venerdì 22 ottobre 2010

“Preti che fanno il doppio gioco”


Ku prawdzie i wolnosci (Cracovia, 2010) è una raccolta di documenti della Sluzba Bezpieczenstwa, la polizia politica della Polonia comunista, tutti relativi a Karol Wojtyla, scrupolosamente attenzionato per oltre trent’anni, dal 1946 fino alla vigilia della sua elezione al Soglio Pontificio nel 1978, dai tanti informatori sui quali il regime ha sempre potuto contare nel clero polacco: il libro è di qualche mese fa, chissà se arriverà mai in Italia, ma l’ultimo numero de La nuova Europa pubblica la traduzione di altri stralci e Luigi Geninazzi stende un commento che descrive il contesto con faticosi eufemismi (Avvenire, 22.10.2010).

In pratica, il futuro Giovanni Paolo II fu spiato a lungo e a fondo da decine di preti e laici cattolici, a lui talvolta anche assai intimi, che il regime teneva a paga o teneva per le palle a causa dei loro vizietti, per lo più sessuali. Wojtyla sapeva di essere controllato molto da vicino e riuscì sempre a mantenere un profilo basso e perfino ambiguo, mentre invece andava creando attorno a sé una rete sociale sempre più estesa e forte, che avrebbe fatto da incubatrice a Solidarnosc.
Tutto molto affascinante, senza dubbio, guardando a un Wojtyla o a un Popieluszko; guardando la chiesa polacca, un po’ meno. Fu la pubblicazione di documenti degli archivi dei servizi segreti del regime comunista che provavano la sua attività di informatore a costringere alle dimissioni Stanislaw Wielgus, arcivescovo di Varsavia solo per poche ore. Il suo caso era solo la punta dell’iceberg, che emerse nel gennaio 2007, portandoci a conoscenza dell’agente Seneka, dell’agente Zagielowski, dell’agente Ares, dell’agente Erski: tutti preti e non dell’ultima parrocchia di periferia.

Bene, pare che il Geninazzi soffra nel ricordare a stesso che un Wojtyla o un Popieluszko erano l’eccezione, e che fra i membri del clero era assai alto il numero di quanti avevano trovato un concordato privato col regime comunista. E scrive che, “a leggerle oggi”, le attività dei “preti che fanno il doppio gioco” sembrano “buffe e ridicole”, ma “dicono fino a che punto [gli uomini del regime] erano decisi a spingersi nel controllo totale delle persone”. Come a dire: il comunismo era feroce e determinato, ma si serviva di traditori fessi.
Salvare capra e cavoli: Wojtyla e la chiesa polacca. E come si dimostra che la vera chiesa polacca non era anche quella che prendeva paga dal regime? “Alla fine gli spioni non sono serviti a nulla, Wojtyla diventerà papa e per il comunismo sarà l’inizio della fine”. Vince chi vince, e si piglia la ragione. Sennò per sopravvivere si adegua, e vince lo stesso. La pelle del leone rivoltata fa un buon caldo.

Piovene


L’industria dei premi letterari e giornalistici è una delle poche rimaste floride in Italia e non c’è pro loco che manchi di un vate al quale intitolare il suo: Vicenza ha Guido Piovene, giornalista e scrittore antisemita che non scrisse mai un rigo contro il fascismo e che non si è mai saputo come abbia salvato il culo dopo la guerra.
Prima di leggere che quest’anno è andato anche ad Annalena Benini, neanche sapevo che esistesse un Premio Piovene, ma ora lo so, e so che quest’anno premia Annalena Benini per “originalità, acutezza ed internazionalismo” e che a consegnarle il premio è Bruno Vespa, segretario generale della giuria, nella quale spicca il nome di Carlo Rossella.
La Benini è originale, acuta e soprattutto internazionale, così concorda la giuria. E pensare che per capire in quale mare di merda siamo immersi c’è chi ha bisogno di ponderosi studi sociologici e complicatissime tabelle.

La “retroattività del lodo Alfano”


Sono necessarie alcune considerazioni su quella “retroattività del lodo Alfano” – in questi giorni è espressione comune sul cartaceo, in tv e on line – che intenderebbe denunciare come un assurdo la proposta di legge costituzionale che il governo intende portare in Parlamento. Si tratta di sospendere il processo penale quando è nei confronti delle alte cariche dello Stato e per “retroattività” qui si intenderebbe l’estendere della sospensione anche a quei processi per reati commessi in epoca antecedente all’assunzione dell’alta carica (*). Bene, non si discute che la legge faccia schifo – fa schifo – ma “retroattività” è termine qui usato in modo improprio e strumentale. Astrattamente, infatti, la retroattività di una legge non è un assurdo, né è espressione in sé di un principio ingiusto (**).
Ma è propriamente “retroattività” quella del “lodo Alfano”? No, perché qui non è in questione la depenalizzazione di un reato, ma la sospensione dei processi per quel reato. Anzi, è in questione la sospensione dei processi per tutti i reati (fatta eccezione per quelli particolarmente gravi e abietti) dei quali possa essere accusato chi ricopra un’alta carica dello Stato. E dunque l’effetto non è attivo sul tempo ma sulla persona.
In più è dichiarato come precipuo fine della norma, che stavolta non chiede legittimità alla Costituzione, ma intende riformarla, introducendo un criterio di privilegio particolare. Ne godrebbe la persona che ricopra un’alta carica dello Stato in quanto alta carica dello Stato, e in pratica può tradursi in impunità per la sua reiterabilità, ma questa non è “retroattività”: usando impropriamente il termine si cerca il pleonasmo (***), come se il privilegio non facesse già schifo di suo.



