lunedì 13 settembre 2010

L'Italia nel Mondo e il Mondo in Italia



Alla riapertura delle aule scolastiche si constata che in molte classi, soprattutto elementari e medie inferiori, la maggioranza degli alunni è prole di immigrati. Dalla scuola pubblica, al momento, i loro padri non pretendono troppo: fa nulla che gli spiegate solo Virgilio, Dante e Manzoni – mugugnano il pizzaiolo egiziano, il muratore marocchino e il ristoratore giapponese (13 figli in 3) – sbrighiamoci con questa integrazione, ci sarà tempo per spiegarvi l’epopea di Gilgamesh, la cosmologia di Ibn-Rushd e la poetica di Shiki Masaoka.
Nel leggere la notizia, non so come, m’è tornato in mente un ricordo d’infanzia, ai tempi in cui ogni bambino perbene non poteva fare a meno del prestigioso status symbol della tessera d’iscrizione alla benemerita Società Dante Alighieri. Quel gruzzoletto di monetine alla signora maestra, tolto quanto andato in prescrizione, dimostrava che tu amavi davvero la lingua italiana, al punto da finanziare lo sforzo di diffonderla in tutto il mondo: diventavi un piccolo azionista della lingua, ti spettava un occhio di riguardo.
Non possiamo più esportarla – ho pensato – ma adesso li costringiamo ad importarla in loco: una vittoria della grande civiltà italica, comunque. Fatti per conquistare il mondo, la signora maestra ce lo diceva.

[...]



“Il vero cristianesimo si dimostra nell’obbedienza, e non in uno stato di coscienza”


Troviamo la conscientia in molti autori precristiani e già ha il significato di tribunale interno all’individuo: come con pietas e con caritas, i cristiani si sono limitati ad appropriarsi del termine e a riformarlo. Nella conscientia precristiana il giudice del tribunale interno condensa in sé il patrimonio di norme che regolano il sociale in senso lato e, dunque, c’è una conscientia di padre e una di figlio, una conscientia di padrone e una di servo, e al suo cospetto l’imputato è chiamato a rispondere in quanto padre o figlio, padrone o servo; nella conscientia cristiana, giudice e imputato sono entrambi “a immagine di Dio” e lo statuto morale è inscritto nella triangolazione col trascendente che sta prima e sopra del sociale.
La cum-scientia precristiana dà agli individui una consapevolezza che è nella loro storia ed essi sono cum-scientes in essa e per essa; quando Dio irrompe in essa, facendosi Uomo, il cum- che le era intraneo si fa estraneo ad essa: la promessa dell’eternità pone ogni scire e ogni cum-scire nell’inamovibile del rivelato.
In Quintiliano, per esempio, la coscienza vale quanto il parere di un’assemblea (conscientia mille testes); col cristianesimo, invece, Dio basta e avanza come testimone. Cosa è accaduto all’individuo? Quello che è già accaduto all’assemblea: l’ecclesia (un altro termine di cui i cristiani si sono appropriati, riformandolo da corpo sociale a corpo mistico, da società a chiesa) non ha più norma umana, ma divina. La legge sta sopra l’individuo, come prima, ma adesso il patto che la fonda non sta più nella consuetudine fatta sacra in forza di un vincolo che impegna l’uomo all’uomo: è il sacro che si fa consuetudine, e il vincolo che impegna l’uomo all’uomo è in forza della fondazione trascendente della legge. Così per l’anima: quella precristiana è mero spirito vitale, ma col cristianesimo viene da Dio e a Dio va, salvo a perdersi (e tuttavia in eterno).
Ecco perché bisogna fare molta attenzione quando i cristiani parlano di coscienza e di libertà di coscienza. Se la loro libertà è possibile solo nella loro verità, l’unica possibile libertà di coscienza sta nell’obbedienza alla verità della legge divina, rivelata alla chiesa e tramandata da essa: ogni altra libertà è falsa. In questo corpo mistico c’è un capo, vicario di Cristo, che alla legge dà una dimensione magisteriale, sicché per un cattolico come si deve la libertà di coscienza non può portare lontano da ciò che ordina il papa.

Poco più di quarant’anni fa, Joseph Ratzinger scriveva: “Al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica” (Commentary on the documents of Vatican II, vol. V, pag. 134 –Herder and Herder, 1967-1969). Franca è l’eco della celeberrima frase di John Henry Newman: “Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo, brinderò, se volete, al papa; tuttavia prima alla coscienza, poi al papa” [Lettera a William Ewart Gladstone]. Ma le richieste dell’autorità ecclesiastica possono essere disattese, se rettamente ispirate alla verità? E chi può dire quando non lo siano?
Vent’anni dopo, intrattenendosi sulla dottrina della coscienza in Newman, che vent’anni dopo avrebbe fatto santo, Ratzinger rispondeva a queste domande: “Da Newman abbiamo imparato a comprendere il primato del papa: la libertà di coscienza non si identifica affatto col diritto di «dispensarsi dalla coscienza, di ignorare il Legislatore e il Giudice, e di essere indipendenti da doveri invisibili» [Lettera al Duca di Norfolk]. In tal modo la coscienza, nel suo significato autentico, è il vero fondamento dell’autorità del papa. Infatti la sua forza viene dalla rivelazione, che completa la coscienza naturale illuminata in modo solo incompleto, e «la sua raison d’être è quella di essere il campione della legge morale e dellacoscienza» [ibidem]. […] Il vero cristianesimo si dimostra nell’obbedienza, e non in uno stato di coscienza”. Lo sapevamo, ma è bello sentirselo ripetere.

venerdì 10 settembre 2010

Sono ancora immaturi i tempi per "La versione di Barney"




Siamo tutti contenti e tuttavia



Vediamo se riusciamo ad essere intellettualmente onesti. È certamente una buona notizia che il pastore Terry Jones abbia deciso di non dare fuoco a copie del Corano, come aveva annunciato di voler fare. Tutti ne siamo contenti, perché così abbiamo evitato che dal fuoco a Gainesville (Florida) si innescassero altri incendi qui e lì per il mondo, però non possiamo cadere nel cinico pragmatismo: ne siamo tutti contenti, altresì, perché bruciare libri è in generale cosa assai brutta, anzi, bruta.
Siamo più che contenti, dunque, che a deprecare l’intenzione del pastore americano sia sceso in campo pure tutto lo staff del pastore tedesco: la cosa bruta e brutta è usanza peculiarmente cristiana, data da At 19, 19-20 e si è estesa in secoli e in continenti, fino a l’altrieri. Fa piacere veder morire una tradizione, di tanto in tanto.
Ciò detto, me lo volete spiegare perché, quando il pastore Jack Brok ha dato fuoco a copie di Harry Potter ad Alamagordo (New Mexico), non s’è levata voce?


