giovedì 2 settembre 2010

Il tic di un furfantello in giornata poco felice

Non vi sarà sfuggito il post in cui Camillo si lamenta dell’ipocrisia di quanti hanno storto il muso per la lezione di Corano tenuta a Roma da Gheddafi ma non hanno sollevato alcuna perplessità riguardo all’eventuale costruzione di una moschea a due isolati da Ground Zero, concludendo: “Gheddafi no, moschea a Ground Zero sì. La differenza? Berlusconi”. A me era sfuggito, ma Nicola Bergonzi me lo ha segnala e mi chiede di commentarlo.
In realtà, la questione sollevata da Camillo non meriterebbe alcun commento, perché è costruita su una correlazione così goffamente surrettizia da costituire implicitamente offesa a chiunque venga offerta. La moschea a due isolati da Ground Zero, se e quando sarà costruita, potrà essere considerata una “vergognosa indecenza”, come lo stesso Camillo è disposto ad ammettere sia stata la “baracconata islamista” di Gheddafi a Roma? Non si tratterebbe di un edificio eretto su un terreno privato e destinato al culto islamico, in un paese che riconosce il pieno diritto alla proprietà privata e alla libertà di credo religioso, compreso quello islamico?
Camillo è disposto ad ammettere che Gheddafi “prova comicamente a fare proselitismo islamico a Roma”, ma può ragionevolmente sostenere sia lo stesso per una moschea a New York? Ha notizia di moschee – di quelle già presenti a New York (una non lontana da Ground Zero, di cui nessuno s’è sognato di chiedere l’abbattimento o la chiusura dopo l’11 settembre) o di altre in qualche altro paese – che offrano 80 euro a ogni visitatore non musulmano disposto ad ascoltare una lezioncina di Corano, e 300 a chi sia disposto a convertirsi all’islam? E dunque: se in premessa non c’è alcuna sostenibile analogia tra le due cose, perché Camillo si aspetta identica opinione su entrambe? Una risposta c’è ed è proprio lui a darla: Berlusconi.
È stato Berlusconi a consentire l’indecente show di Gheddafi, e questo è chiaro anche a Camillo: ora cosa può congruamente neutralizzare l’indecenza? Il non trovare indecente ciò che per Camillo dovrebbe esserlo, senza però essere in grado di produrre argomenti decenti per dimostrarne l’indecenza.
Ma forse non è necessario andare tanto a fondo, perché il patetico azzardo polemico di Camillo può essere liquidato già in superficie: il tic di un furfantello in giornata poco felice.

mercoledì 1 settembre 2010

41 bis


Ancora una volta la vile teppa giustizialista rivela la sua bruta ottusità: dà del mafioso a Dell’Utri per impedirgli di parlare, invece di dargli del pataccaro dopo averlo fatto parlare. La procedura che ha portato alla sua condanna in appello potrebbe trovare in Cassazione una censura tale da vaporizzare la mafiosità di un bibliofilo che si ostina – e questo sì che è un crimine – a spacciarci per genuini quei suoi diari di Mussolini che storici, filologi, grafologi e chimici hanno irrevocabilmente sentenziato come farlocchi. Per questo meriterebbe il 41 bis, mica per altro.

Dimenticavo: impedire di parlare a chicchessia non è carino.

Verifiche


Nel programma che il centrodestra sottopose agli elettori nel 2008 non v’era traccia di quel “processo breve” che oggi il governo intende inserire tra i cinque punti da sottoporre a verifica parlamentare, pretendendo la fiducia dei 344 deputati e dei 174 senatori che a loro volta la ottennero dagli elettori sulla base di quel programma, come a conferma di un impegno di cui l’esecutivo intenda farsi garante. In quel programma v’era un cenno alla “attuazione dei principi costituzionali del giusto processo per una maggiore tutela delle vittime e degli indagati” (prima delle vittime, poi degli indagati) – se è per questo, ve n’era pure uno all’“aumento delle risorse per la giustizia”, e uno alla “costruzione di nuove carceri e ristrutturazione di quelle esistenti” – ma non si capisce quale tutela delle presunte vittime sia assicurata da quella che col “processo breve” sarebbe un’amnistia di fatto per i presunti colpevoli. Sulla capacità di “attuazione dei principi costituzionali”, poi, questo governo dovrebbe porre una verifica a monte: in quel programma non v’era traccia neppure di una “sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato” (lodo Alfano), fatta legge nel 2008 e bocciata dalla Corte Costituzionale nel 2009.


martedì 31 agosto 2010

“Io sono Oriana Fallaci, non un paziente qualsiasi”