(*) In realtà, non avrebbe senso chiamarlo “lodo” perché, come è stato fatto notare da più d’uno, non c’è stato compromesso né transazione tra maggioranza e opposizione, né a esprimerlo è stata una autorità arbitrale previo accordo tra le parti. Non ha senso neppure chiamarlo “lodo Alfano”: il Guardasigilli in carica si limita a riproporre per altra via una legge varata nel 2003 su proposta di Maccanico e dichiarata incostituzionale nel 2004, poi varata ancora nel 2008 su proposta dello stesso Alfano, con modifiche apportate da Schifani al “lodo Maccanico”, e ancora dichiarata incostituzionale nel 2009. Appena più corretto “lodo Alfano-bis”, ma non di molto.
(**) Quando depenalizza un reato, per esempio, la legge ha sempre effetto retroattivo, nel senso che solitamente fa cadere le ragioni perché continui ad avere effetto la pena comminata per quel reato, anche se commesso prima dell’entrata in vigore della legge: e non sarebbe ingiusto il contrario? “Nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali”: è da diciotto secoli che si ritiene ingiusto che una legge dichiari reato ciò che prima non lo era e congiuntamente stabilisca di comminare una pena a quanti l’abbiamo commesso prima che fosse tale; ma anche il contrario: non sarebbe ingiusto – e assurdo – che la pena comminata per un reato si protraesse oltre la sua depenalizzazione?
(***) Si cerca il pleonasmo quando ci si sente inadeguati a esprimere un sentimento (in questo caso, è indignazione). Si tratta di una ingenuità lessicale che rivela inadeguatezza. 

martedì 19 ottobre 2010

Non rovinare la magia


Come tutte le nevrosi ossessive, anche quella a sfondo religioso si esprime attraverso rituali: qui, la struttura compulsiva è riccamente strutturata e vien detta liturgia. Solo la massima fedeltà a un certo tipo di procedure rituali assicura una congrua difesa al nevrotico ossessivo, e solo un attentissimo rispetto della tradizione liturgica assicura al cattolico un po’ di sollievo. Qui siamo a ciò che il cattolico racchiude nella formula “lex orandi est lex credendi”: anche qui, come in tutte le altre nevrosi ossessive, la conversione ha una funzione altamente simbolizzatrice e il corpo (postura, gesto, abito, ecc.) ne incarna i significanti. L’importanza di un certo colore di arredo e di paramento secondo l’occasione, di un certo tipo di formule e di musica, questa logistica e questa dinamica sacramentale invece che quelle – l’importanza dell’altezza da terra dell’orlo del piviale – sono tanto più cazzate quanto meno si è cattolici. Più la nevrosi ossessiva è grave, più il rituale è rigido. Più è rigido, più è magico. La perfetta fedeltà liturgica è il perfetto credo in una certa intercessione: lo scrupoloso rispetto delle procedure rituali realizza la magia.
Al contrario, se maltratti la liturgia, rovini la magia e allora non trovi pace neanche dopo morto, quasi vengono a pisciarti sulla tomba.


Pot-pourri


Quasi dimenticato, pochissimo citato, Arrigo Cajumi è uno dei cervelli che più amo. Se riuscite a procurarvi il suo Pensieri di un libertino – io ne ho un’edizione della Einaudi del 1950, non so se abbia mai avuto ristampe, non mi meraviglierei se no – leggetelo, e poi mi fate sapere. Ancor più che in quello, però, Arrigo Cajumi è delizioso nei suoi articoli su Il Mondo, massimamente nella sua rubrica Pot-pourri, che somigliava alla homepage di un blog: una mezza dozzina di post assortiti su temi vari (filosofia, politica, costume, lettere), metà diario e metà pensatoio. Inciso: quando penso al fatto che Malaparte era una star e Cajumi era un quasi nessuno destinato a rimanerlo, mi spiego perché questo Paese dovesse finire com’è finito. Ecco, ieri sera leggevo i suoi Pot-pourri e m’è sembrata che l’Italia non meritasse altro che Malaparte. 

Sta’ tranquilla, mamma



[Prima di tutto vorrei tranquillizzare mia madre: sta’ tranquilla, mamma, non ho ripreso a scrivere letterine a Il Foglio, questa chissà come mi è scappata di mano e comunque – giuro – non ricasco nel vizio.]