Postillona
Solo dopo aver postato quanto sopra leggo un Berlicche che, a modo suo, mi dà una risposta: “Spesso ci giunge notizia di distruzioni e roghi di materiale contraffatto. Cinture, borse, DVD. Non c’è nessuno che osa protestare: sono falsi, sono dannosi per l’economia. Anche se sono funzionanti, e a qualcuno che non ha niente potrebbero far comodo. Quando viene pubblicato uno scritto palesemente falso subito ci si attiva per distruggerlo. Sia che la sua diffusione sia incidentale, come in un avviso errato, o intenzionale, come in un articolo diffamatorio. È dannoso, in quanto chi lo legge potrebbe non distinguerlo dalla verità. E nessuno in buona fede si duole per la sua rimozione”.
Quando vedo preparare in questo modo il campo della discussione sulla libertà di espressione per inclinarlo alla necessità di doverla negare a qualcuno, resto affascinato come dinanzi alla schiusa di uova di dinosauro. “Fa discutere – scrive Berliccheil proposito di un predicatore americano di bruciare il Corano. Ora, possiamo dire che si tratti di una verità che occorre conservare? Io certo non posso: sono convinto che sia intrinsecamente falso. Di più, che sia dannoso. Di quali danni sia capace ce lo ha dimostrato la storia degli ultimi millequattrocento anni. […] Non tutto è vero; non tutto è autentico; non tutto rimane utile per sempre. E se non lo è, che bruci”.
La verità sta in mano a Berlicche come sta in mano a Louis Vitton il diritto di esigere che vengano mandate al rogo tutti i prodotti contraffatti in quel nome. E allora “cosa mi impedisce di farne un rogo?”, si chiede Berlicche. “Il fatto che ci sia qualcuno che sia convinto che invece sia utile e vero. In altre parole mi arresto davanti alla libertà della persona, come del resto fa anche Dio. Come per la roba vecchia, per il materiale contraffatto, per disfarsi di una cosa senza suscitare un vespaio occorre che a nessuno importi più di essa. Se voglio disfarmi del Corano devo dimostrare che è appunto inutile, falso, dannoso. E convincere chi invece ci crede”. In attesa che il musulmano si converta, rimandiamo il rogo del Corano: sarebbe giusto, ma evitiamo il vespaio.
Ecco dunque la risposta a quanto domandavo sopra: bruciare Harry Potter non suscitava il vespaio che avrebbe suscitato bruciare il Corano e, a parità di stronzate, si poteva bruciare.
Nel post di Berlicche c’è anche un motivo che spiega com’è che ogni tanto muore una tradizione: di vespaio in vespaio.

Ripeto


Ripeto: Daniele Capezzone non è bisessuale, non lo è mai stato. A chi voglia dare una misura della sua ipocrisia – posso capire – torna utile lo sia, come d’altronde fu lui stesso a dichiarare, tempo fa: il fatto che s’irriti a sentirselo rammentare, e neghi, lo fa campione di doppia morale, peraltro in un campo altamente sensibile sul piano morale come quello sessuale, e – posso capire – la misura pare ben rappresentata. Io non concordo e penso che l’ipocrisia di Daniele Capezzone stia nell’aver dichiarato d’essere bisessuale senza esserlo, solo perché pensava gli tornasse utile: non doppia morale, dunque, ma totale mancanza di dimensione morale, se non come abito sociale.
Quando in società gli sembrò utile mostrarsi libertario fino al libertino, indossò abito morale e profilo sessuale non suoi, con la disivoltura di chi non ne ha di suoi, e oggi fa una certa fatica a toglierseli di dosso, peraltro avendone grande premura, perché deve indossarne di nuovi.
Daniele Capezzone non manca della dignità con la quale un bisessuale dovrebbe rivendicare il diritto di esserlo, ma manca del rispetto nel trattare di morale e di sesso.


Ma si poteva pure liquidare tutto così.

Saper raccontare




Trinità in ombra


Nei testi degli interventi tenuti al convegno su «Dio oggi», organizzato da Camillo Ruini nel dicembre dello scorso anno, non c’è traccia di Trinità. Solo adesso riesco a procurarmi il volume che li raccoglie (Cantagalli, 2010) e la prima cosa che mi salta all’occhio è il fatto – incredibile solo fino a un certo punto – che nel discutere di Dio, e in campo cattolico, qui come altrove, e da parecchio tempo, del Dio trinitario, che è peculiarmente cristiano, non si faccia parola, ma solo qualche vago accenno.
Credo che questa stranezza abbia qualche relazione con le linee culturali e politiche degli ultimi due pontificati, come causa o effetto – propendo per effetto – di quel trialogo con islam ed ebraismo cercato da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI.