«Oriana stava ormai male, tossiva continuamente. La convinsi a farsi visitare allo Sloan Kettering, il maggiore istituto per la cura dei tumori del mondo. Non fu facile ottenere l’appuntamento; ma una bella mattina di una bellissima giornata andai a prenderla a casa e andammo a piedi allo Sloan Kettering. Lì, come per tutti, un segretario le presentò un lungo questionario da compilare. Oriana si infuriò (“Io sono Oriana Fallaci, non un paziente qualsiasi”) e si presentò al luminare con il questionario in bianco; e lui, tempo un minuto, la rimandò a casa. Oriana tornò allo Sloan circa un anno dopo, ma era troppo tardi»

Giovanni Sartori, Corriere della Sera, 25.8.2010

[...]



Ben le sta


Anna Foa scrive: «Un elemento accomuna, almeno a partire dall’età dei ghetti, l’architettura sinagogale, qualunque ne fosse lo stile, ed è quello di non essere opera di architetti ebrei: le norme giuridiche proibivano infatti agli ebrei, insieme agli altri divieti, anche l’esercizio dell’arte dell’architettura». Avrebbe dovuto ricordare che i ghetti furono voluti da un papa e che fu un papa a proibire agli ebrei l’esercizio dell’architettura, ma la reticenza le è d’obbligo, perché ciò che scrive è destinato alle pagine del giornale del papa (L’Osservatore Romano, 30-31.8.2010). Ben le sta, dunque, che il titolista le dia quanto è dovuto ad ogni ebreo che si mette nelle mani di un cattolico: «Il paradosso delle sinagoghe costruite sempre da non ebrei». Dove stia il paradosso del non poter costruire sinagoghe, stante il divieto di costruirle, ora spetta chiarirlo alla reticente.

sabato 28 agosto 2010

Sempre di rantoli si tratta


“Spero che si concluda rapidamente l’era Berlusconi”, scrive Veltroni (Corriere della Sera, 24.8.2010). “Non per mettere la pietra al collo al bipolarismo”, precisa, perché “bisogna considerare il tempo delle decisioni come una variante non più secondaria” nell’azione di governo e solo il bipolarismo può assicurarci a tal fine una “repubblica forte e decidente”. Però questo “comporta profonde e coraggiose innovazioni”, non escluso un “ammodernamento” della Costituzione, basta non sia nel segno di quella “democrazia autoritaria” verso la quale ci trascina l’“insopportabile anomalia” di un premier che è proprietario di “giornali e tv con i quali promuovere se stesso e randellare i suoi avversari”.
Rammentate una sola iniziativa di Veltroni tesa a impedire il consolidarsi di questa “anomalia” che oggi gli è tanto “insopportabile”? Io no, anzi, direi che Veltroni si sia sempre speso in senso contrario (Michele De Lucia, Il baratto, Kaos Edizioni 2008). E cosa mette in gioco, oggi, per una rapida conclusione dell’era Berlusconi? La speranza. Non chiedetegli altro, per piacere: questo “vero bipolarismo” che sta nelle speranze di Veltroni è di fatto possibile solo con l’implosione di uno dei due poli di questo bipolarismo che non gli piace, e Veltroni spera. Non parlategli di una “santa alleanza contro Berlusconi”, sarebbe andare un po’ troppo oltre la speranza.
Bersani, invece, osa e immagina “un’alleanza democratica per sconfiggere Berlusconi” (la Repubblica, 26.8.2010) e “per una legislatura costituente”, “un’alleanza che può assumere, nell’emergenza, la forma di un patto politico ed elettorale vero e proprio, o che invece può assumere forme più articolate di convergenza che garantiscano comunque un impegno comune sugli essenziali fondamenti costituzionali e sulle regole del gioco”. Si tratta di “una proposta che potrebbe coinvolgere anche forze contrarie al berlusconismo che in un contesto politico normale (come già avviene in Europa) avrebbero un’altra collocazione; una proposta che dovrebbe rivolgersi ad energie esterne ai partiti interessate ad una svolta democratica, civica e morale”. Un arco costituzione antiberlusconiano sotto il quale potremmo trovare Casini e Pannella, Fini e Vendola, Di Pietro e Bonelli. Bene, ma chi li guiderebbe, e dove? “Tocca al Pd innanzitutto, come maggiore forza dell’opposizione, indicare una strada”. Ma quale? Bersani non lo dice, ma vedrete che se li tirerà tutti dietro.

