Pare che Caterina Socci sia uscita dal coma con danni irreversibili, almeno questo è quanto s’intuisce in mezzo ai mille grazie che il padre rivolge alla Madonna, che onestamente poteva far di più, guardando bene chi stesse a chiederle la grazia.
martedì 24 agosto 2010
lunedì 23 agosto 2010
Corrispondenze
Caro Malvino, sono in Palestina da settimane e tutte le volte che mi arrabbio ti penso. Dal poco che ti conosco mi verrebbe da dire che non saresti offeso dai calci nei coglioni che ti ho virtualmente tirato pensando ai tuoi post filo-israeliani, e penso lo continuerò a fare: a te, non fanno male, e io mi accontento di questa catartica vendetta prendendo te come capro espiatorio di tutti i mali di questa terra. […] Mi addolora il saperti dalla parte opposta anche su un fronte su cui tranquillamente potremmo accusare per una volta la stessa ingiustizia e lo stesso sopruso. Mi viene il dubbio che questa travona che hai nell’occhietto venga dal non aver visto di persona quello che succede qui. Sei mai stato in Palestina, hai mai visto quello che succede qui? Hai amici, persone, conoscenti che ti hanno raccontato? […] Quello che vedo da varie settimane mi rimane dentro, non ne trovo il motivo, leggo il mio Qohelet e ho semplicemente deciso che bilancerò pigrizia e testardaggine nell’inviarti materiale, testimonianze, informazione dall’altra parte del muro. […] Saluti,
Andrea Zanni
Caro Andrea, leggerò con attenzione tutto ciò che mi invierai, ma non penso che riuscirai a farmi cambiare idea: io penso che lo Stato di Israele abbia il diritto di esistere, ma vedo che questo diritto è tuttora negato dai palestinesi, sicché deduco che non si può essere amico dei palestinesi senza dover essere, per diretta conseguenza, nemico degli israeliani, mentre ho più volte constatato che si può essere amico degli israeliani senza essere costretto a negare un diritto dei palestinesi ad avere un loro Stato, se non per molto indiretta conseguenza, che poi sarebbe quella che i palestinesi hanno fatto in modo che si realizzasse, facendosi usare da tutti i nemici di Israele, dalla fondazione dello Stato di Israele a oggi.
Non penso che potrai darmi testimonianza di cose che ignoro o che non posso almeno immaginare e non faccio alcuna fatica ad immaginare le condizioni di vita alle quali i palestinesi sono costretti dalle misure di sicurezza, qui deterrenti e lì ritorsive, che Israele realizza a sua difesa. Sono disposto ad ammettere che oggi siano estremamente dure, ancor più di quanto possano essere state in passato, e posso arrivare perfino a concederti che possano di tanto in tanto essere esagerate, ma quello che Israele ha subìto dal 1948 ad oggi basta a spiegare tutto, se non a giustificarlo.
Nei conflitti che impegnano X e Y da lunga data, ogni violenza di X può sempre essere considerata come risposta ad una precedente violenza di Y, la quale può essere considerata come risposta ad una precedente violenza di X, e così via andando a ritroso. Nel nostro caso, stando a quanto sostengono i palestinesi, il primo atto violento commesso dagli israeliani a loro danno sarebbe stato quello di esistere; stando a quanto sostengono gli israeliani, invece, il primo atto violento commesso ai loro danni sarebbe stato l’attacco sferrato dalle forze filopalestinesi di Egitto, Siria, Iraq, Libano e Transgiordania, appena 24 ore dopo la nascita dello Stato di Israele. Così, a lume di naso, propenderei per ritenere che ad innescare la spirale di atti violenti non siano stati gli israeliani, ai quali si può semmai rimproverare solo il non aver mai mancato risposta ad ogni successivo attacco, sia di natura bellica che terroristica (ammesso che la distinzione rimanga poi possibile).