È che Giuliano Ferrara m’era sembrato sbarellare più del solito nel suo editoriale di lunedì 18 ottobre e in un post (“Vendere allegramente” – Malvino, 18.10.2010 [04:54]) ho spiegato perché. Ho scritto che per colmare un debito pubblico di 1.800 miliardi allo Stato non basterebbe alienare “qualche caserma dismessa”, ciò che per Giuliano Ferrara parrebbe fare un “patrimonio immobiliare pubblico pari al 130 per cento di debito” (2.400 miliardi) e ho scritto che anche chi proponeva di “vendere, vendere, vendere”, però con qualche competenza in più di Giuliano Ferrara (Fondazione Magna Carta e Istituto Bruno Leoni), non nascondeva la necessità di vendere anche il Colosseo per colmare un tal debito (semmai, però, non iniziando proprio da quello).
Poche ore dopo aver scritto questo post, il topos letterario della messa in vendita del Colosseo tornava nel commento che Massimo Bordin faceva all’editoriale su Il Foglio in edicola (Stampa & Regime – Radio Radicale, 18.10.2010 [08:12:00-08:12:48]), per riportare la questione nei termini che Giuliano Ferrara aveva eluso, e m’è sembrato di far opera di bene nel richiamarglieli.
La sua risposta (qui sopra) è delle solite di quando non ha argomenti: ammette di essere incompetente in materia ma di essere assai convinto di ciò che dice, anche perché, ad uopo interpellati, esperti di fiducia lo avallerebbero (Idee e numeri per “vendere, vendere, vendere” un po’ di Stato – Il Foglio, 19.10.2010 [pag. 3]).

[Capito perché mia madre si rattrista nel sapere che mi intrattengo in questi passatempi assurdi?]

E dunque: gli esperti avallerebbero l’ideona di Giuliano Gerrara. Il condizionale è d’obbligo, perché sul punto – vendere o no il Colosseo? – gli esperti non si sbilanciano: “Il patrimonio pubblico, secondo i calcoli di Ricolfi, è dello stesso ordine di grandezza del debito (1.800 miliardi)”, che dunque non è – com’era scritto su Il Foglio di ieri – “largamente inferiore al valore”. Ma facciamo finta che questa sia una bazzecola, e andiamo avanti: “Venderne una parte non basterebbe a portarci al 60 per cento del pil, come vorrebbe il nuovo Patto europeo di stabilità in fieri, ma «scendere sotto il 100 per cento sarebbe già un grande risultato»”. Venderne una parte – è chiaro – servirebbe a colmare solo un terzo del debito pubblico, ma nel suo editoriale Giuliano Ferrara contava di ricavarci pure un extra “per finanziare cultura, sapere, ricerca, crescita”. Non basterebbe Tremonti, ci vorrebbe Gesù in vena di miracoli.
Questo primo esperto, dunque, non avalla un tubo: implicitamente afferma che per arrivare a 1.800 miliardi bisognerebbe vendere tutto il patrimonio immobiliare pubblico, non demaniale e demaniale. Ergo – adhuc – etiam Coliseum.
“La proposta di Ricolfi, che parla di quote collocabili sul mercato, ricalca per diversi aspetti l’idea lanciata nel 2005 dall’ex ministro Giuseppe Guarino, che propose una superholding in cui far confluire beni statali e società pubbliche da quotare in Borsa, incassando almeno 450 miliardi”. Idem con patate. Come si arriva a 1.800? Cosa ci vendiamo? Se non il Colosseo, gli Uffizi?
Per Edoardo Reviglio, un altro esperto interpellato da Il Foglio, “vendere, vendere, vendere” comporta un sacco di problemi: “«A differenza di altri più ottimisti di me – dice Reviglio – dopo aver studiato e osservato il patrimonio nelle sue varie sfaccettature per una decina d’anni, sono arrivato alla conclusione che il riordino del patrimonio sia una grande opportunità per il territorio, e più in generale per lo sviluppo del paese. Tuttavia, considerata la natura complessa, dispersa e granulosa, e le rigidità giuridiche e amministrative, la sua dismissione non può rappresentare la soluzione alla riduzione del debito pubblico in tempi brevi». Secondo Reviglio, «può dare un contributo (pari allo 0,2-0,4 di pil all’anno per i prossimi due/tre decenni), può contribuire a finanziare investimenti secondo il ‘principio di sostituzione’, ovvero dismetto un asset che non serve e con i proventi ne costruisco uno che serve». Va ricordato, inoltre, che il patrimonio non è fatto solo di immobili ma anche di partecipazioni locali, di crediti, di concessioni e di reti e infrastrutture: «Alcune di queste possono e devono dare maggiori redditi (sul fronte dei flussi) altre possono invece essere privatizzate». [Conclude Reviglio:] «Nessun miracolo ma piuttosto un’azione graduale di riordino. L’avvio di un grande processo che durerà decenni»”. E questo sarebbe un avallo?
Non va meglio con altri due esperti interpellati, Emilio Barucci e Federico Pierobon, che addirittura “stimano il valore nominale degli attivi immobiliari [non demaniali] dello Stato in 194 miliardi di euro”, ma “«il dato – aggiungono – non comprende molti immobili per i quali non è disponibile un inventario completo (parte del demanio militare e quelli ubicati all’estero) o è difficile effettuare una valutazione (musei e monumenti)»”. E siamo ancora agli Uffizi e al Colosseo. E io su cosa chiedevo franchezza?
Finiti, gli esperti? No, ce n’è un altro, Gianfranco Polillo, che però è il più scettico di tutti: “«Ad oggi – dice – lo Stato – dice – non sa esattamente di che cosa è proprietario»”. E che ti vendi, se non lo sai?

