola definitiva di Leonardo Sciascia (Luca Massaro).
giovedì 17 giugno 2010
Sugli effetti iatrogeni del ghiaccio sulla pancia
“Una giovane sposa in stato interessante arrivò in ospedale per un semplice attacco di appendicite, i medici dovettero applicarle del ghiaccio sulla pancia. Alla fine di questi trattamenti i medici le consigliarono di abortire il bambino, perché sarebbe sicuramente nato con qualche infermità, ma la giovane coraggiosa sposa decise di non interrompere la gravidanza e il bambino nacque: quella signora era mia madre e il bambino ero io”.
Così Andrea Bocelli si racconta ad Annalena Benini (Il Foglio, 17.6.2010), bissando uno dei suoi cavalli di battaglia. Si tratta del celeberrimo Lied d’autore ignoto (XX sec.) che suona più o meno così: “Se conoscessi una donna incinta, malata di sifilide, che avesse già otto figli, di cui tre sordi, due ciechi e uno ritardato mentale, le consiglieresti di abortire? Sì? Avresti fatto fuori Beethoven”.
Ora, non è per insinuare che tra Beethoven e Bocelli ci sia la stessa differenza che c’è tra Stravinskij e una balanoprepuzite (intesa come Uccello di fuoco), tanto meno per mettere in dubbio ciò che il tenore ci canta, ma, gentilmente, ci dica: un’appendicite acuta o il ghiaccio sulla pancia sono in grado di provocare malformazioni al feto che, nel 1958, un medico di pronto soccorso potesse ragionevolmente e “sicuramente” prevedere come complicanza? Sarà stata rosolia (possibile cataratta e/o glaucoma a carico del feto), ma allora perché tanta licenza nella lettura dello spartito? Un’appendicite sta a una rosolia come un re bemolle sta a un sol diesis, la melodia ne esce stravolta.
Di poi: “i medici le consigliarono di abortire il bambino”. Come? Dove? Eravamo nel 1958, abortire era un reato: esattamente, cosa consigliarono a sua madre? “Signora, si rivolga a una mammana” o “Vada dal dottor Tal dei Tali”? Parli liberamente, il Bocelli, ché è tutta roba andata in prescrizione e non mette nei guai nessuno, tranne se stesso.
“Lo faccio per quelle poche che mi sembrano disperate”
Nulla vieterebbe al dottor Valter Tarantini di astenersi dal praticare interruzioni di gravidanza – 300 all’anno, da 30 anni – ma continua praticarle, però assediato da laceranti scrupoli, da circa due anni e mezzo almeno, quando su Il Resto del Carlino (3.3.2008) rilasciò un’intervista che fece qualche rumorino: “La legge 194 è ormai un mezzo di controllo delle nascite… Per molte donne abortire è come togliersi una verruca… Facciamo pagare l’aborto a chi vi ricorre dalla seconda volta in poi…”. “Scusi la domanda – fece chi lo intervistava – ma se la situazione è questa, perché continua a fare aborti?”. La risposta fu: “Perché, per fortuna, non tutte le donne sono così. Ci sono donne che ne hanno davvero bisogno. Ma sono sempre meno, mi creda”.
Qui l’apparente contraddizione si scioglieva: il dottor Tarantini non soffriva nel fare qualcosa che si opponeva ai suoi principi – fra i quali, chessò, quello della sacralità dell’embrione – ma del non poter decidere a sua piena discrezione, assumendosi le competenze che la legge 194 affida allo psicologo e all’assistente sociale.
Dopo circa due anni e mezzo, il nostro continua a macerarsi e a praticare interruzioni di gravidanza, affidando la sua sofferenza – ancora – alla stampa: “Oggi l’aborto è diventata una cosa normalissima… Ho proposto a Gianfranco Fini e alla Lega di far pagare l’Ivg…” (Tempi, 17.6.2010). Anche stavolta chi lo intervista non può fare a meno di chiedergli: “Se pensa queste cose perché continua a praticare interruzioni di gravidanza?”. Ma il dottor Tarantini non ha smesso di credere di poter sostituire lo psicologo e l’assistente sociale: “Lo faccio per quelle poche che mi sembrano disperate”. In realtà, continua a farlo anche per le altre, perché “formalmente una donna un motivo lo trova sempre”. A lasciar decidere lui chi possa o no interrompere una gravidanza, la forma dovrebbe avere la sostanza della disperazione. Ma a suo insindacabile giudizio, naturalmente, come nel porre indicazione ad un qualsiasi trattamento.