Caro Andrea, siamo italiani e l’Italia non ha mai avuto proprie fonti di energia: abbiamo sempre dovuto esser carini coi paesi arabi, ricambiando con mille piccoli favori, compresa una politica estera filopalestinese. Dalla Fiat all’Eni, dal Pci alla Chiesa, da Moro a Craxi, attraverso i cento diversi antisemitismi di casa nostra, le simpatie del mondo politico, economico e culturale italiano non potevano che andare ai palestinesi: il petrolio che ci veniva dai paesi arabi, l’antigiudaismo cattolico, il romanticismo di scuola marxista-leninista che ci ha sempre spinto a fare il tifo per chi ci sembrava meglio vestisse i panni dell’oppresso e dell’espropriato, quel tic fascista di vedere in ogni ebreo un sordido riccastro intento a complottare coi massoni per la rovina della Patria... Sì, sono disposto a concederti che può continuare ad essere difficile, in Italia, essere amico di Israele. Ma non ti posso concedere altro. Tuo
Luigi Castaldi
P.S.: Sono certo che non ti arrabbierai del fatto che ho sforbiciato dalla tua e-mail tutti i complimenti che mi hai rivolto, un po’ perché davvero esagerati (nel leggerli arrossivo), un po’ perché dopo questa mia risposta non vorrei comprometterti presso la preponderante opinione pubblica filopalestinese della blogosfera.
Quest'anno neanche mezza parolina
1. «Verità rivelata da Dio o definita dalla Chiesa come tale, imposta ai credenti come articolo di fede»: la definizione di «dogma» data dal Devoto-Oli dovrebbe irritare la Santa Sede, perché al posto di quell’«o» dovrebbe esserci un «e». La Chiesa, infatti, è il soggetto al quale è affidata la rivelazione e il compito di definirla e trasmetterla: una verità definita tale dalla Chiesa non può che essere rivelata da Dio e, dunque, non vi può essere alcuna relazione disgiuntiva tra rivelazione e definizione. Anche volendo dare a quell’«o» un significato non oppositivo ma esplicativo o di equivalenza («ovvero»), il problema resta: sul piano teologico, la rivelazione di una verità non equivale alla sua definizione e la sostanza di un articolo di fede trascende la sua formulazione. Ma non ho notizia di teologo cattolico che abbia sollevato contestazione.
Non è tutto. Il Devoto-Oli parla di una verità «imposta ai credenti», ma «imposizione» è termine improprio, almeno oggi. Da quando la Chiesa ha perso gli strumenti del potere temporale coi quali per secoli ha potuto pretendere dai battezzati l’adesione almeno formale agli articoli di fede, nessuno è tenuto a dare valore di verità indiscutibile ai dogmi: meno di una dozzina di verità che sono state dichiarate indiscutibili in un ampio arco di tempo che va dal 325 (Concilio di Nicea) al 1950 (Munificentissimus Deus), molte delle quali hanno trionfato sul sangue di quanti si sono azzardati a contestarle. A rigettarne una, oggi, si è fuori dalla Chiesa. In pratica, la scelta è libera, ma impegna alla sospensione di ogni esame critico su ciò che la Chiesa ha proclamato dogma: nessun problema per chi voglia dirsi un buon cattolico, perché «tra i dogmi e la nostra vita spirituale c’è un legame organico: i dogmi sono luci sul cammino della nostra fede, lo rischiarano e lo rendono sicuro; inversamente, se la nostra vita è retta, la nostra intelligenza e il nostro cuore saranno aperti ad accogliere la luce dei dogmi della fede» (Catechismo, 89). D’altro canto, un buon cattolico non potrà mai dubitare che, quando proclama un dogma, «il magistero della Chiesa si avvale in pienezza dell’autorità che gli viene da Cristo [e] propone verità contenute nella rivelazione divina» (Catechismo, 88): ogni tentazione allo scetticismo sarà sempre destinata ad essere infine vinta dalla fede (in caso contrario non sarebbe più un buon cattolico).
2. Arrivo a ciò che il Devoto-Oli afferma riguardo al «dogma» dopo alcuni mesi dedicati allo studio del Concilio Vaticano I e alla proclamazione del dogma dell’infallibilità papale, che offre al buon cattolico l’indiscutibile verità così formulata: «Definiamo essere dogma divinamente rivelato che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani, in virtù della sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardante la fede o i costumi dev’essere ritenuta da tutta la chiesa, per quell’assistenza divina che gli è stata promessa nel beato Pietro, gode di quella infallibilità, di cui il divino Redentore ha voluto dotata la sua Chiesa, allorché definisce la dottrina riguardante la fede o i costumi. Quindi queste definizioni sono irreformabili per virtù propria, e non per il consenso della chiesa. Se poi qualcuno - Dio non voglia! - osasse contraddire questa nostra definizione: sia anatema» (Pastor aeternus, IV - 18.7.1870).