Lasciando perdere tutte le ambiguità e le contraddizioni rivelate in questo tentativo di ritrovarsi fratelli nel monoteismo, è come se il desiderio di fratellanza dei cristiani abbia consigliato loro – non so quanto deliberatamente – di glissare sulla abissale differenza che c’è tra Jahveh e Allah, da un lato, e la Santissima Trinità, dall’altro. In pratica, da diversi decenni si glissa sul nucleo ineffabile del cristianesimo, sul mistero centrale della fede cristiana, sul fondamento teologico che da solo regge tutto il cristianesimo, perché implica un Dio che non si esaurisce nella trascendenza, ma – scandalo! – si incarna: e non sporula, ma resta in se stesso; e si effonde, creando relazione in Dio stesso; e incarnando questa relazione nella sua creatura e con la sua creatura.
Gli universi teologici dell’ebraismo e dell’islam si toccano e si confondono l’uno nell’altro nel Dio che elegge e che chiede sottomissione, che promana la Legge restando sovrumano sempre: con la Trinità, la Legge è articolata nella dialettica (nel Logos) del Padre che la effonde in Spirito incarnandola in Figlio. Il cristianesimo è monoteista, ma è un monoteismo a parte. Ricordarlo sarebbe ostacolo al trialogo.

Per far coincidere umano e divino nella persona del Figlio, per così spiegare un Dio incarnato, il cristianesimo ha pensato Dio dall’interno di Dio, chiedendo un supplemento di fede: per essere divinizzati nel Dio trino era necessario accettare il dogma di un Uno che è allo stesso tempo un Tre. Mai come con l’aritmetica, la ragione resiste all’assurdo: essere in grado, anche qui, di dire credo quia absurdum esige un abbandono all’obbedienza che è ripagato dall’essere «communicanti» (2 Pt) alla natura divina. Qui l’uomo è divinizzato, ma su questo punto il cristianesimo non rivendica troppa peculiarità.
Anche nel punto meno ecumenico degli ultimi decenni (la Dominus Iesus) è il cristocentrismo che stravince e pare farsi ostacolo al trialogo, non la natura trinitaria di Dio, che farebbe davvero impossibile sul piano teologico la discussione a tre su Dio.

Accade che il cristianesimo sia diventato quasi del tutto cattolico, ma che il cattolicesimo tradisca se stesso accantonando il dogma della Trinità: «con Lui o senza di Lui cambia tutto» (come recita il sottotitolo del volume), ma che il vero Dio sia trino (sennò non è il vero Dio) pare che i cattolici se lo siano dimenticato. Cristologia, ecclesiologia, precettistica magisteriale, parecchia soteriologia, escatologia e dottrina sociale – «Dio oggi» è tutto, tranne Trinità: è taciuto ciò che lo farebbe un Dio indiscutibilmente cattolico, perché ogni allegoria di Tre in Uno non liquida l’inquietudine dell’absurdum e si fa più fatica ad accettare questo dogma che quello dell’infallibilità papale. Dal gregge si ottiene più facilmente l’obbedienza ad un’autorità che uno sforzo di immaginazione oltre l’aritmetica.

giovedì 9 settembre 2010

Daniele Capezzone non è bisessuale




Daniele Capezzone non è bisessuale, non lo è mai stato: lo dichiarò a Eva Tremila, nell’ottobre del 2006, ma per autopromozionarsi. Posso dirlo con cognizione di causa, perché a quei tempi ero membro della Direzione nazionale di Radicali italiani e lo frequentavo con una relativa assiduità. Quell’intervista mi aveva stupito – dirò poi perché – e gliene chiesi ragione a modo mio: «Ottima mossa! – dissi – Hai alleggerito l’immagine seriosa con un tocco furbissimo sul piano politico e su quello dell’immaginario collettivo…». Sembrò assai soddisfatto del complimento, sicché pensai di poter buttare l’esca: «… tanto più azzeccato quanto più gestibile in futuro: dichiararti bisessuale era la scelta migliore per celare il tuo totale disinteresse per il sesso, che l’opinione pubblica solitamente considera con sospetto». Abboccò arrossendo come un bambino sorpreso a rubare la marmellata.
Era stato sincero due anni prima: «Desidererei vivere in un paese desessualizzato» (Magazine, 5.8.2004), ma se n’era pentito, perché l’immagine accentuava ancor di più quel misto di freddezza e contegnosità nel quale fin dagli esordi della sua vita pubblica s’era rinchiuso per difendersi, ma dal quale ora cercava di liberarsi, e già da qualche tempo. L’occasione offertagli da Eva Tremila fu colta al balzo, con prontezza e lucidità.
Forse non si aspettava tutto il rumore che ne conseguì, ma smentire sarebbe stato peggio, sicché decise che avrebbe confermato, ma smorzando i toni: «Credo a una cosa che ha detto lo scrittore Jorge Luis Borges: “Bisogna avere una mente ospitale”. Ho avuto rapporti di amicizia, e oltre, con ragazze e ragazzi» (Corriere della Sera, 27.10.2006). «E oltre» confermava, «Borges» smorzava. Per mesi e mesi, d’altra parte, non aprì bocca per smentire chiunque rilanciasse il “Capezzone bisex”.
Passato al centrodestra, cambiava tutto ed ecco, per la prima volta, un Capezzone furioso nel sentirsi rammentare il passato. Mai mosso un dito o aggrottato un ciglio per chi gli ha rinfacciato il capovolgimento di opinioni e posizioni, anche quando il disprezzo arrivava alla condanna morale e all’insulto. Stavolta no.


Nel centrodestra la bisessualità non serve a niente, anzi, è un handicap. Sicché di tutto ciò che ha fatto e detto in passato, spesso con largo eccesso di piglio, nulla lo imbarazza: serviva allora, non serve più, può essere archiviato. Ma il dichiararsi bisessuale senza esserlo non gli è servito troppo allora (avrebbe fruttato se non avesse saltato il fosso) e adesso non gli serve a niente. È un peso intollerabile per questo. Solo per questo.
Resta solo da spiegare perché quell’intervista a Eva Tremila mi avesse stupito. Ero convinto che Capezzone avrebbe lasciato i radicali e il centrosinistra: mi stupiva che azzardasse a mettere una così pesante ipoteca sul suo futuro politico in un’area culturale tradizionalmente ostile alla bisessualità, più ancora che all’omosessualità, perché più difficilmente “comprensibile” dell’omosessualità, e a destra si condanna tutto ciò che non si “comprende”: meno lo si “comprende”, più lo si condanna (è un riflesso condizionato del conservatore e del conformista, pressoché sempre).