Ecco, è qui, soltanto qui, che questo ginecologo – mi assumo la responsabilità di ciò che scrivo – a me pare un mostro.
Patapùnfete
“Nella notte fra il 7 e l’8 giugno scorsi circa duecento metri quadri di controsoffitto hanno ceduto nella Sala Polifunzionale dei Musei Vaticani, […] spazio coperto sopraelevato che, in prossimità dell’ingresso, è stato progettato e realizzato dieci anni fa in occasione del Grande Giubileo”. Ne dà notizia, dalle pagine de L’Osservatore Romano, il direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci, che lamenta: “I Musei del Papa sono saldissimi. Portano nelle loro vecchie ossa parecchi secoli, sono percorsi (e consumati) ogni anno da quattro milioni e mezzo di persone (nove milioni di piedi che strisciano, nove milioni di mani che toccano o possono toccare) eppure continuano a fare egregiamente il loro mestiere. Evidentemente fanno meno bene il loro mestiere i materiali messi in opera dieci anni fa”.
Dieci anni fa, l’ufficio stampa dei Musei Vaticani annunciava: “Il prossimo lunedì 7 febbraio Sua Santità Giovanni Paolo II inaugurerà e benedirà il Nuovo Ingresso dei Musei Vaticani, un’opera nata dall’esigenza di far fronte al forte aumento di visitatori, passati negli ultimi venti anni da un milione e mezzo di presenze annue ai circa tre milioni odierni. L’imponente intervento edilizio ha interessato il confine settentrionale dello Stato della Città del Vaticano nello spazio compreso tra le strutture settecentesche del Museo Pio-Clementino e le antiche mura cinquecentesche in prossimità del precedente ingresso. Nel corso dei lavori è stata asportata la parte del colle racchiusa dalle mura (sono stati rimossi circa 40.000 metri cubi di terreno); sono stati costruiti quattro piani e nuove superfici (per un totale di circa 10.500 metri quadri coperti)”.
Nel discorso tenuto all’inaugurazione, Giovanni Paolo II diceva: “Oggi inauguro l’ingresso che introduce a quel tempio dell’arte e della cultura che sono i Musei. Grande è la soddisfazione per il compimento di un’opera assai impegnativa. Ringrazio il signor cardinale Edmund Casimir Szoka, per i sentimenti anche a nome vostro manifestati e per l’interessante presentazione che ci ha fatto dei lavori svolti e dei risultati raggiunti: a lui ed alla Direzione dei Servizi Tecnici esprimo il più vivo apprezzamento, estendendolo ai consulenti ed alle maestranze e ricordando con gratitudine il cardinale Castillo Lara, oggi presente con noi, al quale va il merito di avere iniziato l’impresa”.
Qualche notizia sui due cardinali che si interessarono della cosa, da un’inchiesta del Corriere della Sera del 20 luglio 1998, a firma di Riccardo Orizio: “Edmund Skoza è il numero uno dell’Operazione Giubileo. Castillo Lara è capo dell’Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Santa Sede), presidente della commissione cardinalizia di controllo dello Ior e presidente del Governatorato (un’entità separata che corrisponde allo Stato del Vaticano, con bilancio a sé: gestisce, per esempio, i Musei Vaticani)”.
A chi diedero la delega per i lavori, i due? Il direttore dei Musei Vaticani dell’epoca era Francesco Buranelli. Direttore dei servizi tecnici del Governatorato della Città del Vaticano era l’ingegner Massimo Stoppa. Il progetto era dell’architetto Lucio Passarelli.