Fortemente voluta da Pio IX e dai gesuiti, la proclamazione di questo dogma fu assai sofferta. Dobbiamo la più accurata ricostruzione storica di questi eventi ad August Bernhard Hasler (Come il Papa divenne infallibile, Ed. Claudiana 1982), che nel riportare ampia documentazione delle obiezioni allora sollevate da molti illustri prelati, teologi, biblisti e storici della Chiesa, infine ridotti al silenzio e all’obbedienza, ci fornisce gli elementi necessari per giungere a comprendere perché l’infallibilità papale fosse destinata già in partenza ad essere una verità da proclamare a voce sempre più bassa, meglio se dopo essere annacquata, come si è abbondantemente fatto, (a) restringendo sempre più l’ambito entro il quale si può dire che il papa stia parlando ex cathedra, (b) estendendo l’infallibilità alle proposizioni del collegio episcopale quando i vescovi siano in piena aderenza al magistero petrino e (c) canonizzando l’assunto di fede.
Quand’è che il Papa parla ex cathedra? Stando al testo della Pastor aeternus, «quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani, in virtù della sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardante la fede o i costumi dev’essere ritenuta da tutta la chiesa». Ma in quale dei suoi detti o dei suoi scritti pubblici il Papa non «adempie il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani»? E, tolto tutto ciò che attiene alla fede e ai costumi, che resta del magistero? Nella definizione della Pastor aeternus il Papa parla sempre ex cathedra, ma oggi (a) si tende a ritenere che lo faccia solo quando si intrattiene su articoli di fede, mentre il Codice di Diritto Canonico continua a mantenere il punto sul fatto che goda dell’infallibilità anche quando si intrattiene sui costumi (Can. 749 - §1): almeno su ciò attiene ad essi sembrerebbe che (c) l’accettazione del dogma dell’infallibilità papale impegni il buon cattolico come soggetto di un momento giuridico, giacché «esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana» (Catechismo, 90) ed evidentemente la cathedra ha un gradiente di infallibilità che impegna il buon cattolico su piani pur sempre paralleli, ma distinti.
È sempre il Codice di Diritto Canonico (Can. 749 - §2) a consentire l’annacquamento per (b) ciò che interamente recepisce dall’istituto della collegialità come rappresentato su questo punto dal Concilio Vaticano II: «Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non godano della prerogativa dell’infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il mondo, ma conservando il vincolo della comunione tra di loro e col successore di Pietro, si accordano per insegnare autenticamente che una dottrina concernente la fede e i costumi si impone in maniera assoluta, allora esprimono infallibilmente la dottrina di Cristo» (Lumen gentium, 25). Qui il Papa resta infallibile su questioni relative a fede e costumi, ma gode di questa prerogativa in associazione ai vescovi che siano perfettamente associati a lui su tali questioni: il primato è condiviso, e dunque almeno in apparenza è attenuato, ma l’infallibilità della dottrina da essi espressa è tale se coincidente a quella infallibilmente espressa del Papa, e dunque la condivisione del primato ha il solo fine di rafforzare la prerogativa petrina, ma diluendone ogni responsabilità al collegio episcopale e in misura proporzionale al dovuto vincolo della comunione.
D’altro canto, il buon cattolico non deve dimenticare che «il grado più alto nella partecipazione all’autorità di Cristo è assicurato dal carisma dell’infallibilità, [che] si estende tanto quanto il deposito della divina rivelazione [e] anche a tutti gli elementi di dottrina, ivi compresa la morale» (Catechismo, 2035), e dunque anche ai costumi: considerare infallibile il Papa (e i vescovi che mantengono saldo il vincolo della comunione a lui) gli assicura una perfetta obbedienza all’autorità di Cristo. E che può desiderare di più?