[Ora, forse, mi spetterebbe una replica, ma mamma si preoccuperebbe. Stavolta mi faccio bastare questo post. “Non mi fido”? Siamo pari: neanche mamma.]



lunedì 18 ottobre 2010

L’uovo di Uolter


D’Alema non è mi particolarmente simpatico, ma lo diventa ogni volta che penso a Veltroni: avrà tutti i difetti possibili, Baffino, ma il fatto che per anni, decenni, ormai quasi mezzo secolo, si sia impegnato a combattere Uolter, i uolteriani e il uolterismo, prima nel Pci-Pds-Ds e adesso nel Pd, ai miei occhi mette in ombra tutti i suoi difetti d’uomo e di politico, muovendo in me – per alcune frazioni d’attimo e non troppo spesso per fortuna – un che di dalemiano dal fondo dell’umana cazzimma. Peggio di Veltroni, nel Pd, chi?
L’ultima? A Busto Arsizio, il 9 ottobre, a un’assemblea del Pd. Qui Veltroni ha fatto una proposta in tema di immigrazione, porgendo al suo partito l’idea di “una politica migratoria selettiva: l’ammissibilità legata a una valutazione delle caratteristiche degli immigrati”. Cioè? “Età, sesso, stato civile, istruzione, specializzazione, conoscenza della lingua, della cultura, dell’ordinamento del paese si combinano in un punteggio o valutazione della ammissibilità dei candidati all’immigrazione”: insomma, discriminare alla frontiera. Tempo fa la Cei ne pensò una uguale: favorire l’immigrazione dai paesi di cultura cattolica o almeno cristiana. I buoni – e Uolter è buono per definizione – hanno talvolta di queste strane declinazioni della bontà che somigliano a vere e proprie schifezze, ma tant’è...
E dunque. L’immigrato troppo anziano, maschio, analfabeta e pastore di tre capre? Lo rimandiamo a casa: pochi punti. La giovane poliglotta nigeriana nubile e con un culo da sballo? Il punteggio la premia: ammissibile (eventualmente facciamo emigrare la Madia). Abbiamo bisogno di mani delicate che sappiano innaffiare a dovere i gerani sulle terrazze romane? Ammessi i filippini, che fanno punteggio alto perché coi gerani quasi ci parlano. Abbiamo bisogno di manovali nerboruti e ci troviamo in surplus di idraulici? Facciamo entrare i marocchini e rimandiamo a casa i polacchi. È l’uovo di Colombo, l’uovo di Uolter: si tratta di applicare ai candidati l’inverso dell’art. 3 della Costituzione: “Non tutti gli immigrati hanno pari dignità sociale, né sono eguali davanti alla legge: fanno punteggio l’età, il sesso, ecc.”.
Sento un retrogusto di Santanchè in questa proposta o mi inganno? È di sinistra? È kennediana? Come definire questa proposta? Veltroni la dice “pragmatica”. E qui il post chiude, sennò devo chiudere il blog.


Giornalettismo.com








“Vendere allegramente”




L’idea di privatizzare il patrimonio immobiliare pubblico non è nuova, ogni volta che si parla di debito pubblico (ormai quasi a 1.800 miliardi di euro) c’è qualcuno che la ripropone: oggi tocca a Giuliano Ferrara (Vendere, vendere, vendere: un’idea di Tremonti per TremontiIl Foglio, 18.10.2010), vogliamo darci un’occhiatina?
Cominciamo col dire che per la sua parte non demaniale (circa il 20% è di proprietà delle amministrazioni centrali, mentre poco più dell’80% lo è degli enti locali) questo patrimonio ammonta a non più di 400-450 miliardi di euro: ne consegue che bisognerebbe metter mano anche a quella demaniale, riqualificandola come cedibile, ma andando coi piedi di piombo perché “forse sarebbe azzardato cominciare vendendo il Colosseo”, e a consigliare cautela sono i liberisti della Fondazione Magna Carta e dell’Istituto Bruno Leoni in seminario congiunto (Roma, 18.6.2008). Adelante, sì, ma con juicio: andrebbero alienati prima gli uffici pubblici, poi le università, poi i musei, il Colosseo per ultimo.
Per Ferrara è tutto più semplice: “Qualche caserma dismessa in meno”. Neanche tutte: ce ne vendiamo alcune, semmai quelle più scassate, e ricaviamo 1.800 miliardi di euro. “Che il patrimonio immobiliare sia pari al 130 per cento del debito è un numero”, scrive, e non ha torto, ma solo se in quel numero ci sta pure il Colosseo o, se non quello, gli Uffizi o il Ponte dei Sospiri o il Maschio Angioino o i Sassi di Matera: li privatizziamo? Ma sì, Tremonti dovrebbe farlo – dice Ferrara – “per finanziare cultura, sapere, ricerca, crescita”. Ma i soldi non servivano per colmare il debito? Colmano il debito e insieme finanziano tutto questo ben di Dio? E poi, colmato il debito col patrimonio immobiliare pubblico, quante volte sarà possibile rivenderlo? Venduti gli uffici pubblici ai privati, non bisognerà prenderli in affitto? La spesa non farà altro debito? Appaltiamo ai privati il minimo indispensabile di burocrazia statale? 
L’editoriale dev’essere stato scritto con una glicemia fuori controllo, conviene lasciar perdere Ferrara, che ultimamente non è neanche più divertente, e tornare all’Operazione Colosseo di Mingardi & Rebecchini: “È chiaro che si tratta di un’operazione delicata […] ma è una sfida che, nelle condizioni in cui siamo, non è possibile non tentare”. Non c’è altra soluzione, qui. Con gli zuccheri a mille, invece: “Vendere, vendere, vendere, ma vendere allegramente, orgogliosamente”.