Chi l’abbia realizzato non si riesce a sapere.
mercoledì 16 giugno 2010
Il meglio di sé
a Marcello Junio Clerici
Nicola Schiavone è figlio d’arte, pittore come suo padre Francesco (più noto con lo pseudonimo di Sandokan). Artisti schivi, poco abituati a esporre, praticamente fuori mercato, ciò non di meno assai prolifici, perché la scelta di una vita lontana dai riflettori non di rado aiuta l’artista a raccogliersi e a produrre capolavori che sfidano l’eternità, purissimi momenti di interlocuzione con l’assoluto, fuori dalla logica che invece può ridurre la pittura a mera decorazione dei tempi. Per padre e figlio, nel caso degli Schiavone, ci troviamo di fronte a una scelta di questo genere. I loro percorsi artistici sono oscuri a pubblico e critica, le loro opere fuggono l’attenzione che spesso l’arte contemporanea cerca e trova anche quando è priva di contenuti: con questi due maestri di Casaldiprincipe arriviamo al punto di non avere a disposizione neanche due righe sulla loro produzione, come se un’odiosa congiura dei critici d’arte avesse imposto da tempo di snobbarli. E questo a me non pare giusto.
Si prenda, per esempio, il caso di un’opera dello Schiavone figlio che solo una occasionale intrusione nel suo universo artistico ci ha dato la possibilità di godere. Si tratta di un acrilico su tela (100 x 90 cm) di indubbia potenza espressiva. Accanto a citazioni colte (il tratto di Matisse negli occhi impalpebrati, le labbra à la Dalì, l’inquietante scritta à la Magritte, i glifi cari a Savinio), che rivelano un approccio non accademico alla tradizione del Novecento, abbiamo il puro genio che dà il meglio di sé in quello che diremmo un vero e proprio manifesto esistenziale e artistico.
Film cattolicissimo
Trent’anni fa, il 16 giugno 1980, usciva nelle sale americane una pellicola che era destinata ad essere definita “film cattolico”, trent’anni dopo, da L’Osservatore Romano. Se Emilio Ranzato, infatti, scrive che in The Blues Brothers “si riconoscono temi di un certo spessore, che fra l’altro contribuiscono a dare un senso al côté cattolico costituito dall’orfanotrofio gestito dalle suore e dalla «missione per conto di Dio»”, Gianni Maria Vian è ancora più categorico: “Un film memorabile. Stando ai fatti, cattolico”.
Siamo ormai abituati alle stravaganze de L’Osservatore Romano di Vian e cazzate del genere non ci fanno neanche più sollevare il sopracciglio: sappiamo che servono soltanto ad attirare lettori sulle pagine di un giornale che ha una voragine per deficit. Né ci scandalizza più la temerarietà delle cazzate, perché la faccia tosta è ormai emblema della Santa Sede più di quanto lo siano le chiavi di San Pietro messe a croce sotto la tiara (come le tibie sotto il teschio sulla bandiera della Filibusta).
E dunque stiamo ai “fatti” che per Vian farebbero di John Landis un regista cattolico, almeno per questo film.
“La foto incorniciata di un giovane e forte Giovanni Paolo II nella casa dell’affittacamere – dall’accento siciliano e vestita di nero, dunque cattolica - di Lou «Blue» Marini”. Cattolicesimo come sovrastruttura etnica, antropologica, perfino estetica: è considerazione che possiamo ritenere legittima, perché il cattolicesimo è da gran tempo tutto nelle sue sovrastrutture. E dunque passi.
“Senz’altro cattolico, come Alan «Mr. Fabulous» Rubin, di origine polacca, e come soprattutto i fratelli Jake ed Elwood Blues”. Idem con patate: polacchi, ergo cattolici. “E a notarlo, con maligna ostilità, sono gli avversari più determinati, cioè gli insopportabili nazisti dell’Illinois”. In realtà, gli insopportabili nazisti dell’Illinois sottolineano con maligna ostilità la nazionalità dei due, non il loro credo religioso. Ma passi pure questo, perché, da quando Pietro ha incontrato resistenze nell’evangelizzare il mondo intero, il cattolicesimo è sempre stato molto attaccato a quel “cuius regio, eius religio” che gli avrebbe dovuto assicurare che almeno non si disevangelizzasse il già evangelizzato. Non è stato così, ovviamente, ma si spiega la coazione a pensare inevitabilmente cattolici almeno gli italiani, gli spagnoli, i polacchi…
Ma non divaghiamo, torniamo ai “fatti” che per Vian fanno del film un “film cattolico”.