Due rantoli da un Pd che sembrava già morto, ma sempre di rantoli si tratta. Già è qualcosa – finché c’è vita, c’è speranza – ma considerarli un segno di ripresa è troppo: il Pd non ha un progetto di società che di fatto sia in grado di mettere in crisi il blocco sociale che esprime questo centrodestra; e non ha un programma di governo; e ha voce ambigua, contraddittoria, contorta, equivoca, al punto che Fioroni (In onda – La7, 26.8.2010) arriva a dire che trova un “comune sentire” in Veltroni e in Bersani.

venerdì 27 agosto 2010

Bestie straordinarie


Pur non avendo pungiglione, quest’anno abbiamo visto le meduse pungere (La Stampa, la Repubblica, Il Messaggero, Libero, ecc.). Pur non avendo denti o artigli, chissà, l’anno prossimo le vedremo mordere o graffiare. Il Mediterraneo pullula di una strabiliante fauna marina, le redazioni pullulano di singolari bestie.
 
 

Rettifica preventiva


Almeno Avvenire, L’Osservatore Romano e Il Foglio non tarderanno a segnalare – vedrete – un articolo a firma di Cleave Seale per il Journal of Medical Ethics, on line dall’altrieri, sul ruolo della fede religiosa nelle decisioni prese da un medico che sia posto di fronte ad un paziente terminale, e verrà sottolineato – vedrete – che “doctors who described themselves as non-religious were more likely than others to report having given continuous deep sedation until death, having taken decisions they expected or partly intended to end life…”, ma verrà tralasciato “… and to have discussed these decisions with patients judged to have the capacity to participate in discussions”. La decisione di risparmiare al paziente terminale una lunga e atroce agonia parrà così essere presa autonomamente dal medico non credente e la penna produrrà qualche specioso artificio teso a insinuare che, quando non ha fede, un medico sia incline ad ammazzare con troppa leggerezza chiunque, a suo parere, stia soffrendo troppo.
In realtà, l’articolo dà conto solo di una maggiore disponibilità del medico non credente a rendere libera e responsabile quella scelta che dovrebbe spettare al paziente e che un medico credente solitamente tende a sottrargli, per metterla nelle mani del suo Dio, che quasi sempre è un mostro avido di sofferenza. La mostruosità diventa piena quando il Dio del medico non è neppure lo stesso Dio del paziente.

E infine il topolino ha partorito una montagna



E infine il topolino ha partorito una montagna – anzi, due montagne – di parole, sul Corriere della Sera e su la Repubblica. Leggo Veltroni, leggo Bersani e il Pd mi sembra avere una sola chance: mettersi cenere in testa, battersi pugno in petto e implorare Prodi di tornare, sarebbe l’unico a poter guidare sia ciò che immagina Veltroni sia ciò che immagina Bersani, non ce n’è altri. E questo dà la misura di tutto il possibile che resta al Pd.


giovedì 26 agosto 2010

Chiedo scusa al lettore se mi ripeto



Farete fatica a trovare uno storico che sia stato benevolo nel trattare la figura di papa Alessandro VI, fatta eccezione per un tal Lorenzo Pingiotti, che infatti non è uno storico, ma un dipendente di ente pubblico con una laurea in economia e l’hobby dell’apologetica (La leggenda nera di papa Borgia, Fede & Cultura, 2008). Anche il Pingiotti, tuttavia, riesce a concludere assai poco nel suo disperato tentativo ed è costretto ad ammettere ciò che è abbondantemente documentato: tre figli (forse quattro) da cardinale, diversi altri da papa, un numero imprecisato di amanti fra le quali una concubina papae ufficialmente riconosciuta, crudeltà pari alla dissolutezza, mostruosa avidità, insuperabile smania di simonia e, soprattutto, un feroce nepotismo. Su quest’ultimo punto non v’è alcuna controversia pendente: Alessandro VI s’era posto l’obiettivo di secolarizzare lo Stato Pontificio sotto il regime dei Borgia.
Il povero Pingiotti non nega, ma lima, smussa, indora e, non riuscendo a trovare altre virtù, finisce per puntare l’ultimo suo soldino sulla santa caccia all’eretico che Alessandro VI promosse in difesa dell’ortodossia.