3. La verità che fu definita tale dalla Chiesa solo nel 1870, e con macchinosa estrapolazione da assai ambigua rivelazione e assai contraddittoria fonte storica, cominciò ad essere annacquata già in corso di definizione, quando monsignor Vincent Gasser, uno dei vescovi che pure era a favore della proclamazione del dogma dell’infallibilità papale, tenne a precisare che «l’infallibilità del Romano Pontefice non gli deriva da ispirazione o da rivelazione, ma da assistenza divina. Perciò il Papa, in ragione del suo ufficio e della gravità della materia, è tenuto a utilizzare i mezzi che ritenga opportuni ad una retta indagine e ad una adeguata enunciazione della verità. Questi mezzi sono i Concili, il parere dei vescovi, dei cardinali, dei teologi, ecc. […] Noi dobbiamo piamente credere che nella divina assistenza promessa da Cristo Signore a Pietro e ai suoi successori è contenuta pure una promessa riguardo ai mezzi che sono necessari e atti ad esprimere un giudizio pontificio infallibile. Infine, noi non separiamo il Papa, neppure in minima parte, dal consenso della Chiesa, purché quel consenso non sia posto come una condizione che è o antecedente o conseguente».
Non è un caso se il Concilio Vaticano II si servì proprio degli argomenti di monsignor Gasser per liquidare ogni riconsiderazione sulla Pastor aeternus (Hans Küng ha lamentato che non se ne discusse per più di dieci minuti): pur rappresentabile solo attraverso un consenso che in ogni caso non poteva e non doveva immaginarsi antecedente o conseguente al parere del Papa, il principio della collegialità episcopale, che ad alcuni sembrò una rivoluzionaria rottura col passato, era formalmente fatto salvo e la Lumen gentium sembrò mettere la necessaria sordina ad una Pastor aeternus impresentabile al XX secolo: non si dichiarava il Concilio Vaticano I errante sull’inerranza papale – un Concilio che ne smentisce un altro è sempre inopportuno – ma si aggirava la questione ribadendola in termini che consentissero l’associazione del collegio episcopale alla partecipazione all’autorità di Cristo attraverso una comunione col suo Vicario che comunque non ammettesse condizioni. Un capolavoro di ambiguità e di ipocrisia che sembrò salvare la capra dell’innovazione e il cavolo della tradizione.
Che un dogma dichiarasse l’infallibilità papale, però, continuò a imbarazzare, al punto che, cento anni dopo la Pastor aeternus, Paolo VI la definiva «pagina drammatica della vita della Chiesa», aggiungendo subito: «Non è Nostro intento parlarne» (Udienza, 10.12.1969). Strano modo di commemorare l’apertura di un Concilio: glissando sul dogma che aveva partorito. Pochi giorni prima (Omelia, 8.12.1969), era stato meno reticente: «Chi vi parla trema pensando ai riferimenti concreti che [il dogma dell’infallibilità papale] ha con la Nostra umilissima persona, a Nostra confusione», per trovare conforto solo in quella fede che poneva le basi dell’inerranza in una «esclusiva derivazione divina». Meno reticente anche su ciò che aveva accompagnato il parto della Pastor aeternus: «avversione, dubbio, timore, entusiasmo, o altro», ma la reticenza residuava in quell’«altro»: le minacce e i ricatti di Pio IX prima del Concilio, le sue vendette a chi gli aveva fatto ostacolo, dopo.
Dieci anni dopo, e a centodieci dal Concilio Vaticano I, Giovanni Paolo II continuava ad annacquare: «Il dogma dell’infallibilità papale occupa certamente un posto meno centrale nella gerarchia delle verità» (Discorso ai teologi tedeschi, 18.11.1980). A centoventi anni dalla Pastor aeternus, e a centotrenta, solo vaghi accenni, niente che si potesse definire commemorazione, tanto meno celebrazione. Quest’anno, a centoquaranta anni di distanza, neanche mezza parolina. Se ci è sfuggita, è stata detta in modo che ci sfuggisse.