“Jake ed Elwood sono cresciuti nell’orfanotrofio intitolato a sant’Elena e alla santa Sindone, governato dalla terribile ma a suo modo affettuosa Sister Mary Stigmata, detta la Pinguina, e ora a rischio di sopravvivenza per cinquemila dollari di tasse non versate”. Per quanto ci è noto della pedagogia cattolica, non ci stupiamo a sentir dire che la Pinguina sia “a suo modo affettuosa”, figuriamoci se non è per il bene delle anime dei bambini picchiarli di tanto in tanto, almeno quando bestemmiano. Che non funzioni è secondario, e infatti dopo anni e anni di orfanotrofio cattolico, Jake ed Elwood bestemmiano ancora, però – grandezza del cattolicesimo! – c’è ancora lì Suor Stimmata a randellarli. Diciamo che la pedagogia cattolica dura tutta una vita.
Tralasciamo il profilo delinquenziale dei due, diciamo solo che un’educazione cattolica non è servita ad evitare il carcere ad uno dei due, per rapina. D’altra parte, la Pinguina è una che ha evaso le tasse, ma sai quanto ce ne fotte del “date a Cesare quel che è di Cesare”.
Non va meglio sulla ricezione del magistero morale: tra gli effetti personali di uno dei due troviamo “un orologio digitale Timex (rotto), un profilattico non usato [e] uno usato”...
Divagavo ancora, chiedo scusa.
“Per i due quella istituzione cattolica è tutta la loro famiglia - solo il vecchio impiegato Curtis suonava per loro l’armonica in cantina, ricordano con nostalgia - e decidono di salvarla a ogni costo con i suoi piccoli ospiti”. Stupisce che l’unico ricordo caro di un’infanzia passata in un orfanotrofio cattolico sia il blues suonato da un dipendente laico dell’orfanatrofio, ma solo fino a un certo punto, e poi già è tanto che ai due non sia capitato un prete pedofilo. Almeno non se ne fa cenno. E so bene che questo non vuol dire niente, perché non tutti i bambini abusati ricordano o hanno il coraggio di parlare…
Però così divago ancora, torniamo a Vian.
“L’illuminazione arriva nella chiesa battista di Triple Rock dove li ha indirizzati Curtis e dove ascoltano un sermone del reverendo Cleophus James sulla necessità di non sprecare la propria vita. Ed è proprio il religioso protestante ad accorgersi del cambiamento di Jake («Tu hai visto la Luce!») che scatena tra i fedeli un’ondata carismatica, ovviamente rock, ma che soprattutto porterà i fratelli a ricostituire «la banda» per raccogliere i dollari necessari alla salvezza dell’orfanotrofio”. Ma allora è anche un “film protestante”, un “film battista”: forse sarebbe stato meglio chiamarlo “film cristiano”, non “film cattolico”. E vabbe’, non stiamo a guardare il pelo, sono finiti i tempi in cui cattolici e protestanti si sgozzavano con entusiasmo…
Non penso di riuscire a continuare: l’ironia mi lascia un malessere nello stomaco. Sì, via, The Blues Brothers è un “film cattolico”: narra le peregrinazioni di due manigoldi, che dicono di aver visto la Luce, alla ricerca di soldi perché un’istituzione ottusa e violenta non finisca in bancarotta. Film cattolicissimo.
martedì 15 giugno 2010
Padri
Sul congedo obbligatorio di paternità si confrontano, sulla prima pagina de il Giornale di oggi, Giordano Bruno Guerri, favorevole, e Vittorio Feltri, contrario, dandoci una splendida occasione per non entrare nel merito, che essi stessi paiono eludere e che sta tutto nell’obbligatorietà prevista dal ddl a firma di Barbara Saltamartini. Con Guerri e Feltri siamo – prima di tutto e quasi del tutto – di fronte a due diversi modi di intendere la paternità.