Bozza di patto


Si paventa che la Untergang pigli una brutta piega, perché «ora c’è una sola cosa in cui il premier può sperare, voglia Dio che non avvenga. E quella cosa è il casino nelle strade, gli scontri di piazza, le aggressioni a lui o agli amici suoi» (Piovono rane). Voglia Dio che non avvenga, ma pare che, col tempo, il finale de Il Caimano sia venuto a farsi seria ipotesi di scenario. Succede ogni volta che Berlusconi è dato per spacciato (infatti il film di Nanni Moretti è del 2006), perché s’è fatta fama di stronzo coriaceo, estremamente pericoloso se il suo delirio di grandezza viene offeso, capace di tutto (ma proprio tutto) per averla sempre vinta. E avendo avuto tante prove di quanto sia abile e cinico nel mischiare vittimismo e prepotenza, i timori vengono trattenuti in qualche scaramantica parodia di fine regime con colpo di coda, immaginandoci che stia gridando ai suoi: «Per sistemare tutta questa merda lavoriamo sul consenso: trovate un altro ritardato e questa volta che lanci qualcosa di meno pesante e appuntito, cazzo!».
Insomma, c’è aria di guerra civile imminente e settori illuminati della Resistenza pensano di averla già vinta, ma a caro prezzo: l’imbarbarimento generale, il diverso ma uguale degrado morale degli uni e degli altri, e questo non sarebbe bello. Di poterla perdere, c’è solo una inconscia fifa.

Condivido la preoccupazione e, al fine di impedire una drammatica spaccatura del paese, che poi ci dà un fastidiosissimo malessere esistenziale, dico che si potrebbe trovare un compromesso: gli uni evitino di costruirsi ad arte il pretesto per una deriva autoritaria (o peronista o giacobina), gli altri (sia i peronisti sia i giacobini) diano impegno che non maltratteranno i vinti. Potremo anche metterci d’accordo sull’eventualità di far fuggire all’estero il Puzzone – in Russia o in Libia – senza esproprio; se invece la spunta anche stavolta, pur avendolo dato per già morto ancora una volta, ci assicuri di poterci almeno rifugiare nel web, tra blogosfera e Youtube.

mercoledì 8 settembre 2010

Dilemmi



Articolo a firma di Roberto Timossi (Avvenire, 8.9.2010) che sta tutto nel titolo e che potrebbe essere reso così: qual è il fine del non avere un fine? Se non è cretino, cerca di provocare. O mi dilungo o lo mando a cagare.

Sorvolando sull’inciso

L’insistenza con la quale il Pdl chiede a Gianfranco Fini di lasciare la presidenza di Montecitorio arriva a farsi forte di ragioni che hanno il difetto di non trovare alcun riscontro negli articoli della Costituzione o del Regolamento della Camera dei Deputati, ma il pregio di essere assai divertenti. Dovrebbe dimettersi perché ha dato prova di non essere abbastanza super partes. E che ha fatto? Ha dato prova di ingratitudine nei confronti del partito che l’ha voluto presidente della Camera, mostrando d’essere in più occasioni troppo super partes. In più, mostra franca ostilità verso il Pdl. Sarà perché, pur essendone cofondatore, il Pdl lo ha espulso non tollerandone le critiche sul modo in cui era gestito il partito? Non importa, questa sua ostilità è intollerabile: dovrebbe essere al di sopra delle parti mostrando un occhio di riguardo nei confronti di quella che dovrebbe sentire sua. Pure se non ne fa più parte, e non per sua volontà? Pure. Se non la sente sua, è troppo super partes e con ciò dimostra di non essere abbastanza super partes.

Assurdità di questo tipo possono essere scacazzate solo da cervelluzzi in tragica anossia, infatti così è, da giorni, da settimane, da mesi. E tuttavia attorno a Berlusconi non ci son solo idioti. C’è chi sa bene che a schiodare Fini dalla presidenza di Montecitorio ci vuol altro, semmai un nobile appello e un nobile esempio.
Aveva già tentato Ugo Finetti, a fine luglio: «Saragat, da cofondatore del Partito Socialista, quando litigò con Pietro Nenni dando vita ai nuovi gruppi parlamentari del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, automaticamente si dimise da presidente dell’Assemblea Costituente. Nessuno gli chiese di dare le dimissioni, ma lui, che della nuova formazione politica era il leader politico pur non guidando il gruppo nell’Assemblea, ritenne di non essere più compatibile con quel ruolo» (il Giornale, 31.7.2010).
Differenza trascurabile tra presidenza della Camera dei Deputati (Fini) e presidenza dell’Assemblea Costituente (Saragat)? Riciclando l’argomento di Finetti, si può renderla ancora più trascurabile, basta farla inerte nel contesto: «La prima assemblea parlamentare repubblicana, la Costituente, visse un episodio simile a quello che si va determinando oggi con Gianfranco Fini. L’assemblea era presieduta da Giuseppe Saragat, che nel gennaio del 1947 uscì dal Partito socialista, nelle cui file era stato eletto, per fondare una formazione socialdemocratica, e in conseguenza di questa scelta si dimise dalla presidenza…» (Il Foglio, 8.9.2010).
Sorvolando sull’inciso («la Costituente»), l’assemblea parlamentare presieduta da Saragat non sembra in tutto simile a quella presieduta da Fini? C’è solo da aspettarsi che la differenza passi inosservata e che Fini sia lusingato dall’esempio.