domenica 22 agosto 2010
Il cesareo non è la via della vita
Sotto un titolo infelice (Il cesareo non è la via della vita) zenit.org pubblica l’infelicissima metafora che padre Angelo Del Favero va a pescare per la sua omelia a commento di Mc 10, 27 («tutto è possibile a Dio»): la sproporzione feto-pelvica a termine della gravidanza («una porta tanto stretta da sembrare assurda»). E scrive: «Se il piccolissimo bambino appena concepito si rendesse conto che nove mesi dopo, divenuto un bambino enormemente più grande, dovrà uscire alla luce attraverso quel grembo strettissimo in cui arriverà tra una settimana, vedendosi nella situazione impossibile del cammello e dell’ago non potrebbe pensare ad alcuna possibilità di uscita alla luce diversa dal taglio cesareo. Egli non sa che Dio andrà modificando il grembo materno in modo da consentirgli quel passaggio impossibile che non può intravedere ora, non senza il gran travaglio che sperimenterà a suo tempo assieme a sua madre».
Si tratta di affermazioni di estrema pericolosità sociale perché, in realtà, Dio non riesce sempre a modificare il grembo materno per consentire un parto naturale, come la storia della medicina documenta con gli elevati tassi di morbilità e mortalità perinatale di gravide e feti ai quali un taglio cesareo avrebbe evitato ogni inutile dolore e ogni tragico danno da disperate procedure manuali e strumentali. Giacché è onnipotente, pare che di tanto in tanto Dio decida di rendere proprio assurdo ciò che sembra tale e allora quel «passaggio impossibile» rimane «impossibile», o risulta infine possibile ma a un prezzo altissimo. Sicché padre Del Favero farebbe bene a non generalizzare, come quando aggiunge: «Dio risolverà ogni cosa: ha solo bisogno della nostra totale fiducia ed abbandono al suo amore». Tenuto conto del fatto che parla a poveracci che possono anche prendere per oro colato ciò che dice, e solo perché indossa un saio, sarebbe il caso moderasse le sue troppo disinvolte incursioni in campo ostetrico.
giovedì 12 agosto 2010
mercoledì 11 agosto 2010
Cognati
Nicoletta Tiliacos trae da un libro pubblicato l’anno scorso (Maurizio Bettini, Affari di famiglia, Il Mulino) interessanti rilievi di natura filologica sul “termine «cognato», di cui la cronaca va assai disquisendo in questo periodo” (Il Foglio, 11.8.2010). Così ci viene rinfrescata la memoria sul fatto che, presso gli antichi romani, i «cognati» erano “consanguinei imparentati per via femminile” (gli «agnati», invece, per via maschile); che il parente acquisito oggi detto «cognato» era chiamato, a quei tempi, «adfinis»; e che a «adfinitas» era dato “sia un significato metaforico di «compartecipazione», sia quello peggiorativo di «complicità»”. A sciogliere il contorcimento, insomma, la Tiliacos sta lì a suggerirci che Gianfranco Fini e Giancarlo Tulliani siano soci o complici più che parenti, e di lodevole c’è che almeno si trattiene dalla battutina scema sul «fini» che sta in «adfinis».
Chissà com’è che tutto questo prurito di Diritto Romano non le è venuto quando Il Foglio era definito dal suo direttore “il Giornale cognato”.
Guardo a cosa accade nel Pdl
Guardo a cosa accade nel Pdl, caro Guerri, e penso a lei. La destra moderna, europea, liberale, liberista e libertaria, finalmente liberata dai tic antidemocratici e razzisti, che lei pensava possibile ai tempi in cui dirigeva L’Indipendente, possiamo dire – mi corregga se sbaglio – esista. Certo, è ancora tutta in embrione, ancora piena di contraddizioni, con qualche ambiguità, assai poco strutturata, anzi, ancora un po’ sporchetta di tatarellismo. E però c’è e si raccoglie attorno a Fini. La cosa che mi fa sogghignare è che il gruppo parlamentare che vorrebbe rappresentare questa destra è presieduto da quel Bocchino che le tolse la direzione de L’Indipendente per darla a Malgieri. È questo, o cos’altro, che oggi la tiene distante dai Campi, Rossi, Perina, ecc.? Le è passata ogni voglia di dare un contributo alla costruzione di quella “nuova destra”? Considera l’embrione malfatto, destinato all’aborto spontaneo, o vede irrealizzabile il suo sviluppo per altra ragione? E quale? In altri termini: ritiene Futuro e Libertà per l’Italia strumento inadeguato a quell’idea o ha cambiato idea? Nell’un caso o nell’altro: perché?
martedì 10 agosto 2010
Ma chi se lo ricorda più?