Ora, “in difesa di Alessandro VI”, “un papa ingiustamente solo malfamato”, scende in campo anche Sandro Magister. Cosa dovrebbe farci rivedere il giudizio su papa Borgia? È presto detto: “Amava la cifra, l’emblema, il simbolo, lo incuriosivano l’araldica e il mito, lo affascinavano le genealogie degli dei, le favole esotiche, le credenze misteriche”, lo afferma il professor Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, che lo deduce da un ritratto di Alessandro VI fattogli dal Pinturicchio.
Ricapitoliamo: il Pinturicchio ritrae papa Borgia in modo tale che il professor Paolucci riesce a leggere nel ritratto del committente le strabilianti virtù di cui sopra e Magister ci invita a revisionare la storia, “in difesa di Alessandro VI Borgia. Come giusto”. Un po’ come rivedere il giudizio storico su Adolf Hitler, perché acquarellista, vegetariano e tanto affezionato ai cani. Non vi pare “giusto”?
Chiedo scusa al lettore se mi ripeto: perciò li schifo, i vaticanisti italiani.

Attacco al Papa


Due vaticanisti italiani firmano a quattro mani un volume che in questi giorni arriva in libreria e che non pare valga la pena di comprare. Pare trattarsi, infatti, del collage dei pezzulli che nel corso del pontificato di Benedetto XVI i due hanno firmato per i giornali sui quali scrivono, a commento dei tanti infortuni che, divertendoci non poco, Benedetto XVI ha causato a se stesso e alla sua Chiesa. Il titolo del libro – Attacco a Ratzinger – rivela l’impostazione del volume e conferma il carattere cortigiano della vil razza dannata dei vaticanisti italiani, ben rappresentata nell’anticipazione oggi offertaci da Il Foglio. «Questo libro – si legge nel capitolo finale – non intende presentare una tesi precostituita. Non intende accreditare in partenza l’ipotesi del complotto ideato da qualche “cupola” o spectre, neanche quella del “complotto mediatico”, divenuto spesso il comodo lasciapassare dietro al quale alcuni collaboratori del Pontefice si trincerano per giustificare ritardi e inefficienze. È però innegabile che Ratzinger sia stato e sia sotto attacco». Provoca, ma il mondo dovrebbe chiudere un occhio, bonario, e invece non lo chiude, reagisce alla provocazione: chiaramente è un attacco al Papa, perché al Papa sarebbe dovuto rispetto, sempre e comunque, e questa non costituirebbe “tesi precostituita”.
Una boccata d’aria, tuttavia, nell’opinione di un vaticanista non italiano (Jean-Marie Guénois), altra razza, che i due citano senza porre mano a personale riflessione: «È Benedetto XVI a trovarsi nel mirino? È davvero lui l’obiettivo ultimo delle campagne mediatiche? O non è piuttosto lui, con la sua mitezza ma con la sua altrettanta chiarezza, ad “attaccare”? […] Più che un attacco al Papa, direi piuttosto che è partito un “attacco” del Papa contro molti soggetti…». I quali, per Tornielli e Rodari, autori di questo inutile volume edito da Piemme, non dovrebbero reagire. E invece reagiscono, sicché il Papa è sotto attacco. E io perciò li schifo, i vaticanisti italiani.

mercoledì 25 agosto 2010

Tentare le primarie o rifare le elementari?



Intervista a Nichi Vendola (il manifesto, 25.8.2010 - pag. 6)


martedì 24 agosto 2010

Miracoletto



Pare che Caterina Socci sia uscita dal coma con danni irreversibili, almeno questo è quanto s’intuisce in mezzo ai mille grazie che il padre rivolge alla Madonna, che onestamente poteva far di più, guardando bene chi stesse a chiederle la grazia.

Senza parole




lunedì 23 agosto 2010

Corrispondenze



Caro Malvino, sono in Palestina da settimane e tutte le volte che mi arrabbio ti penso. Dal poco che ti conosco mi verrebbe da dire che non saresti offeso dai calci nei coglioni che ti ho virtualmente tirato pensando ai tuoi post filo-israeliani, e penso lo continuerò a fare: a te, non fanno male, e io mi accontento di questa catartica vendetta prendendo te come capro espiatorio di tutti i mali di questa terra. […] Mi addolora il saperti dalla parte opposta anche su un fronte su cui tranquillamente potremmo accusare per una volta la stessa ingiustizia e lo stesso sopruso. Mi viene il dubbio che questa travona che hai nell’occhietto venga dal non aver visto di persona quello che succede qui. Sei mai stato in Palestina, hai mai visto quello che succede qui? Hai amici, persone, conoscenti che ti hanno raccontato? […] Quello che vedo da varie settimane mi rimane dentro, non ne trovo il motivo, leggo il mio Qohelet e ho semplicemente deciso che bilancerò pigrizia e testardaggine nell’inviarti materiale, testimonianze, informazione dall’altra parte del muro. […] Saluti,