martedì 7 settembre 2010

Riserve



Le riserve che vengono più o meno esplicitamente sollevate nei confronti di Gianfranco Fini da una certa sinistra vanno a darci il quadro sintomatologico delle sue patologie croniche, peraltro abbondantemente note, in primo luogo della sua presunzione di superiorità morale e della sua irresistibile inclinazione al settarismo ideologico. Gianfranco Fini è pur sempre stato un fascista e questo è un peccato che chissà quale Dio può mondare del tutto. Non lo è più? Dev’essere dimostrato un congruo “riscatto”, come scriveva oggi Padellaro. Ma poi rimane pur sempre uno che cita Almirante, come diceva ieri Renzi. E poi come è possibile fidarsi? È legalista? Deve sbrigarsi a prendere posizioni coerenti al riguardo, e coerenti vuol dire estreme, rintuzza Di Pietro. È davvero uscito dall’orbita del berlusconismo? Sì, può darsi, ma deve dimostrarlo con l’antiberlusconismo dei più arrabbiati antiberlusconisti, sennò Grillo gli rinfaccia più o meno ciò che gli rinfaccia Feltri. E poi, sì, ha capito, ma ha capito con ritardo: come glielo vogliamo far pagare? Non può mica pretendere di essere preso in considerazione come possibile alleato, foss’anche in qualcosa di costituente, senza essersi fatto un po’ di purgatorio? Ci vorrebbe una di quelle belle autocritiche dei bei tempi andati, un po’ gogna e un po’ lavacro, eventualmente una quarantena e un corso di rieducazione. Potrebbe pensarci Pannella, che ti rigenera perfino il terrorista, restituendotelo democratico e nonviolento. Sì, però Gianfranco Fini è ambiguo sul maggioritario e puzza un poco ai radicali. Infine, siamo sicuri che non stia abbandonando il Pdl come il topo che abbandona la nave che affonda?

Ecco, non spacca solo il centrodestra, Fini, ma pure la scombinatissima accozzaglia delle opposizioni. E chi lo guarda ancora con un po’ di puzza al naso, chi s’avvicina e subodora opportunismo, chi storce il muso temendo di trovarselo a fianco ma come concorrente. E tutto questo spiega almeno in parte perché non è venuto ancora il momento che Berlusconi cada: non c’è ancora spazio, non c’è ancora modo, per una costituente.
Se Gianfranco Fini sta ancora con un piede in questo centrodestra, è perché fuori non c’è spazio per metterli entrambi: ne pesterebbe uno a questo o a quello.

Funziona



Affermare che «Dio non è necessario per spiegare l’universo» (Stephen Hawking) equivale a negarne l’esistenza: se è possibile spiegare l’universo senza dover ricorrere a un creatore, o quello che viene indicato come creatore è superfluo o non è creatore, e così a Dio viene meno l’attributo della sua necessità, senza la quale cadono le cinque prove ontologiche di Tommaso, che pongono ogni cosa in una relazione di necessità creaturale secondo il moto, la causa, la contingenza, il grado e il fine.
È che Tommaso si muoveva in un ambito relativamente ristretto, entro il quale le sue prove possono ancora sembrare schiaccianti: appena si esce da quell’ambito, nel quale il tempo e lo spazio conservano la rappresentazione ormai dimostrata aleatoria, la logica di Tommaso va in frantumi. Tempo e spazio non sono quello che ci sembrano e, soprattutto, non sono rigidi come gli assi sui quali costruiamo per comodità la rappresentazione degli eventi. Appena fuori dal ristretto ambito delle percezioni sensoriali, gli stessi eventi diventano irriducibili alle regole della logica corrente e, insieme a spazio e tempo, sfuggono alla comprensione della mente dell’uomo medievale.
Tuttavia Hawking è disposto a chiamare «Dio» ciò che può dare ragione della creazione dell’universo dal nulla, ma in questo caso non sarebbe un Dio creatore, tanto meno personale, né potrebbe essere entità preesistente al nulla o esterno ad esso, prima, e all’universo, poi: coinciderebbe col nulla, prima, e con l’universo, poi. Anche in questo caso, di fatto, Dio sarebbe negato, almeno per come è immaginato dalla sensibilità religiosa: sarebbe tutt’al più funzione, non causa, legge che obbedisce a se stessa. Potrebbe tutt’al più star bene ad un buddhista, ma sappiamo che il buddhismo è l’unica religione senza un Dio (né deismo, né teismo, nel buddhismo, tutt’al più filosofia o, meglio ancora, mistica fisica e precettistica).

Nell’ultimo suo libro (The Grand Design), di cui The Times ha pubblicato in questi giorni ampi stralci, Hawking è particolarmente esplicito su questi punti e l’uomo medievale non può che ricavarne irritazione.
Naturalmente, c’è Medioevo e Medioevo. C’è quello di don Livio Fanzaga di Radio Maria, che non si lascia neanche sfiorare dagli argomenti di Hawking, ma li respinge impugnando la logica di Tommaso (e, in contraddizione con se stesso, quella di Anselmo, contestata da Tommaso). È marasma, non si può definire in altro modo.
Ma poi c’è un Medioevo altrettanto buio, però meno rozzo (Piero Benvenuti – Avvenire, 7.9.2010). Giacché l’ipotesi di Hawking troverebbe una conferma in una Teoria del Tutto che dovrebbe poter dar ragione di ogni fenomeno fisico osservabile nell’universo – l’equivalente di una causa prima, che in Dio è esterna al fenomeno fisico, ma nella Teoria del Tutto coincide con la natura del Tutto – e giacché questa Teoria, ancorché dimostrabile, dovrebbe essere assunta con gli effetti di un atto di fede (perché il Tutto è così grande da non poter escludere eccezioni a qualsivoglia legge), nulla vieta di credere che possa essere successivamente destituita di fondamento. E perché? Potrebbe rivelarsi l’esistenza di un quid che non trovi adeguata spiegazione nel Tutto.
Siamo – se non si fosse compreso – alla ben nota elaborazione logica che assegna al soprannaturale tutto ciò che non si può afferrare ancora del naturale, nella convinzione che i mezzi umani non saranno mai in grado di afferrare tutto (o il Tutto). Privato dell’attributo della necessità, Dio se lo ripiglia: diventa necessario a riempire i buchi che l’uomo dovesse avere difficoltà a riempire nel caso la Teoria del Tutto rivelasse la necessità – eccola, la necessità! – di essere rivista.