domenica 17 ottobre 2010

La bufala della santa che fu “pioniera della lotta ai preti pedofili”



Suor Mary MacKillop, oggi santa, fu “pioniera della lotta agli abusi sui bambini” (Corriere della Sera) o “pioniera della lotta ai preti pedofili” (la Repubblica)? No, questo è quanto si vorrebbe far credere e non è difficile immaginare chi e perché. “Fu scomunicata per aver denunciato un prete pedofilo” (La Stampa)? Nemmeno, fu scomunicata per non aver obbedito al suo vescovo su tutt’altra questione (la gestione economica degli istituti scolastici gestiti dall’ordine al quale apparteneva). “Denunciò un prete pedofilo” (il Giornale)? Questo può darsi, ma in ogni caso la denuncia fu fatta solo presso le autorità ecclesiastiche, secondo l’uso che era in vigore fino all’altrieri, prima che alla fogna saltassero i tombini negli Stati Uniti, in Irlanda, in Germania, ecc.
Il prete che avrebbe commesso abuso sui bambini, in questo caso, si chiamava Patrick Keating e fino al settembre di quest’anno non si aveva notizia che suor Mac Killop l’avesse denunciato ai suoi superiori perché pedofilo, anzi, neppure si sapeva della denuncia: è cosa messa in giro da una tv australiana, non più di tre settimane fa. C’è da dire, inoltre, che la scomunica della suora avvenne ben quattro anni dopo che padre Keating fu rimosso dalla sua parrocchia, per essere mandato in Irlanda, dove peraltro continuò ad occuparsi di bambini, non ci è noto se compiendo altri abusi.
Ancora a luglio di quest’anno, intervistata da Zenit, la postulatrice della causa di canonizzazione, suor Mary Casey, non faceva alcun cenno alla faccenda: “I motivi della scomunica sono complessi. Il padre fondatore, Julian Tenison Woods, aveva lavorato come direttore per l’Istruzione Cattolica ad Adelaide e non era molto popolare tra i suoi fedeli. Istituendo nuove scuole, aumentarono i debiti. Alcune sorelle non erano poi educate come avrebbero dovuto essere, ma Mary insisteva sul fatto che non potevano esserci divisioni. Il problema finale fu che uno dei consiglieri del Vescovo disse a Mary che il presule voleva che tornasse immediatamente nella zona rurale. Mary rispose che aveva bisogno di vederlo prima di tornare lì. La sua risposta fu comunicata al Vescovo come un rifiuto alla sua richiesta. I suoi consiglieri gli raccomandarono di scomunicarla, e così fece”.
E allora come nasce questa bufala della santa “pioniera della lotta ai preti pedofili”? Con un documentario andato in onda su ABC Compass il 25 settembre scorso, dopo che era stato dato l’annuncio della prossima canonizzazione, e ritrasmesso il 10 ottobre: padre Paul Gardiner azzardava solo ipotesi al riguardo, ma il tutto tornava a fagiolo per bilanciare lo scandalo che si era sollevato negli ultimi mesi per la scoperta di innumerevoli abusi sessuali commessi da preti cattolici in diverse parrocchie australiane. E infatti le sue affermazioni venivano opportunamente cucinate da The Sydney Morning Herald, con una mezza pezza d’appoggio dell’arcivescovo di Adelaide, monsignor Philip Wilson, e di lì rilanciate a chiunque le volesse utilizzare per dare alla santa un lustro in più.

Ci sarà un solo vaticanista italiano che si premurerà di andare a controllare e precisarci la faccenda?  

[più estesamente, domani, su Giornalettismo.com]

Update
Per questione personale, in breve: ClaudioLXXXI prende atto del fatto che sono riuscito a risalire alla primigenia fonte della bufala di una Mary MacKillop “pioniera della lotta ai preti pedofili” (dimentica di darmi il merito di essere stato il primo, ma fa niente), ma mi accusa – scrive – di aver “invertito i ruoli, facendo sembrare come se la bugia l’avessero montata quei soliti cattivoni di cattolici”. Come l’avrei ingannato il mio lettore? Nel commentare che la bufala tornasse credibile a chiunque volesse “dare alla santa un lustro in più”: ci legge un’insinuazione polemica nei confronti dei cattolici e della Chiesa. In realtà, come ho peraltro scritto nell’articolo su Giornalettismo.com (al quale qui sopra rimandavo): “Non è credibile, non è plausibile che in mezzo a tanti preti pedofili ci sia una suorina coraggiosa che ne denuncia uno, e allora la scomunicano, ma poi, tornando utile, la canonizzano? Per i cattolici è il segno di una superiore provvidenza che fa la Chiesa santa nonostante tutto, per i non cattolici è il segno della superiore ipocrisia del clero cattolico che riesce a confezionare perfetti marchingegni retorici: la bufala entra nelle coscienze di tutti con grande facilità, cattolici e non cattolici. È così facile crederci, tutti ci credono, perché il povero lettore dovrebbe rendersi la vita difficile col dubbio?”. Come è evidente, ne facevo una questione un po’ più complessa della bassa polemica anticattolica: dalla fonte primigenia della bufala tentavo di risalire alla fronte primigenia della sua credibilità. Ma – gliel’ho detto pure – ClaudioLXXXI non mi legge con attenzione.