L’Osservatore Romano ammette: “Diminuisce in Italia il numero degli aborti” (11.8.2010). È così da tempo, anche Avvenire aveva dovuto ammetterlo qualche mese fa (29.4.2010). Sembra dimostrato che avere il diritto (almeno entro certi limiti e a certe condizioni) di interrompere una gravidanza, lungi dal fare dell’aborto l’hobby preferito di ogni troia, limiti il danno. Fosse niente, le donne non muoiono più con un ferro da calza ficcato in pancia e, in più, non c’è stata l’escalation che paventavano le gerarchie vaticane, anzi, lentamente, anno dopo anno, si ricorre sempre meno alla legge 194. “La tendenza è chiara – ammette L’Osservatore Romano – dal 1983 è avvenuto in Italia un progressivo calo degli aborti”. Sarebbe stato carino aggiungere: tutto il contrario di quello che vi dicevamo per convincervi ad abrogare la legge 194. Ma chi se lo ricorda più?
sabato 7 agosto 2010
Cazzi amari
“Un quadro che segnala un cambio di modello, sia in termini quantitativi (i cattolici cessano di essere una maggioranza), sia in termini qualitativi (il cattolicesimo italiano si fa più diversificato ed evanescente)” (Il Regno, maggio 2010).
Triora, la molto poco misteriosa
Alberto Cane ci offre nella buona riproduzione fotografica di un dettaglio (vedi foto qui sopra) l’anteprima di un dipinto che a giorni sarà presentato al pubblico dopo un recente restauro: si tratta di una Visione di San Giovanni di Matha (Anonimo, XVII sec. [?]), conservata nell’Oratorio di San Giovanni Battista di Triora (Im), e del particolare in questione Alberto scrive che si tratta di “una rappresentazione della Trinità che sfugge a tutta l’iconografia classica”.
Questo non è corretto, perché abbiamo moltissime Trinità nelle quali sono antropomorficamente raffigurate tutte e tre le persone (anche se prevale la scelta di dare allo Spirito Santo le sembianze di una colomba), e molte nelle quali queste sono raffigurate con la triplicazione dello stesso soggetto (angelo imberbe, vegliardo barbuto, ecc.), come nel caso che ad Alberto pare originale. C’è infatti da rammentare che nell’iconografia trinitaria di molte Chiese orientali (ma anche di quella copta, per esempio) non è rara la riproduzione delle tre persone della Trinità secondo il modello introdotto da Andrej Rublev (1360-1430) sulla base del racconto biblico in Gen 18, 1-15, poi adottato come il più fedele sul piano teologico dallo Stoglavyj Sobor del 1551 e, salvo un dettato tridentino tardivamente e poco accolto, mai sostanzialmente rigettato in occidente, né sul piano formale, né su quello concettuale (Fig. 1).
Fig. 1 - Rappresentazioni della Trinità con triplicazione dello
stesso soggetto: (a) icona rubleviana (XV sec.); (b) Codice miniato (XV sec.);
(c) Pala di abside (XVI sec.); (d) Icona copta (XVII sec.); (e) Affresco etiope (XVIII sec.);
(f) Santino votivo (XX secolo).
Analoga correzione deve essere fatta riguardo a ciò che Alberto scrive riguardo al “grande triangolo rovesciato”, che gli pare somigliare a “quello dei massoni”, che invece è a vertice superiore (Fig. 2a): si tratta – assai più semplicemente – del triangolo rovesciato che riassume il dogma trinitario, così come descritto nella Summa theologiae di Tommaso (Fig. 2b).
Insomma, niente di eccezionale in questa Trinità, che peraltro si rivela opera di pressoché nullo pregio sul piano artistico. Si tratta di una tavola lignea, come rivela il dettaglio del margine (Fig. 3a), che mostra grossolano accostamento dei listati (Fig. 3b), rozza distribuzione del pigmento (Fig. 3c) e pedestre tecnica, come è apprezzabile per la voluta del mantello del Figlio (Fig. 3d) e la mano sinistra dello Spirito Santo (Fig. 3e).