Eppure Hawking è stato chiaro sul punto: col suo metodo «la scienza funziona», finisce sempre col funzionare meglio di ieri, e costringe l’idea di Dio ad arretrare sempre più laddove non funziona oggi, ma funzionerà domani. È così che Dio è stato sfrattato dai domini di ignoranza e di superstizione. Certo, all’uomo rimarrà sempre una domanda da porsi e nell’attesa di una risposta razionale ci sarà sempre qualcuno che offrirà la soluzione della fede, ma questa si va rivelando sempre meno funzionante dove la scienza funziona. L’incompatibilità tra ratio e fides si è fatta ormai irriducibile, lo dimostra il fatto che agli uomini di fede non basta più una condanna della ragione quando questa non voglia farsi ancella della fede: è sempre meno buio, è sempre meno Medioevo.

Complotti


Antoine Bello spreca un’ottima trama scrivendo un romanzo con i piedi (I falsificatori, Fazi Editore 2010). «È la storia – riporto dal risvolto di copertina – di un’organizzazione segreta internazionale, il “Consorzio per la Falsificazione della Realtà” [CFR], che da tempo immemore, senza che nessuno ne abbia mai sospettato l’esistenza, reinventa il reale per fini e moventi ignoti ai suoi stessi membri», ma questo non è del tutto esatto: a pag. 465 scopriamo che, al suo massimo livello, «i sei membri del Comitato esecutivo conoscono le finalità del CFR», mentre qua e là sono disseminati indizi che ci autorizzano a intuirle nobili.
Ingegnarsi a rendere credibili le azioni di un’organizzazione segreta non esige grande capacità narrativa, ma prima o poi arriva il punto in cui bisogna fare i conti con le ragioni che la muovono, e lì si misura la grandezza dello scrittore: o è capace di una magistrale paranoia o precipita nel dozzinale (spy story, thriller metafisico, fantapolitica, ecc.).

Il libro di Tornielli e Rodari (Attacco a Ratzinger, Piemme 2010) mostra lo stesso limite de I falsificatori: costruisce l’ipotesi di un’organizzazione segreta internazionale, il “Bilderberg Group” (BG), dietro i guai che Benedetto XVI s’è procurato in questi primi cinque anni di pontificato.
Questo papa è tanto pasticcione che sarebbe stato meglio lasciarlo fra gli scaffali di una biblioteca e nelle aule di una facoltà di teologia, invece di mandarlo in giro a provocare incidenti, ma questo nessun vaticanista italiano può azzardarsi a dirlo: ai due è sembrato più prudente ingegnarsi a immaginare il complotto di una centrale occulta, nella quale confluirebbero i massimi rappresentanti della potente lobby gay, della finanza massonica, delle industrie farmaceutiche che producono pillole, spirali e preservative e delle più agguerrite frange del cattolicesimo progressista, suggerendo la regia del BG, senza peraltro produrre prove.

Il CFR di Bello crea dal niente una comunità di oriundi greci nel Nebraska e una tribù boscimana a rischio di estinzione per l’avidità di compagnie diamantifere; in passato ha fatto passare per vero l’invio in orbita della cagnetta Laika, che in realtà non è mai avvenuto; e ha costruito migliaia di documenti falsi attribuendoli alla Stasi; ha cercato di scippare a Cristoforo Colombo la scoperta dell’America; e molto altro ancora.
Tornielli e Rodari, invece, trovano traccia del BG nel fraintendimento pressoché generale di ciò che Benedetto XVI ha detto a Ratisbona e di quello che intendeva dire col Summorum Pontificum e dell’esatto significato della remissione della scomunica ai negazionisti lefebvriani. Le infelicissime nomine di monsignor Wielgus (già spia per i servizi segreti della Polonia comunista) e di monsignor Wagner (per il quale l’uragano Katrina era da intendersi come punizione divina e il ciclo di Harry Potter come istigazione al satanismo), l’affermazione che l’uso del preservativo favorisce l’Aids, la critica al liberismo nella Caritas in veritate, l’ennesima piroetta sul terzo segreto di Fatima, le dure affermazioni sull’omosessualità, le ambiguità ecumeniche in terra anglicana, lo scoperchiamento della gran fogna pedofila nelle diocesi di mezzo mondo – bene, il BG potrebbe averci messo lo zampino.

Per ottobre è annunciato l’arrivo in libreria del seguito de I falsificatori. Lasciate ancora qualche anno a Benedetto XVI e arriverà anche il seguito di Attacco a Ratzinger.

lunedì 6 settembre 2010

“Gianfranco Fini doveva avere bene in mente il destino di Martelli”




Tutti a scervellarsi sulla ragione prima che ha lentamente ma irreparabilmente portato Fini fuori dall’orbita di Berlusconi. Il primo a chiederselo fu Pino Rauti, poi Francesco Storace, poi Assunta Almirante, senza saper trovare un motivo; poi furono i suoi colonnelli, che ipotizzarono un disturbo neurologico, di quelli che si risolvono con due ceffoni; e poi, via via, ce lo siam chiesti in cento, in mille e poi a milioni, chi pensando stesse splendidamente maturando in senso liberaldemocratico, chi pensando stesse vilmente tradendo la sua storia e i suoi ideali; e però tutti all’oscuro del profondissimo perché.
Si è congetturato, questo sì, e in tutte le direzioni: un profondo travaglio esistenziale, dunque psicologico, dunque culturale, dunque politico; una irriducibile antipatia personale nei confronti di Berlusconi che, dalla pelle all’osso, gli andava trasformando carne e sangue, da camerata a compagno; una smaniosa impazienza nel star lì a fare il delfino, sopportando ancora per chissà quanto tutte quelle barzellette sceme e quelle odiose manate sporche di cerone sulle spalle; si è pensato a tutto, siamo arrivati a niente di sicuro.
Piacesse o no, sembrasse schiettamente genuina o smaccatamente opportunistica, l’evoluzione o l’involuzione di Fini rimaneva senza spiegazione pienamente convincente, sicché chi l’apprezzava non rinunciava a qualche riserva e a chi la deprecava giravano terribilmente le palle. Più facile star lì a pazientare – ieri l’ha ammesso pure lui – e tutti, simpatizzanti ed antipatizzanti, hanno dovuto convenire. Ok, ma perché non ha pazientato?