“Anche su questo ho cambiato idea”


Il 2 novembre i californiani saranno chiamati a votare sulla Proposition 19 che legalizzerebbe l’uso della marijuana a scopo ricreativo, il suo possesso fino a 28 grammi, la sua coltivazione fino ai 2,5 metri quadrati di terrario, e che pare avere buone possibilità di passare. Viene da pensare ai due ragazzi che quest’anno si sono suicidati in carcere dove erano finiti per la Fini-Giovanardi, io me li sono immaginati penzolare con California Dreamin’ di sottofondo. Viene da pensare a Fini e a Giovanardi.

Cominciamo col Giovanardi, ci mettiamo poco. Il Giovanardi continua la sua crociata contro la Droga. Dopo aver marcato stretto Belen per impedirle di andare a Sanremo, ora propone il test antidroga obbligatorio pure ai conduttori di ogni altra trasmissione del servizio pubblico televisivo (tg, approfondimenti, talk show, ecc.). Non è la sintesi giornalistica, tanto meno il commento satirico, a far dire che qui si mira all’obbligo per Santoro di fare la pipì in apposita provetta a fine trasmissione: è lo stesso Giovanardi a esprimersi in questi termini, probabilmente con un sorriso alla Fernandel.
Paese che vai, antropologia che trovi: se passa la Proposition 19, passa pure la proposta di Giovanardi. Come gli è venuta? “Lunedì scorso il Santo Padre ha definito la droga «una bestia vorace che mette le mani sulla terra e la distrugge»…”.

Con Fini la questione è più delicata. Una destra liberaldemocratica può equiparare marijuana ed eroina? Può equiparare consumo e spaccio? Anche se liberaldemocratica, rimane affezionata allo Stato etico? Rimane ideologica e si chiude alle politiche della riduzione del danno? Sono domande che possono spaccare la cosa finiana arrivando al suo cuore: quanto è liberale? A quando una dichiarazione pubblica di Fini del tipo “anche su questo ho cambiato idea”?

sabato 16 ottobre 2010

C'è trippa per gatti


Uccisa dallo zio, sì, ma pure dalla cugina. La trama comincia a farsi arrapante.

Code del Novecento



La vita delle comunità cristiane in Medio Oriente non è delle più facili, anzi, leviamo l’eufemismo: c’è il rischio che i cristiani scompaiano dai luoghi nei quali è nato il cristianesimo. Anche se è sunnita – è consigliere politico del Gran Mufti del Libano – a Muhammad al-Sammak la cosa dispiace tanto.
Non è la prima volta che esprime la sua apprensione al riguardo: qualche mese fa, per esempio, affermava che “la diminuzione del numero e del ruolo dei cristiani in quella regione è un disastro non solo per i cristiani ma anche per i musulmani e porta alla disintegrazione di quella società e alla mancanza della ricchezza della diversità e delle competenze di carattere scientifico, economico, intellettuale e culturale dei cristiani che emigrano”; e aggiungeva che “l’emigrazione non è una perdita solamente per i cristiani quanto piuttosto una perdita per i musulmani e allo stesso tempo una sconfitta della convivenza islamo-cristiana” (zenit.org, 26.2.2010). Comprensibile, dunque, che la Chiesa lo senta amico, anzi, leviamo l’eufemismo: è normale che lo coccoli.
Est modus in rebus, ovviamente, ma in rebus del genere – parliamo del Santo Patrimonio della Santa Sede in Terra Santa – il modus non è sempre controllabile. Capita, così, che L’Osservatore Romano tolga una frase imbarazzante (quella che qui è sottolineata) dal suo intervento al Sinodo dei Vescovi sul Medio Oriente: “I cristiani d’Oriente sono parte integrante della formazione culturale, letteraria e scientifica della civiltà islamica. Sono anche i pionieri della rinascita araba moderna e hanno salvaguardato la loro lingua, quella del Sacro Corano. Come sono stati in prima linea nella liberazione e nella ripresa della sovranità, oggi sono in prima linea anche nell’affrontare e nel resistere all’occupazione, nel difendere il diritto nazionale violato, a Gerusalemme in particolare e nella Palestina occupata in generale. Ogni tentativo di affrontare la loro causa senza considerare questi dati autentici e radicati nella coscienza delle nostre società nazionali, porta a conclusioni errate, fonda giudizi errati e conduce quindi a soluzioni errate”.
I cristiani come alleati storici dei musulmani nella resistenza all’occupazione, ieri, dei francesi e degli inglesi, oggi, degli ebrei: è frase che condensa splendidamente la strategia politica della Santa Sede in Medio Oriente per tutto il Novecento, almeno a leggerla con gli occhi di un arabo che creda nelle buone intenzioni di Lawrence d’Arabia. Gianni Maria Vian ha cercato di evitare l’ennesimo scazzo diplomatico con Israele, ma non solo: ha pure messo i mutandoni all’ingenuo beduino che fida nella Riscossa Araba come a chiodo-scaccia-chiodo.