Nessun problema per l’attribuzione, dunque, giacché all’Anonimo conviene restar tale. A naso, almeno per il particolare della Trinità qui preso in considerazione, propenderei per una copia di infima mano, eseguita avendo a modello una miniatura di codice del XIII o del XIV secolo.
venerdì 6 agosto 2010
[...]
«Ciò che mi dispiace è che fin dall’inizio del mio servizio pastorale la rappresentanza del paese non ha voluto riconoscere la mia autorità di guida spirituale e morale» (la Nuova Ferrara, 4.8.2010).
[grazie a Mirko Morini per la segnalazione]
Speriamo bene
Fini, Casini, Rutelli e Lombardo non vogliono le elezioni subito: ciascuno da solo o tutti e quattro insieme devono ancora mordere l’alluce al bipolarismo per non rischiare. Bersani le vorrebbe il più tardi possibile: non è assolutamente pronto e chissà quando lo sarà, se mai lo sarà. Bossi non le vuole prima di aver avuto il federalismo: se anche stavolta torna a Pontida a mani vuote, dei fucili padani dovrà aver paura lui.
Di Pietro vorrebbe le elezioni subitissimo, sicuro di poter levare voti a un Pd che ormai li regala, domani chissà. Idem per Grillo, sicuro di poterne levare a Di Pietro e al Pd. Idem per Vendola, che le vorrebbe domani: più tardi si andrà alle urne, più difficile sarà vincere le primarie. Subitissimo le vorrebbe pure Berlusconi, che però non vuole assumersene la responsabilità e disperatamente spera che Fini gli offra un’occasione: farà di tutto per farsela offrire, ma deve stare attento a non creare condizioni che diano al Quirinale ragioni per cercare in Parlamento i numeri di un governo tecnico o istituzionale.
Di Pietro vorrebbe le elezioni subitissimo, sicuro di poter levare voti a un Pd che ormai li regala, domani chissà. Idem per Grillo, sicuro di poterne levare a Di Pietro e al Pd. Idem per Vendola, che le vorrebbe domani: più tardi si andrà alle urne, più difficile sarà vincere le primarie. Subitissimo le vorrebbe pure Berlusconi, che però non vuole assumersene la responsabilità e disperatamente spera che Fini gli offra un’occasione: farà di tutto per farsela offrire, ma deve stare attento a non creare condizioni che diano al Quirinale ragioni per cercare in Parlamento i numeri di un governo tecnico o istituzionale.
I peones di ogni colore potrebbero volere o non volere le elezioni – tutto dipende con quale legge elettorale si va alle urne e quanta lealtà possano fin qui aver mostrato a chi dovrà decidere se ricandidarli o no – e tuttavia sono di così basso livello – il Parlamento più bifolco e ottuso di tutta la storia della Repubblica – da non poter essere coordinati neppure da un qualche inconscio collettivo. C’è più coordinazione di microrganismi su un cadavere che trasversalità tra eletti grazie a un Porcellum. Si possono immaginare acquisti di Berlusconi in campo avverso, ma pure plotoni di franchi tiratori, cecchini impazziti, diserzioni in massa o alla chetichella.
Insomma, se si andrà alle elezioni prima del 2013, e quando, non dipende da nessuno dei protagonisti in scena e nemmeno dai caratteristi, dalle comparse, dai figuranti. Non dipende neppure da Napolitano, che ha come unico fine quello di essere trattato bene dagli storici, chiunque sia destinato a vincere e perciò a scrivere la storia. Non si sa da chi cazzo dipenda, la legislatura, e questo ci spinge a credere che allora esista un destino comune. Siamo in una situazioncina davvero interessante, non c’è che dire.