Oggi è finalmente tutto chiaro, grazie ad Alessandro Gilioli: “Gianfranco Fini doveva avere bene in mente il destino di Martelli”, e a differenza di quello s’è mosso in tempo, prima che fosse troppo tardi, prima dell’inevitabile “implosione devastante” che sempre sta “alla fine della parabola” di “capi assoluti come Craxi o Berlusconi” e che inesorabilmente “inghiotte chi non ha saputo prenderne le distanze per tempo”.
Tutto quadra, ora. Fini prevedeva l’implosione del berlusconismo prim’ancora che andasse a regime, fin dal 1995, quando a Fiuggi ripudiò il fascismo al solo scopo di guadagnare simpatie fra gli antifascisti, che potevano sempre tornar comodo di lì a tre lustri. Tutto il resto – la visita in Israele, i sì al referendum sulla legge 40, le apertura sulle coppie di fatto e sulle politiche di integrazione degli immigrati, la difesa della Costituzione e della laicità dello Stato, eccetera – è stato solo di contorno: stava svendendo l’anima per salvare il culo. Ad essere altrettanto previdente, Martelli avrebbe dovuto cominciare a prendere le distanze dai socialisti dal 1978 in poi.
“Nessuno sa se il berlusconismo finirà fra un anno o fra tre, in modo chiassoso o felpato, pacifico o violento, ma a un certo punto finirà e chi non si è preparato sarà fuori dai giochi”: Fini va preparandosi da 15 anni. Se non son rane, piovono miserie dello storicismo.

domenica 5 settembre 2010

Chi manipola, la Repubblica o Avvenire?


Ci sarebbe stata una «manipolazione pesante» – così lamenta Avvenire (5.9.2010) – nel far dire a Benedetto XVI che «il posto fisso non fa la felicità, meglio credere in Dio» (AdnKronos), che «la fede viene prima del posto fisso» (la Repubblica), che «il posto fisso non è tutto, cercate Dio» (La Stampa), ecc. Scende in campo il direttore, Marco Tarquinio, a correggere: «Benedetto XVI accenna alla “domanda del posto di lavoro” e di un “terreno sicuro sotto i piedi”. Sottolinea che “è un problema grande e pressante” e aggiunge che “allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande”».
Le cose stanno davvero così? Non resta che andare alla fonte: «Ricordando la mia giovinezza – dice Benedetto XVI – so che stabilità e sicurezza non sono le questioni che occupano di più la mente dei giovani. Sì, la domanda del posto di lavoro e con ciò quella di avere un terreno sicuro sotto i piedi è un problema grande e pressante, ma allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande». Qui c’è un «ma» di cui Marco Tarquinio pare non abbia voluto tener conto. Infatti scrive che Benedetto XVI «sottolinea che [la “domanda del posto di lavoro” e di un “terreno sicuro sotto i piedi”] “è un problema grande e pressante” e aggiunge che “allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande”». Bene, Benedetto XVI non «aggiunge» con quel «ma», piuttosto disgiunge, introduce una contrapposizione, che la sintesi giornalistica mi pare abbia ben reso con quel «meglio» che non piace a Marco Tarquinio.
Contrapposizione doppia, peraltro: tra fede e posto fisso, da un lato, e tra giovani d’un tempo e giovani d’oggi, dall’altro. Infatti dice: «Se penso ai miei anni di allora: semplicemente non volevamo perderci nella normalità della vita borghese», non pensavamo al posto fisso, ma a qualcosa di più grande, che è meglio, che «viene prima»; e aggiunge: «È parte dell’essere giovane desiderare qualcosa di più della quotidianità regolare di un impiego sicuro e sentire l’anelito per ciò che è realmente grande». «Qualcosa di più (qualcosa di meglio) di un impiego sicuro». Vi è manipolazione nel sintetizzare, come ha fatto la Repubblica, che «la fede viene prima del posto fisso»?

5.9.2010




Non sei riuscito a cambiarmi, non ti ho cambiato, lo sai



L’afflizione di Alessandro Gilioli mi pare sincera, ma temo sia in errore nel ritenere che l’imbarbarimento dello scontro politico sia arrivato a darci gli episodi di contestazione a Dell’Utri e a Schifani, come esito finale di quindici anni di berlusconismo, per una sorta di contaminazione, perché «sono saltate le regole di civiltà e di confronto […] e le hanno fatte saltare loro». In realtà, «l’idea che la guerra civile fosse alle spalle da venti o trent’anni e che quindi ci si potesse confrontare riconoscendosi in regole democratiche condivise», che gli pare fosse garantita e quasi sancita dal cosiddetto «arco costituzionale», è sempre stata enunciata e non si è mai fatta sostanza: anche nei momenti in cui Dc e Pci hanno dato le più riuscite prove di consociativismo – fino al 1989 e dopo – l’avversario è sempre stato un nemico e una definitiva resa dei conti non ha mai smesso di essere nei sogni delle forze in campo (se non dei rispettivi ceti politici, dei due popoli che non si sono mai sentiti uniti nella stessa storia). Le regole di civiltà e di confronto sono sempre state sacrificate, e le hanno sempre fatte saltare «loro». Ci si è delegittimati a vicenda, da sempre, e dal 1994 in qua il degrado si è solo fatto più evidente: non c’è mai stata un’età dell’oro, si trattava di una patina. Talvolta, è vero, parve vigente un galateo, ma ebbe sempre a dimostrarsi assai fragile, le violazioni parvero sempre necessarie, la patina saltò, fu riattaccata, e saltò ancora.
Consiglio ad Alessandro Gilioli di trovare lenimento nella lettura di Virgilio Ilari (Guerra civile, Ideazione Editrice 2001), che forse potrà convincerlo del fatto che Berlusconi non è la causa ma l’effetto di un degrado che data mezzo secolo: Berlusconi ha solo illuso i suoi che una definitiva resa dei conti fosse possibile, rinfocolando braci mai sopite, di qua e di là. E dunque penso che il titolo che Alessandro Gilioli dà al suo post pigliandolo da una canzone di Fabrizio De Andrè (Sono riusciti a cambiarci, ci son riusciti, lo sai) dovrebbe essere sostituito dall’analogo della strofa precedente (Non sei riuscito a cambiarmi, non ti ho cambiato, lo sai).