Sulla preterintenzionalità


“Hanno cominciato dentro il bar… Lei inveiva contro di lui, lui le diceva: «Ma che vuoi? Chi ti conosce?»… Lei lo ha preso ripetutamente a schiaffi… A un certo punto, lui è uscito e lei ha continuato a prenderlo a schiaffi e a calci…”. La testimonianza sembra congrua con quanto ha fatto seguito e che la videocamera della stazione Anagnina ha registrato: si è trattato del tragico epilogo di un alterco per futili motivi che la Hahaianu ha insistentemente prolungato inseguendo chi cercava di sottrarsi come possibile alle sue aggressive escandescenze e che, infine, ha reagito. La manata con la quale il Burtone cerca di allontanare da sé la donna, che ha ripreso a inveire e a spintonare, le arriva al volto e dal modo in cui la Hahaianu cade sembra evidente essersi stata la repentina perdita dei sensi da rotazione del tronco encefalico che manda al tappeto il boxeur colpito da un uppercut al mento.
Nulla di intenzionale: le lesioni che hanno portato a morte la donna sono state dovute al trauma cranico riportato nella caduta. Sulla preterintenzionalità, invece, c’è molto da discutere: da giudice – e meno male che non è il mio mestiere – io propenderei per qualcosa tra eccesso colposo di legittima difesa e omicidio colposo. Più in generale, inclinerei a condoglianze generiche e a ribadire il principio che chi alza per primo le mani si mette dalla parte del torto.

  

giovedì 14 ottobre 2010

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Che editorialista, che poeta!


Noi laicisti siamo gente seria, mica ci mettiamo a mungere farfalle per quel crocifisso tatuato sul braccio di Ivan Bogdanovic. E nemmeno ci verrebbe mai in mente di imbastire una polemica sui Pater e gli Ave che Michele Misseri ha recitato per Sarah Scazzi dopo averla strangolata, eppure ci sarebbe da discutere: le preghiere sono state recitate prima o dopo aver scopato col cadavere? Ma – dicevo – siamo gente seria e solitamente glissiamo sul dettaglio da buon cristiano che impreziosisce questa o quella merda d’uomo. Il mafioso è devotissimo? Ci pare brutto approfittarne per malevoli generalizzazioni: trattiamo il credente e il criminale separatamente, al massimo ci scappa qualche innocente cenno alle analogie culturali tra le due Cupole. Siamo così, noi laicisti: non ci piace approfittare, evitiamo la reductio ad hitlerum, ci sembra poco carino far di tutta l’erba un fascio. Poi, naturalmente, può scappare l’eccezione, ma sempre quando provocati. E cos’è più provocatorio di una excusatio non petita?
Scrive il poeta Davide Rondoni, editorialista di Avvenire: “Ecco la preghiera delle nostre nonne e dei nostri figli divenire materia, elemento di cronaca nera. Divenire anche questo. Eppure, se così si può dire, proprio quelle parole, quell’inizio di preghiera, pronunciata certo da una mente ottenebrata e persa [lo zio della Scazzi], finiva per l’essere in mezzo ai titoli tutti gridanti e anche astutamente montati, una specie di pallida luce, di bava di lume come d’alba nella fittissima nebbia di quel delitto. L’aver pronunciato quelle parole - per chissà quale sperduto riflesso della mente o forse barlume di coscienza per quanto poi di nuovo sepolto e vanificato - è stato forse un confuso, ma non per questo meno necessario, primo gesto di preghiera su quel luogo e su quel corpo che poi ha meritato e chiamato la folla, lo sciame e il sacrosanto rituale di preghiere dei dolenti e dei giusti. Ma è come se da subito, come per una urgenza di fronte alla orrida realtà dell’evento, e di fronte al povero corpo di Sara derubato di vita e violato di tutto ma non della dignità, ecco, è come se da subito fosse dovuta scendere, medicamento e supplica, la preghiera semplice, la richiesta di abbraccio alla Madre dolce «ora e nell’ora della nostra morte». E non potendo esser pronunciata dai sassi, dal cielo muto, dalla terra arsa o dai rami neri di quel luogo, quella necessaria preghiera si è fatta largo proprio nel punto più nero e riarso, in lui, l’assassino medesimo, orante e non per questo meno assassino...”.
Bello, eh? Non si riesce a capire dove finisca l’editorialista e dove cominci il poeta, tanto sono amalgamati bene. E mica è tutto, perché il pezzo continua: “«Ave Maria, prega per noi peccatori, ora e nell’ora della nostra morte…». E poi sono tornate, dunque, rilanciate sui giornali; se pur agitate per fini di nuova morbosità o solo per dare altro macabro tocco, di fatto quelle parole povere e sacre sono tornate. Quelle uniche parole dicibili veramente tra tutte le parole rovesciate dai media. È come se quelle parole di supplica per lei e per tutti (sì anche per lui, più belanti, deboli ma più vere di ogni sinistra richiesta di condanna a morte) si fossero fatte avventurosamente largo, non solo sulle labbra di preti celebranti e di fedeli, ma tutto intorno, per l’aria italiana, sui tavolini del bar, tra le pagine aperte, nelle autoradio. Nate nel punto più oscuro della vicenda sono diventate poi in un certo senso la corale, la ventosa orazione mille volte rilanciata. Le parole semplici della fede...”.
Voilà, anche «orcoddio!» mi diventa una preghiera. Che editorialista, che poeta!