Quando tornerebbero utili, i cosiddetti poteri forti latitano, come se non esistessero, o stanno a guardare, come se non fossero poi così forti da poter decidere chi innalzare e chi affossare. Anche la magistratura più istintiva rimane indecisa con l’istinto a mezz’aria, come terrorizzata dall’eterogenesi degli eventi. La corte berlusconiana si arrocca, sbraita dai merli, e più sbraita, più pare sbraitare per darsi coraggio: lo stato maggiore, l’anticamera e le carrette di puttane potrebbero darsi la morte insieme al Duce, ma pure dilaniarlo a brani per guadagnare qualche favore o qualche lasciapassare. L’avversario più forte vede il Regime vacillare, ma ha una fottuta paura che cada crollandogli addosso, spiaccicandolo. Gli altri sono così volatili da poter ben sperare di stare a volteggiare sulle macerie, ma pure hanno paura d’essere spazzati via dallo spostamento d’aria.
Insomma, se si andrà alle elezioni prima del 2013, e quando, non dipende da nessuno dei protagonisti in scena e nemmeno dai caratteristi, dalle comparse, dai figuranti. Non dipende neppure da Napolitano, che ha come unico fine quello di essere trattato bene dagli storici, chiunque sia destinato a vincere e perciò a scrivere la storia. Non si sa da chi cazzo dipenda, la legislatura, e questo ci spinge a credere che allora esista un destino comune. Siamo in una situazioncina davvero interessante, non c’è che dire.
Quando tornerebbero utili, i cosiddetti poteri forti latitano, come se non esistessero, o stanno a guardare, come se non fossero poi così forti da poter decidere chi innalzare e chi affossare. Anche la magistratura più istintiva rimane indecisa con l’istinto a mezz’aria, come terrorizzata dall’eterogenesi degli eventi. La corte berlusconiana si arrocca, sbraita dai merli, e più sbraita, più pare sbraitare per darsi coraggio: lo stato maggiore, l’anticamera e le carrette di puttane potrebbero darsi la morte insieme al Duce, ma pure dilaniarlo a brani per guadagnare qualche favore o qualche lasciapassare. L’avversario più forte vede il Regime vacillare, ma ha una fottuta paura che cada crollandogli addosso, spiaccicandolo. Gli altri sono così volatili da poter ben sperare di stare a volteggiare sulle macerie, ma pure hanno paura d’essere spazzati via dallo spostamento d’aria.
Siamo in uno di quei momenti della storia patria in cui solo una strage, una calamità naturale o una grave crisi internazionale potrebbe farci uscire dallo stallo. Speriamo bene.
giovedì 5 agosto 2010
Più che un refuso
Sul Corriere della Sera di ieri, a corredo di un articolo sul viaggio che Benedetto XVI farà a breve in Inghilterra e nel corso del quale proclamerà la santità del cardinal John Henry Newman, al posto della foto del santuro era pubblicata quella del suo “amatissimo” Ambrose StJohn, che molti ritengono essere stato, quasi tutta la vita, suo consorte di fatto. Voglio dire: nel pigliare quello sbagliato di due che in fondo erano carne della stessa carne, il Corriere della Sera ha fatto un gesto romantico più che un refuso. Che oggi il Corriere della Sera non rettifica e che nessuno segnala, a quanto mi risulta.
mercoledì 4 agosto 2010
Un bivacco di manipoli
Per 6 secondi (01:21:31-01:21-36), a Montecitorio, oggi s’è gridato in coro: “Du-ce! Du-ce!”.
Lasciare i radicali conviene in generale
Marco Pannella era amarognolo ma in fondo orgoglioso, nell’ultima conversazione domenicale con Massimo Bordin, nello scorrere la lista degli ex radicali che hanno fatto carriera (Francesco Rutelli, Gaetano Quagliariello, Benedetto Della Vedova, Daniele Capezzone, Peppino Calderisi, Elio Vito, Roberto Giachetti), ma ha dimenticato di citarne parecchi altri, altrettanto noti, ai quali l’abbandono della casa radicale non si può dire abbia fatto troppo male (Marcello Pera, Marco Taradash, Eugenia Roccella, Massimo Teodori, Francesca Scopelliti, Alessandro Meluzzi, ecc.). Lasciare i radicali conviene in generale, massimamente a fini di carriera, non ha importanza quale. A esempio prenderei una ex radicale delle meno note, prima portavoce di Di Pietro, poi di Velardi e ora di Formigoni.
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