Nel primo caso, abbiamo un uomo divenuto padre a 55 anni, dopo un’esistenza ricca di esperienze, in gran parte appaganti. Un uomo che parla della sua infanzia come di un felice laboratorio esistenziale e della sua paternità come un approdo ancor più felice.
Nel secondo caso, abbiamo un uomo indurito dalla vita: “Dopo la morte prematura di suo padre, infatti, sua madre dovette andare a lavorare per mantenere i tre figli. Furono anni duri”, dice Luciana Baldrighi che ne ha raccolto le confessioni in Feltri racconta Feltri (Sperling & Kupfer, 1997); e lui: “Sì, ma non ne parlo volentieri. […] Accanto al cancello del palazzo c’era un campanello, suonava ogni volta che qualcuno passava. E a ogni scampanellata mi precipitavo alla finestra nella speranza di vedere arrivare mia madre. Succedeva anche trenta o quaranta volte per sera: non era mai lei. Così quelle corse verso vetri sempre appannati di umidità e delusione mi sono rimaste impresse nella memoria. […] Non ho mai trovato niente in famiglia: nessun incoraggiamento, nessun appoggio. Nessun supporto morale e anche poco aiuto materiale. Magari c’era, ma io non l’ho trovato. Ero il più piccolo quando morì mio padre. E rimasi solo” (pagg. 57-58).
A tutto questo si può sopravvivere solo indurendosi, finendo per ritenere superflua la tenerezza, fino a considerarla vacuo esercizio di sdilinquimenti e svenevolezze: si può rimuovere un’infanzia come quella di Feltri solo in un ideale di maternità (e ancor più di paternità) essenzialmente finalizzati alla sopravvivenza materiale della prole. Il dolore per tutto ciò che non si è avuto può essere superato solo nel convincersi che era irrilevante.
“Ogni volta penso quanto siamo fortunati, Nicola e io, perché lavoro a casa e le nostre reciproche assenze sono così brevi”, scriveva Guerri. Feltri, invece, si raccontava così: “Ai figli non ho insegnato niente. Ho solo cercato di comportarmi in modo decoroso. Pensavo: se verrà loro in mente di prendermi come modello non faranno scemenze. Adesso che ho passato i 50 anni li trovo divertenti, simpatici, interessanti. […] In questi ultimi anni ho molto rinsaldato i legami affettivi con loro” (pagg. 75-76).
È naturale che, oggi, sul congedo obbligatorio di paternità, il primo scriva: “Rientreranno in ufficio con una marcia in più, a aumentare la loro produttività, come padri di famiglia e come uomini responsabili di qualcosa che non ha prezzo”; e il secondo: “Poche balle. […] Quattro giorni di congedo per fare quattro passi all’ospedale sono troppi per fugare il sospetto che si tratti di ossequio a una moda insulsa”.
Rimarrebbe, a parte, la questione di merito, che a me pare l’obbligatorietà. Ma perché discuterne?
Perfino
Ho lasciato in moderazione un commento anonimo assai scostumato al post “Un’omelia che è un capolavoro di diplomazia”, nel quale sostenevo che il cardinale Tettamanzi non avesse affatto avallato la tesi della morte di monsignor Padovese come martirio per fede. L’anonimo definiva bislacca la mia lettura dell’omelia e condiva il suo rilievo con insulti. Ecco, gli faccio presente che perfino Libero se n’è accorto. Dico: perfino Libero.
[...]
“Qui a fianco una scena «caravaggesca» da «Passion», film di Godard dell’82…” (Corriere della Sera, 15.6.2010). La scena, in realtà, è rembrandtiana (i personaggi nella foto sono quelli del La ronda di notte). Il redattore non conosce Rembrandt e non ha visto il film di Godard.