Andrea Zanni



Caro Andrea, leggerò con attenzione tutto ciò che mi invierai, ma non penso che riuscirai a farmi cambiare idea: io penso che lo Stato di Israele abbia il diritto di esistere, ma vedo che questo diritto è tuttora negato dai palestinesi, sicché deduco che non si può essere amico dei palestinesi senza dover essere, per diretta conseguenza, nemico degli israeliani, mentre ho più volte constatato che si può essere amico degli israeliani senza essere costretto a negare un diritto dei palestinesi ad avere un loro Stato, se non per molto indiretta conseguenza, che poi sarebbe quella che i palestinesi hanno fatto in modo che si realizzasse, facendosi usare da tutti i nemici di Israele, dalla fondazione dello Stato di Israele a oggi. 
Non penso che potrai darmi testimonianza di cose che ignoro o che non posso almeno immaginare e non faccio alcuna fatica ad immaginare le condizioni di vita alle quali i palestinesi sono costretti dalle misure di sicurezza, qui deterrenti e lì ritorsive, che Israele realizza a sua difesa. Sono disposto ad ammettere che oggi siano estremamente dure, ancor più di quanto possano essere state in passato, e posso arrivare perfino a concederti che possano di tanto in tanto essere esagerate, ma quello che Israele ha subìto dal 1948 ad oggi basta a spiegare tutto, se non a giustificarlo.
Nei conflitti che impegnano X e Y da lunga data, ogni violenza di X può sempre essere considerata come risposta ad una precedente violenza di Y, la quale può essere considerata come risposta ad una precedente violenza di X, e così via andando a ritroso. Nel nostro caso, stando a quanto sostengono i palestinesi, il primo atto violento commesso dagli israeliani a loro danno sarebbe stato quello di esistere; stando a quanto sostengono gli israeliani, invece, il primo atto violento commesso ai loro danni sarebbe stato l’attacco sferrato dalle forze filopalestinesi di Egitto, Siria, Iraq, Libano e Transgiordania, appena 24 ore dopo la nascita dello Stato di Israele. Così, a lume di naso, propenderei per ritenere che ad innescare la spirale di atti violenti non siano stati gli israeliani, ai quali si può semmai rimproverare solo il non aver mai mancato risposta ad ogni successivo attacco, sia di natura bellica che terroristica (ammesso che la distinzione rimanga poi possibile).
Caro Andrea, siamo italiani e l’Italia non ha mai avuto proprie fonti di energia: abbiamo sempre dovuto esser carini coi paesi arabi, ricambiando con mille piccoli favori, compresa una politica estera filopalestinese. Dalla Fiat all’Eni, dal Pci alla Chiesa, da Moro a Craxi, attraverso i cento diversi antisemitismi di casa nostra, le simpatie del mondo politico, economico e culturale italiano non potevano che andare ai palestinesi: il petrolio che ci veniva dai paesi arabi, l’antigiudaismo cattolico, il romanticismo di scuola marxista-leninista che ci ha sempre spinto a fare il tifo per chi ci sembrava meglio vestisse i panni dell’oppresso e dell’espropriato, quel tic fascista di vedere in ogni ebreo un sordido riccastro intento a complottare coi massoni per la rovina della Patria... Sì, sono disposto a concederti che può continuare ad essere difficile, in Italia, essere amico di Israele. Ma non ti posso concedere altro. Tuo

Luigi Castaldi

P.S.: Sono certo che non ti arrabbierai del fatto che ho sforbiciato dalla tua e-mail tutti i complimenti che mi hai rivolto, un po’ perché davvero esagerati (nel leggerli arrossivo), un po’ perché dopo questa mia risposta non vorrei comprometterti presso la preponderante opinione pubblica filopalestinese della blogosfera. 