“Cattolici ed ebrei devono imparare a conoscersi di più”



Le indimenticabili Homiliae adversus judeos di Giovanni Crisostomo sono del 404, ma bisogna aspettare il 438 perché il cristianissimo Teodosio II emani le prime Leggi antiebraiche. Da allora le persecuzioni non avranno più sosta, raggiungendo inaudita efferatezza tra il XIII e il XVII secolo (cataste e cataste di morti). Di lì in poi gli ebrei saranno sgozzati e bruciati sempre più raramente, perché i cristiani si limiteranno a discriminarli e a segregarli. L’odio antigiudaico si raffina, il giudeo diventa sempre più simbolico e diventa sempre meno deicida, per diventare sempre più nemico della società cristiana, e la violenza diventa sempre meno teologica per farsi sempre più culturale e sociale, cioè politica: l’illuminismo, il liberalismo, la massoneria, il comunismo sono perfidi strumenti ebraici per secolarizzare l’occidente cristiano. Alla perdita del potere temporale della Chiesa – siamo a poco più di un secolo fa – l’odio diventa quasi soltanto livore, la violenza quasi soltanto diffamazione, gli argomenti riciclano vecchie mistificazioni. Ultime vampate antigiudaiche: le annate della Civiltà Cattolica a cavallo tra il XIX e XX secolo (per poi passare il testimone all’antisemitismo nazista) e l’ostruzionismo alla fondazione dello Stato di Israele (la Santa Sede lo riconoscerà solo nel 1993, 45 anni dopo). Dopo tutto, sempre perfidi, ’sti giudei!
Ora, nel leggere sul giornale del papa che “cattolici ed ebrei devono imparare a conoscersi di più” (L’Osservatore Romano, 16.10.2010), le labbra mi si schiudono in un sorriso, che subito diventa obliquo. Conoscersi più di quanto già si conoscano? Il sorriso mi si raddrizza a leggere quanto segue: “Soprattutto in Terra Santa”. Tutto normale: i cattolici vogliono dare una rivincita agli ebrei e sono disposti alla partita di ritorno. Gli ebrei dovrebbero pensarci due volte. Continuano a chiamarla Terra Santa invece che Israele o Palestina?  

Apposito


L’occidente si va scristianizzando, urge rivangelizzarlo: il Papa istituisce un apposito Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione e ci mette a capo questo bel pezzo di ricristianizzatore.


Comunque vada, adesso abbiamo almeno un responsabile della secolarizzazione a venire.



Brrr



Un grande esperto di araldica aveva subito parlato di uno “stemma assurdo”, dalla “sciatta e scadente qualità artistica e grafica”, e, fra le tante “novità il cui significato non è chiaro, e che nel linguaggio araldico hanno significati confusi e forse non previsti o voluti” (il quarto non brisato, l’anomala posizione delle chiavi, l’inedito inserimento del pallio, il colore delle infule, ecc.), aveva posto la maggiore attenzione proprio alla “strana e irrimediabilmente brutta mitria” ornata da quelle tre strisce che, almeno all’apparenza, avrebbero voluto “ricordare le tre simboliche corone della tiara”, che pure si era deciso di rimuovere, contro l’uso risalente ad oltre otto secoli: giudizio estetico, ma non solo, perché “l’araldica è la precisa rappresentazione visiva e codificata di una realtà” e, “come ogni linguaggio strutturato, ha un suo vocabolario ed una sua grammatica” che non si possono eludere senza stravolgere i significati (Maurizio Bettoja, Lo stemma di Sua Santità Benedetto XVI, 2006). E tuttavia lo “stemma assurdo” piacque molto al Papa che espresse gratitudine a chi gliel’aveva disegnato.


Bene, cinque anni e mezzo dopo, lo stemma rimane brutto, ma al posto della mitria torna la tiara: è una parziale correzione estetica (e “grammaticale”), ma per un vaticanista italiano, di quelli che stanno ai colleghi di scuola anglosassone come Porro sta a Pulitzer, è inammissibile parlare di correzione e, se la tiara torna al posto della mitria, la cosa avrebbe “un valore simbolico da non sottovalutare” (Il Foglio, 13.10.2010), come se col simbolo mutasse l’idea che questo pontificato ha di se stesso. E il nostro scrive: “L’espunzione della tiara dallo stemma fu un preciso ordine di Ratzinger che voleva dire basta agli orpelli e ai segni rinascimentali. Il segnale che per lui era giunto il tempo di un pontificato «francescano», che nello stemma ricordasse che il Papa è «unus inter pares»: il sogno ancora in vigore di una collegialità democratica. Chi è Benedetto XVI? Nel 2005 molti lo descrissero a partire dal suo stemma: un Papa bavarese e, come tale, deciso a tutelare il patrimonio di identità ripulendolo dalle tentazioni temporalistiche. Ma oggi l’antica corona è tornata sullo stemma. E di Benedetto XVI e del suo pontificato dice molto.
Cosa dovrebbe significare, dunque? Forse che Benedetto XVI voleva dar di sé l’idea di un  «unus inter pares» nel 2005, ed oggi ci ha ripensato? Giacché, “con le sue tre corone, la tiara parla del triplice potere del Papa (padre dei re, rettore del mondo, vicario di Cristo)”, Benedetto XVI intende ribadire l’incoercibile natura temporale del Papato? Brrr.
State tranquilli, è solo una ipotesi (neanche la sola) buttata lì per darvi il brivido. Anche Porro, d’altra parte, si è formato a Il Foglio.


mercoledì 13 ottobre 2010

Ammetto di nutrire pesanti pregiudizi contro il calcio



Ma poi qualcuno mi spiega perché non succede mai col rugby, col tennis, col cricket, ecc.