“Il regista spazia con disinvoltura dalle citazioni cinematografiche a quelle letterarie…”. È il redattore che ci si muove dentro con goffaggine.
Attenzione!
“Non intercettateli, intervistateli. Meglio delle meglio intercettazioni finora uscite, l’intervista di Repubblica all’ex ministro Pietro Lunardi” (Il Foglio, 15.6.2010). Stefano Di Michele ha ragione, ma l’intervista non sarebbe stata possibile in quei termini se i fatti di cui Corrado Zunino chiede ragione all’ex ministro non fossero gia noti. E grazie a cosa sono noti? Grazie a quanto è stato fin qui divulgato circa i maneggi della cricca e che senza le intercettazioni (e la pubblicazione delle intercettazioni) sarebbe rimasto ignoto. Quell’intervista è sì una “edificante lettura”, come il Di Michele scrive, ma chi sarebbe andato mai a intervistare Lunardi senza saperlo coinvolto? E relativamente a cosa, poi?
Tuttavia c’è un errore assai più grave nel quale incorre: pur velati di ironia, esprime giudizi assai severi sugli uomini attorno a Berlusconi e dalle pagine di un giornale che ha scelto una linea del tutto diversa. È la seconda volta in meno di una settimana: sabato 12 giugno era necessaria una soave rampogna del direttore nella rubrica delle lettere per invitarlo a rivedere il suo non benevolo giudizio sulle crociate, elogiate in prima pagina qualche giorno prima. Insomma, il Di Michele rischia. Solleva obiezioni su due punti che sono qualificanti della linea del giornale: la santità dei crociati e l’innocenza della cricca. Con ottimi argomenti in entrambi i casi, ma questo non vuol dire niente. Attenzione!
Nacionalcatolicismo
Ieri ho parlato del Merdaccia e delle sue simpatie per Francisco Franco, oggi L’Osservatore Romano pretende di darne spiegazione nelle violenze subìte dal clero cattolico spagnolo prima della guerra civile (1936-1939): il governo repubblicano ne sarebbe stato complice, rendendo dunque inevitabile un’alleanza tra la Chiesa e il caudillo. Parliamo dei conventi e delle chiese dati alle fiamme tra il 1930 e il 1931. Fu proprio il Merdaccia, allora ancora segretario di Stato, a inoltrare al governo repubblicano la richiesta dei risarcimenti, che non fu soddisfatta per mancanza di fondi, ma anche perché soddisfarla avrebbe significato sottoscrivere le accuse di complicità.
In realtà, con la precipitosa fuga all’estero di Alfonso XIII, che seguì la caduta della dittatura di Miguel Primo de Rivera (1923-1930) da lui appoggiata, si liberò nel popolo spagnolo la rabbia verso l’unico responsabile a disposizione: quel clero cattolico da sempre strettissimo alleato della monarchia e forte sostenitore della dittatura. Il potere della Chiesa in Spagna era stato fin lì enorme, al punto da controllare le attività di ogni governo, che per guadagnarsene le simpatie non rifiutava favori. Basta uno sguardo ai concordati in vigore fino alla caduta del de Ribera per farsi un’idea di quale ruolo la Chiesa fosse arrivata ad occupare nella società spagnola di quei tempi.
Solo per fare un esempio: contraria all’alfabetizzazione del popolo, la Chiesa deteneva il monopolio dell’istruzione, in modo da assicurarsi il controllo delle élites culturali e politiche del paese. Si è parlato di nazionalcattolicesimo per descrivere questa alleanza tra monarchia, esercito, latifondo terriero e Chiesa cattolica al fine di conservare un assetto sociale di tipo feudale, con una coincidenza di interessi nell’oppressione della stragrande maggioranza degli spagnoli, poveri e ignoranti, ma devotissimi.
La modernità avrebbe bussato anche alle porte di Spagna, sarebbe saltato il tappo, la rabbia popolare avrebbe preso di mira la Chiesa e i suoi preti: ne furono fatti fuori circa 7.000 fino al 1939, senza contare gli atti vandalici ai danni di ogni simbolo religioso, in realtà simbolo di un potere castale.