Quest'anno neanche mezza parolina


1. «Verità rivelata da Dio o definita dalla Chiesa come tale, imposta ai credenti come articolo di fede»: la definizione di «dogma» data dal Devoto-Oli dovrebbe irritare la Santa Sede, perché al posto di quell’«o» dovrebbe esserci un «e». La Chiesa, infatti, è il soggetto al quale è affidata la rivelazione e il compito di definirla e trasmetterla: una verità definita tale dalla Chiesa non può che essere rivelata da Dio e, dunque, non vi può essere alcuna relazione disgiuntiva tra rivelazione e definizione. Anche volendo dare a quell’«o» un significato non oppositivo ma esplicativo o di equivalenza («ovvero»), il problema resta: sul piano teologico, la rivelazione di una verità non equivale alla sua definizione e la sostanza di un articolo di fede trascende la sua formulazione. Ma non ho notizia di teologo cattolico che abbia sollevato contestazione.
Non è tutto. Il Devoto-Oli parla di una verità «imposta ai credenti», ma «imposizione» è termine improprio, almeno oggi. Da quando la Chiesa ha perso gli strumenti del potere temporale coi quali per secoli ha potuto pretendere dai battezzati l’adesione almeno formale agli articoli di fede, nessuno è tenuto a dare valore di verità indiscutibile ai dogmi: meno di una dozzina di verità che sono state dichiarate indiscutibili in un ampio arco di tempo che va dal 325 (Concilio di Nicea) al 1950 (Munificentissimus Deus), molte delle quali hanno trionfato sul sangue di quanti si sono azzardati a contestarle. A rigettarne una, oggi, si è fuori dalla Chiesa. In pratica, la scelta è libera, ma impegna alla sospensione di ogni esame critico su ciò che la Chiesa ha proclamato dogma: nessun problema per chi voglia dirsi un buon cattolico, perché «tra i dogmi e la nostra vita spirituale c’è un legame organico: i dogmi sono luci sul cammino della nostra fede, lo rischiarano e lo rendono sicuro; inversamente, se la nostra vita è retta, la nostra intelligenza e il nostro cuore saranno aperti ad accogliere la luce dei dogmi della fede» (Catechismo, 89). D’altro canto, un buon cattolico non potrà mai dubitare che, quando proclama un dogma, «il magistero della Chiesa si avvale in pienezza dell’autorità che gli viene da Cristo [e] propone verità contenute nella rivelazione divina» (Catechismo, 88): ogni tentazione allo scetticismo sarà sempre destinata ad essere infine vinta dalla fede (in caso contrario non sarebbe più un buon cattolico).

2. Arrivo a ciò che il Devoto-Oli afferma riguardo al «dogma» dopo alcuni mesi dedicati allo studio del Concilio Vaticano I e alla proclamazione del dogma dell’infallibilità papale, che offre al buon cattolico l’indiscutibile verità così formulata: «Definiamo essere dogma divinamente rivelato che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani, in virtù della sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardante la fede o i costumi dev’essere ritenuta da tutta la chiesa, per quell’assistenza divina che gli è stata promessa nel beato Pietro, gode di quella infallibilità, di cui il divino Redentore ha voluto dotata la sua Chiesa, allorché definisce la dottrina riguardante la fede o i costumi. Quindi queste definizioni sono irreformabili per virtù propria, e non per il consenso della chiesa. Se poi qualcuno - Dio non voglia! - osasse contraddire questa nostra definizione: sia anatema» (Pastor aeternus, IV - 18.7.1870).
Fortemente voluta da Pio IX e dai gesuiti, la proclamazione di questo dogma fu assai sofferta. Dobbiamo la più accurata ricostruzione storica di questi eventi ad August Bernhard Hasler (Come il Papa divenne infallibile, Ed. Claudiana 1982), che nel riportare ampia documentazione delle obiezioni allora sollevate da molti illustri prelati, teologi, biblisti e storici della Chiesa, infine ridotti al silenzio e all’obbedienza, ci fornisce gli elementi necessari per giungere a comprendere perché l’infallibilità papale fosse destinata già in partenza ad essere una verità da proclamare a voce sempre più bassa, meglio se dopo essere annacquata, come si è abbondantemente fatto, (a) restringendo sempre più l’ambito entro il quale si può dire che il papa stia parlando ex cathedra, (b) estendendo l’infallibilità alle proposizioni del collegio episcopale quando i vescovi siano in piena aderenza al magistero petrino e (c) canonizzando l’assunto di fede.
Quand’è che il Papa parla ex cathedra? Stando al testo della Pastor aeternus, «quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani, in virtù della sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardante la fede o i costumi dev’essere ritenuta da tutta la chiesa». Ma in quale dei suoi detti o dei suoi scritti pubblici il Papa non «adempie il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani»? E, tolto tutto ciò che attiene alla fede e ai costumi, che resta del magistero? Nella definizione della Pastor aeternus il Papa parla sempre ex cathedra, ma oggi (a) si tende a ritenere che lo faccia solo quando si intrattiene su articoli di fede, mentre il Codice di Diritto Canonico continua a mantenere il punto sul fatto che goda dell’infallibilità anche quando si intrattiene sui costumi (Can. 749 - §1): almeno su ciò attiene ad essi sembrerebbe che (c) l’accettazione del dogma dell’infallibilità papale impegni il buon cattolico come soggetto di un momento giuridico, giacché «esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana» (Catechismo, 90) ed evidentemente la cathedra ha un gradiente di infallibilità che impegna il buon cattolico su piani pur sempre paralleli, ma distinti.
È sempre il Codice di Diritto Canonico (Can. 749 - §2) a consentire l’annacquamento per (b) ciò che interamente recepisce dall’istituto della collegialità come rappresentato su questo punto dal Concilio Vaticano II: «Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non godano della prerogativa dell’infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il mondo, ma conservando il vincolo della comunione tra di loro e col successore di Pietro, si accordano per insegnare autenticamente che una dottrina concernente la fede e i costumi si impone in maniera assoluta, allora esprimono infallibilmente la dottrina di Cristo» (Lumen gentium, 25). Qui il Papa resta infallibile su questioni relative a fede e costumi, ma gode di questa prerogativa in associazione ai vescovi che siano perfettamente associati a lui su tali questioni: il primato è condiviso, e dunque almeno in apparenza è attenuato, ma l’infallibilità della dottrina da essi espressa è tale se coincidente a quella infallibilmente espressa del Papa, e dunque la condivisione del primato ha il solo fine di rafforzare la prerogativa petrina, ma diluendone ogni responsabilità al collegio episcopale e in misura proporzionale al dovuto vincolo della comunione.
D’altro canto, il buon cattolico non deve dimenticare che «il grado più alto nella partecipazione all’autorità di Cristo è assicurato dal carisma dell’infallibilità, [che] si estende tanto quanto il deposito della divina rivelazione [e] anche a tutti gli elementi di dottrina, ivi compresa la morale» (Catechismo, 2035), e dunque anche ai costumi: considerare infallibile il Papa (e i vescovi che mantengono saldo il vincolo della comunione a lui) gli assicura una perfetta obbedienza all’autorità di Cristo. E che può desiderare di più?