Matrix secondo Scola


Cosa separa il desiderio dall’illusione? «Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore» (frase di don Luigi Giussani sulla quale i ciellini si sono autoconvocati quest’anno): intimissimo di Giussani e di Cl, dunque affidabilissimo, il cardinale Angelo Scola ci spiega che il «desiderare cose grandi» dev’essere inteso come il «tendere di tutto il mio io all’incontro, inevitabile ed insuperabile, con il mondo reale». In Giussani, «cuore» e «natura» sono chiamati a dare il meglio della loro ambiguità e la loro vaghezza millanta autoevidenza (anche in modo fastidioso, devo dire); in Scola, il «cuore» è «l’io che anela all’infinito nell’incontro con la realtà totale» e per «natura» deve intendersi l’elemento creaturale. Ecco perché chiedevo: cosa separa il desiderio dall’illusione? In altri termini: dove sta l’autoevidenza del quid che trascende «cuore» e «natura» (Dio)? Dov’è dimostrata la trascendenza? Se questo anelito mira a vuoto, Dio è un’«illusione» (Richard Dawkins). E dunque, ancora: cosa separa il desiderio dall’illusione? Direi: il senso del limite.

Mi scuso per la lunga citazione, ma penso valga la pena.
«Molti di voi avranno visto Matrix, il celebre film dei due fratelli polacchi Wachowski. […] In Matrix – dice Scola – viene descritto il nostro mondo di tutti i giorni, ma si fa l’ipotesi che sia solo un paravento per nascondere la realtà vera. Quale sarebbe? L’umanità sopravvissuta dopo un disastroso evento cosmico, per continuare ad esistere ha avuto bisogno di speciali macchine. E queste hanno finito per prendere il sopravvento. E chi le controlla ha preso il potere. L’umanità quindi vive nell’illusione. Gli uomini non sono più liberi. Nessuno è a conoscenza del tempo che è passato da quando il potente neurosimulatore Matrix ha assegnato una data fittizia allo scorrere della storia. Solo Neo, con l’aiuto del pirata informatico Morfeo e della bella Trinity, può tentare di scoprire la verità e far ritrovare agli uomini la libertà. In cosa consiste la verità? Lo dice con chiarezza Morfeo accogliendo Neo sulla sua bislacca nave in lotta per la libertà: “Benvenuto nel mondo reale”. Riflettiamo un istante su questa affermazione in cui sono presenti due elementi fondamentali. Il primo è identificato dall’espressione mondo reale, cioè le cose come veramente sono. Quelle che i miei sensi percepiscono – questo bicchiere, il microfono, il cielo, il mare – e quelle di cui mi offrono qualche indizio perché la mia intelligenza possa riconoscerli: lo sguardo di chi ho di fronte, il sorriso dei figli, il volto dell’amata, il gusto del lavoro, la sofferenza per il male fisico, il dolore per quello morale, la paura della morte, l’angoscia annoiata del vivere senza senso… Il mondo reale appunto! Ma l’affermazione di Morfeo contiene anche un altro decisivo fattore, concentrato nella parola composta: “Benvenuto”. È bene che tu Neo sia entrato nel mondo reale: è bene per te, ed è bene per noi! Non è forse questo il senso dei primi sorrisi di una madre al suo bambino? Sorrisi che questi impara subito a ricambiare. Cosa significano se non “è bello che tu sia venuto al mondo (reale), è bene per te, è bene per tutti”? Nessuno sfugge a questa esperienza.
Al mondo reale io mi rapporto sempre e inevitabilmente secondo quella dinamica, tipicamente umana, che possiamo identificare col termine desiderio. Non si comprende la parola desiderio, tanto meno se si parla di desiderio di Dio, se non la si concepisce come il tendere di tutto il mio io all’incontro, inevitabile ed insuperabile, con il mondo reale. Infatti, secondo la definizione semplice ma completa del vocabolario, desiderio è il “volgersi con affetto a qualcosa che non si possiede e che piace”. Vedete che, come in una calamita, sono sempre presenti due poli. La dinamica del desiderio implica sempre e inseparabilmente la cosa che non si possiede e che piace e il volgersi ad essa con affetto. Sottolineo “con affetto”, vale a dire con la mente, col cuore, con la totalità del nostro io. E Dio che c’entra? Ve lo dico con una citazione formidabile, tra le più potenti di tutta la storia del pensiero, che si trova in un grande libro, ancora oggi, dopo 1600 anni, il più ristampato (se si toglie la Bibbia). «Tu ci hai creati per te ed il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”» [Agostino di Ippona, Confessioni I, 1]. Agostino usa la parola cuore per esprimere il desiderio nella sua ampiezza totale costituita dai due poli prima identificati: l’io che anela all’infinito nell’incontro con la realtà totale. […] Potremmo dire che la natura piena del desiderio è rivelata in ognuno di noi dal cuore. Il cuore quindi è ciò che ci permette di volgerci con affetto a ciò che non si possiede. Soprattutto alle cose grandi! E cosa c’è di più grande di Dio?».

Dio sarebbe dimostrato dall’incapacità di tollerare i limiti del reale. Qui, poi, si ha l’ardire di usare l’allegoria che è in Matrix per dirci che l’immanente sarebbe illusorio e il trascendente sarebbe reale. L’anelito renderebbe reale la possibilità di ciò che si anela in forza del suo trascendere il reale. Anelito prossimo alla sfacciataggine: il reale deve piegarsi al desiderio, sennò Scola lo degrada a irreale.