Non è secondaria, tuttavia, un’altra ragione della furia popolare: contadini e operai, che prima s’erano opposti alla dittatura del de Ribera e poi si sarebbero opposti al golpe di Franco, erano spesso segnalati alle loro squadracce dal clero cattolico, che godeva di una tale capillare presenza nel tessuto sociale da poter assicurare un efficiente servizio delatorio.
Contestualizzando: nemico della dittatura, nemico della monarchia e nemico della Chiesa erano la stessa cosa. Bene, L’Osservatore Romano (Vicente Cárcel Ortí, Quando in Spagna c’erano troppi conventi) ignora tutto questo: davanti alle chiese e ai conventi in fiamme vede solo la furia anticristiana, l’odio antireligioso.
I disordini scoppiarono l’11 maggio 1930 e “appena giunsero in Segreteria di Stato le prime notizie su questi gravi fatti, il cardinale Pacelli si affrettò a telegrafare al nunzio Tedeschini pregandolo, il 14 maggio, di comunicare al governo che la Santa Sede altamente deplorava le profanazioni e gli atti di fanatismo antireligiosi verificatisi in quei giorni, chiedendo che cosa le autorità intendessero fare per impedire che tali eccessi potessero ripetersi e esigendo il risarcimento dei danni arrecati a persone e cose sacre. […] Tedeschini consegnò al presidente la nota nella quale era contenuta l’energica protesta della Santa Sede. Durante la sua lunga conversazione, questi sostenne che disgraziatamente gli ordini del governo non erano stati eseguiti dalle forze di Pubblica Sicurezza. Il nunzio già aveva saputo da parte del ministro della Gobernación (Interno), Miguel Maura, che la Pubblica Sicurezza si era rifiutata di eseguire gli ordini impartiti dal governo: cosa che motivò le dimissioni di Maura, fatte poi o ritirare o sospendere dai colleghi. Le autorità, fu spiegato, ritennero dunque di non intervenire per non spargere sangue”.
Avrebbero dovuto farlo, probabilmente, per non avere lamentele da Roma. Sennò – sarebbe stato chiaro con l’appoggio della Chiesa a Franco – la Repubblica avrebbe dovuto pentirsene. E così fu.
lunedì 14 giugno 2010
Un’omelia che è un capolavoro diplomatico
Nell’omelia tenuta dal cardinale Dionigi Tettamanzi alle esequie di monsignor Luigi Padovese non c’è affermazione che letteralmente valga “ucciso per odio religioso”. Abbondano, certo, i riferimenti alla testimonianza di fede svolta in vita da Sua Eccellenza in partibus infidelium, ma è proprio la sua morte a non essere mai direttamente indicata come “martirio”. È un testo assai interessante che vale la pena di analizzare nel dettaglio.
“Per chiamata di Cristo”, monsignor Padovese “è divenuto figlio e padre della Chiesa di Turchia”: la chiamata di Cristo non implica la sua morte, ma la sua attività pastorale in vita. In più punti v’è un cenno al sacrificio di Cristo rinnovato nell’offerta di sangue dei suoi martiri, e in due punti v’è ciò che Sua Eccellenza commentava a riguardo, ma la morte di monsignor Padovese non è definita martirio per fede in alcun passaggio dell’omelia, nemmeno per perifrasi o per ellissi.
Anche quando si fa cenno a “quell’ultimo drammatico istante della sua vita”, il suo assassino non viene indicato come nemico della fede cristiana, ma come “fratello che [il Padovese] considerava amico e figlio”. Insomma, è come se Sua Eminenza avesse voluto dare alle sue parole il suono di un’omelia in morte di un martire della fede, ma senza essere disposto a dirlo nemmeno implicitamente. Il fatto, poi, che Murat Altun sia definito “fratello che considerava amico e figlio” lo spoglia di ogni franca connotazione islamista, che invece gli è stata voluta dare da chi nell’omicidio Padovese ha subito intravvisto l’assassinio rituale.