3. La verità che fu definita tale dalla Chiesa solo nel 1870, e con macchinosa estrapolazione da assai ambigua rivelazione e assai contraddittoria fonte storica, cominciò ad essere annacquata già in corso di definizione, quando monsignor Vincent Gasser, uno dei vescovi che pure era a favore della proclamazione del dogma dell’infallibilità papale, tenne a precisare che «l’infallibilità del Romano Pontefice non gli deriva da ispirazione o da rivelazione, ma da assistenza divina. Perciò il Papa, in ragione del suo ufficio e della gravità della materia, è tenuto a utilizzare i mezzi che ritenga opportuni ad una retta indagine e ad una adeguata enunciazione della verità. Questi mezzi sono i Concili, il parere dei vescovi, dei cardinali, dei teologi, ecc. […] Noi dobbiamo piamente credere che nella divina assistenza promessa da Cristo Signore a Pietro e ai suoi successori è contenuta pure una promessa riguardo ai mezzi che sono necessari e atti ad esprimere un giudizio pontificio infallibile. Infine, noi non separiamo il Papa, neppure in minima parte, dal consenso della Chiesa, purché quel consenso non sia posto come una condizione che è o antecedente o conseguente».
Non è un caso se il Concilio Vaticano II si servì proprio degli argomenti di monsignor Gasser per liquidare ogni riconsiderazione sulla Pastor aeternus (Hans Küng ha lamentato che non se ne discusse per più di dieci minuti): pur rappresentabile solo attraverso un consenso che in ogni caso non poteva e non doveva immaginarsi antecedente o conseguente al parere del Papa, il principio della collegialità episcopale, che ad alcuni sembrò una rivoluzionaria rottura col passato, era formalmente fatto salvo e la Lumen gentium sembrò mettere la necessaria sordina ad una Pastor aeternus impresentabile al XX secolo: non si dichiarava il Concilio Vaticano I errante sull’inerranza papale – un Concilio che ne smentisce un altro è sempre inopportuno – ma si aggirava la questione ribadendola in termini che consentissero l’associazione del collegio episcopale alla partecipazione all’autorità di Cristo attraverso una comunione col suo Vicario che comunque non ammettesse condizioni. Un capolavoro di ambiguità e di ipocrisia che sembrò salvare la capra dell’innovazione e il cavolo della tradizione.
Che un dogma dichiarasse l’infallibilità papale, però, continuò a imbarazzare, al punto che, cento anni dopo la Pastor aeternus, Paolo VI la definiva «pagina drammatica della vita della Chiesa», aggiungendo subito: «Non è Nostro intento parlarne» (Udienza, 10.12.1969). Strano modo di commemorare l’apertura di un Concilio: glissando sul dogma che aveva partorito. Pochi giorni prima (Omelia, 8.12.1969), era stato meno reticente: «Chi vi parla trema pensando ai riferimenti concreti che [il dogma dell’infallibilità papale] ha con la Nostra umilissima persona, a Nostra confusione», per trovare conforto solo in quella fede che poneva le basi dell’inerranza in una «esclusiva derivazione divina». Meno reticente anche su ciò che aveva accompagnato il parto della Pastor aeternus: «avversione, dubbio, timore, entusiasmo, o altro», ma la reticenza residuava in quell’«altro»: le minacce e i ricatti di Pio IX prima del Concilio, le sue vendette a chi gli aveva fatto ostacolo, dopo.
Dieci anni dopo, e a centodieci dal Concilio Vaticano I, Giovanni Paolo II continuava ad annacquare: «Il dogma dell’infallibilità papale occupa certamente un posto meno centrale nella gerarchia delle verità» (Discorso ai teologi tedeschi, 18.11.1980). A centoventi anni dalla Pastor aeternus, e a centotrenta, solo vaghi accenni, niente che si potesse definire commemorazione, tanto meno celebrazione. Quest’anno, a centoquaranta anni di distanza, neanche mezza parolina. Se ci è sfuggita, è stata detta in modo che ci sfuggisse.

domenica 22 agosto 2010

Il cesareo non è la via della vita




Sotto un titolo infelice (Il cesareo non è la via della vita) zenit.org pubblica l’infelicissima metafora che padre Angelo Del Favero va a pescare per la sua omelia a commento di Mc 10, 27 («tutto è possibile a Dio»): la sproporzione feto-pelvica a termine della gravidanza («una porta tanto stretta da sembrare assurda»). E scrive: «Se il piccolissimo bambino appena concepito si rendesse conto che nove mesi dopo, divenuto un bambino enormemente più grande, dovrà uscire alla luce attraverso quel grembo strettissimo in cui arriverà tra una settimana, vedendosi nella situazione impossibile del cammello e dell’ago non potrebbe pensare ad alcuna possibilità di uscita alla luce diversa dal taglio cesareo. Egli non sa che Dio andrà modificando il grembo materno in modo da consentirgli quel passaggio impossibile che non può intravedere ora, non senza il gran travaglio che sperimenterà a suo tempo assieme a sua madre».
Si tratta di affermazioni di estrema pericolosità sociale perché, in realtà, Dio non riesce sempre a modificare il grembo materno per consentire un parto naturale, come la storia della medicina documenta con gli elevati tassi di morbilità e mortalità perinatale di gravide e feti ai quali un taglio cesareo avrebbe evitato ogni inutile dolore e ogni tragico danno da disperate procedure manuali e strumentali. Giacché è onnipotente, pare che di tanto in tanto Dio decida di rendere proprio assurdo ciò che sembra tale e allora quel «passaggio impossibile» rimane «impossibile», o risulta infine possibile ma a un prezzo altissimo. Sicché padre Del Favero farebbe bene a non generalizzare, come quando aggiunge: «Dio risolverà ogni cosa: ha solo bisogno della nostra totale fiducia ed abbandono al suo amore». Tenuto conto del fatto che parla a poveracci che possono anche prendere per oro colato ciò che dice, e solo perché indossa un saio, sarebbe il caso moderasse le sue troppo disinvolte incursioni in campo ostetrico.

giovedì 12 agosto 2010

mercoledì 11 agosto 2010

Cognati


Nicoletta Tiliacos trae da un libro pubblicato l’anno scorso (Maurizio Bettini, Affari di famiglia, Il Mulino) interessanti rilievi di natura filologica sul “termine «cognato», di cui la cronaca va assai disquisendo in questo periodo” (Il Foglio, 11.8.2010). Così ci viene rinfrescata la memoria sul fatto che, presso gli antichi romani, i «cognati» erano “consanguinei imparentati per via femminile” (gli «agnati», invece, per via maschile); che il parente acquisito oggi detto «cognato» era chiamato, a quei tempi, «adfinis»; e che a «adfinitas» era dato “sia un significato metaforico di «compartecipazione», sia quello peggiorativo di «complicità»”. A sciogliere il contorcimento, insomma, la Tiliacos sta lì a suggerirci che Gianfranco Fini e Giancarlo Tulliani siano soci o complici più che parenti, e di lodevole c’è che almeno si trattiene dalla battutina scema sul «fini» che sta in «adfinis».
Chissà com’è che tutto questo prurito di Diritto Romano non le è venuto quando Il Foglio era definito dal suo direttore “il Giornale cognato”.