In definitiva, Sua Eminenza ha tenuto un’omelia che è un capolavoro diplomatico: ha accontentato col suono delle sue parole i sostenitori della tesi del martirio per fede, ma non l’ha avallata. Anzi, con quel “considerava” ha sottolineato una certa ingenuità del defunto nell’esporsi alle complicazioni dell’adottare come “amico e figlio” chi avrebbe potuto fare una qual certa resistenza all’adozione, come poi in effetti è accaduto. Il cardinale Tettamanzi, in realtà, non esclude affatto che monsignor Padovese sia stato ucciso perché corteggiasse con asfissiante insistenza l’Altun (questa è la versione sulla quale il giovane si ostina). E a una lettura non piatta del testo ha addirittura detto che è possibile, ma che ciò non leva merito ad una vita spesa per testimoniare la sua fede in terra ostile.
Il nemico in casa
Il calcio non riesce ad appassionarmi, neanche quando gioca la Nazionale. E sì che posso dire d’essermi sforzato, almeno in gioventù, arrivando a indossare la maglietta di una squadretta di serie Ñ (da pronunciare come in sugna): niente da fare, mai riuscito a penetrare la filosofia del gioco. Collezionai sei giornate di squalifica in due anni, ruppi una tibia, segnai un goal di ginocchio, ma non riuscivo a uscire dalla logica del terzino destro che ha una questione personale aperta con l’ala sinistra. Insomma, una merda di terzino destro.
Mi ero spinto a provarmi proprio per l’antipatia verso il gioco – volevo entrarci dentro per farmi prendere dalla normale simpatia che il calcio riscuoteva da tutti attorno a me, firmai quel tesserino come un atto di umiltà, come a darmi una chance – ma in quel gioco tutto mi sembrava (e continua a sembrarmi) una variante delle sfide tra tribù: il meglio in campo (quasi tutti mercenari) e il resto sugli spalti (indigeni malati di senso di appartenenza alla tribù).
È un po’ così per tutti i giochi di squadra, sicché suppongo che questa mia repulsione abbia a che fare con la mia indole scontrosa e selvatica (e infatti amo la boxe, la corrida e il lancio del giavellotto), però col calcio la repulsione ha vera e propria somatizzazione intellettuale: mi dicono che, quando alla tv passa una partita, piglio una smorfia di disgusto e che seguo le discussioni dei dopopartita con lo stesso sguardo atterrito che ogni volta ho nel rivedere la scena della carcassa di motorino buttata giù dall’anello alto di uno stadio, mi pare San Siro.
Ecco, mai come nel calcio – potrei sbagliare ma ne ho salda convinzione – parlarne fa parte integrante del gioco. E il parlarne – per la natura stessa del contendere – mette sullo stesso piano la carcassa del motorino e la più sosfisticata analisi tecnica: si gioca in campo ma la questione è sempre sugli spalti, questo colore o l’altro è indossato da chiunque abbia a che spartire con quella partita. E dunque penso, confortato da chi lo afferma perché lo ama, che il calcio non attirerebbe nessuno se non reclutasse il senso di appartenenza alla tribù, buttando in mezzo al campo tutto il sentimento delle tribù dagli spalti…
Questo è il bello del calcio per chi lo ama, ma a me pare un’altra occasione per legare l’individuo ad una identità di ceppo: un potente richiamo alla guerra di campanile (di nascita o di adozione) dove si vince sempre per il valore delle proprie armi e si perde sempre perché l’avversario è disonesto o ha culo, quando non è perché l’arbitro è cornuto.
Il calcio educa le masse alla partigianeria. Gioca una chiavica, ma è pur sempre la mia squadra: vorrei vincesse sempre. Come nel “right or wrong, but it’s my country”, il calcio dichiara traditrici le categorie del giudizio e le sostituisce con un modello unico di giudizio: se non tifi per la tua Nazionale, o sei un fottuto eccentrico, fai bene ad isolarti, o sei una carogna disfattista, un nemico in casa.
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